Santi & Sposi
DICEMBRE
Sommario
Sant'Aurelia di Alessandria Martire, venerata a Montanaro
Santa Bianca di Castiglia Regina di Francia, religiosa
Santi CLAUDIO e ILARIA sposi, GIASONE e MAURO figli
Beato Pier (Pietro) Pettinaio Terziario francescano
Santa Crispina Martire a Tebessa.
Santi Dionisia, Dativa, Leonzia, Terzo, Emiliano, Bonifacio, Maiorico e Servo Martiri
Santa Serena di Spoleto Vedova e martire.
Beato Giuseppe Maria (José Maria) Zabal Blasco Padre di famiglia, martire
Santa Gorgonia - Santa madre di famiglia - Sorella di San Gregorio N.
San Juan Diego Cuauhtlatoatzin Veggente di Guadalupe
Santi Edmondo Gennings e Swithun Wells Martiri
Beato Tassilone III Duca di Baviera
San Simone Hoa Medico, sindaco, padre di famiglia e martire
Beata Pribyslava Sorella di San Venceslao
Santi Pietro Cho Hwa-so e cinque compagni Martiri
Santa Virginia Centurione Bracelli vedova
Beata Maria Vittoria de Fornari Strata Vedova e religiosa
Beato Filippo Siphong Onphitak Padre di famiglia Protomartire della Thailandia
San Josè Manyanet y Vives Sacerdote.
Santa Begga Badessa di Andenne
San Wunibald di Heidenheim (Vunibaldo) Abate
Beata Adelaide di Susa Marchesa
Santi Abramo e Coren Confessori
Beato Paolo (Pablo) Melendez Gonzalo Padre di famiglia, martire
Santa Maria Margherita d'Youville (Dufrost De Lajemmerais) Fondatrice, Madre e vedova
Santa Rachele Seconda moglie di Giacobbe
Santa Paola Elisabetta Cerioli Vedova, fondatrice
Sant'Adele di Pfalzel Abbadessa benedettina
Sant'Anastasia di Sirmio Martire
Santa Fabiola di Roma Matrona romana
Beato Odoardo Focherini Padre di famiglia, martire
Beata Mattia Nazarei (Nazzareni) Badessa clarissa
Santa Benedetta Hyon Kyong-nyon vedova e catechista e compagni Martiri
Beato Guglielmo Howard Visconte di Stafford, martire
Beato Giuseppe (José) Perpina Nacher Giovane laico sposo, martire
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe
Santa Melania la Giovane Penitente
Etimologia: Albano = Albanus, dal latino, proveniente da una delle città chiamate Alba
È ricordato il 1° dic, ma è un santo inventato dagli agiografi. Sono pervenute a noi diverse redazioni della sua biografia. I Bollandisti negli Analecta Bollandiana hanno segnalato una serie di manoscritti conservati in alcune biblioteche d'Europa, che contengono la narrazione della vita di questo favoloso re. Il manoscritto 126 della Biblioteca di Bruges in Belgio reca il titolo: Vita et obitus sanati Albani, qui ortus est de patre et jilia. postea accepit matreni in uxorem; subsequenter occidit patrem et matrem et ad finem inventus est sanctus (Catalogus codicum Hagiographicorum bibliothecae civitalis Brugensis, in Anal Boll., X [1891], p. 454). Il Kraus attribuisce la paternità del racconto a Trasmondo, monaco di Chiaraval-le, ma le sue argomentazioni non persuadono. I Bollandisti ritengono, invece, che Trasmondo sia stato soltanto il redattore di questo strano racconto, ma non l'inventore. Nella vicenda di A. si ha la ripetizione della leggenda mitologica di Edipo, re di Tebe, in una forma ancora più tragica.
Autore: Filippo Caraffa - Fonte: Enciclopedia dei Santi
Ancora martiri e Re! La cosa non sorprende perché i fondamenti della spiritualità coniugale e familiare si sono sviluppati nella chiesa solo recentemente e, nonostante ciò, ancora oggi, i processi canonici per i coniugi sono tenuti come processi separati, di santità individuale, senza tener conto dell'"una caro"...
Sant’ Aurelia nacque in Alessandria d’ Egitto negli anni 40 del terzo secolo e fu martire sotto Valeriano, assieme a numerosi esponenti della sua famiglia: i quattro cugini Adria, Paolina, Neone e Maria, la madre Martana e una zia.
Del padre di lei la storia non parla e di lui ci è taciuto anche il nome, forse perché perso in tenera età, ma del resto i primi anni della sua stessa vita ci sono quasi totalmente ignoti e sappiamo solo che fu la madre l’unica sua educatrice alla virtù e alla religione cristiana.
Giunse però a madre e figlia in Alessandria la notizia che i cugini Adria e Paolina, coi loro figli, avevano in Roma subito il martirio e immediatamente le due donne, sistemati i loro affari in Alessandria, si misero in viaggio verso la capitale dell’Impero, spinte dal desiderio di onorare quei gloriosi campioni della fede e di stabilire la loro dimora presso i loro sepolcri, nelle catacombe di san Sebastiano.
Tra i frequentatori di queste catacombe vi era un giovane romano, ancora pagano, di nome Clodio Dionisio, di nobile stirpe, che annoverava tra i suoi congiunti cavalieri e senatori. Affascinato dalla bellezza e dalla virtù di Aurelia, stimandosi felice di averla per compagna della sua vita, la chiese in sposa. Le trattative tra la madre di lei Martana – al cui saggio consiglio Aurelia si era rimessa- e i genitori di Clodio Dionisio furono, in pochi giorni concluse, e Aurelia ricevette dalle mani di Dio quel giovane che il Signore le destinava a sposo.
Dai documenti storici pervenutici, ai quali dà irrefragabile conferma l’esame medico dei suoi resti mortali, possiamo asserire che Aurelia non aveva più di sedici anni quando andò in sposa a Clodio Dionisio e diede, pochi mesi dopo il suo matrimonio, il sangue e la vita per amore di Gesù Cristo.
Il marito Clodio era ancora pagano quando contrasse in suo matrimonio, ma non potè a lungo desistere alle attrattive della santità della sua consorte e, poco dopo il suo matrimonio, ricevette il battesimo e si fece pure lui cristiano.
Forse per invidia di qualche rivale di Clodio, forse per cupidigia di qualche suo parente, che avrebbe beneficiato dei beni di quella nobile famiglia, qualora fosse stata spenta, allo spirare dell’impero di Valeriano (che cadde prigioniero di Sàpore I re di Persia), e prima che il figlio di lui Gallieno ponesse fine alla persecuzione contro i cristiani, Aurelia, assieme alla madre e a una zia, fu accusata di professare il credo cristiano.
Fu dunque tradotta in tribunale, di fronte al giudice Secondiano, il quale non lesinò promesse di onori e di agiatezze, purché bruciasse l’incenso agli idoli, ma tutto fu vano e Aurelia perseverò nella sua fedeltà a Cristo, venendo quindi condannata a morte per decapitazione. Dovette anche assistere a un supplizio ancora peggiore: veder decapitare, il giorno precedente alla sua esecuzione, la madre e la zia.
Il giorno seguente, 2 dicembre del 260, Aurelia fu tratta dal carcere e, condotta là ove giacevano, stesi al suolo, i corpi decollati della madre e della zia, e con un colpo di spada le fu spiccato il capo dal busto.
Clodio Dionisio, ottenuto a peso d’ oro d’ avere il sacro corpo della martire sua sposa, lo ripose in una bella tomba di marmo bianco, nel Cimitero di Priscilla, con accanto un’ampolla piena del sangue di Aurelia, come si usava, in segno del sofferto martirio. E questa tomba fu, finché visse, oggetto delle sue cure più assidue e meta dei suoi quotidiani pellegrinaggi. Ma temendo che, a causa del trascorrere degli anni, venisse a smarrirsi la memoria di quel prezioso sarcofago, o che il corpo avesse in seguito a confondersi con altri corpi di martiri, coprì il caro avello con una lapide pure di marmo, incidendovi sopra a graffito, come era solito nelle iscrizioni catacombali, le seguenti parole: Clodius Dionysius Aureliae Alexandriae coniugi benemerenti fecit (Clodio Dionisio pose ad Aurelia d’ Alessandria sua benemerita consorte).
Dopo 1500 anni, il Cardinale Vittorio Amedeo delle Lanze, abate commendatario dell’abbazia di Fruttaria in San Benigno Canavese, assai influente a Roma, ottenne il permesso dal pontefice Clemente XIII di raccogliere, il 13 novembre 1758, il corpo della santa assieme ai frammenti del vaso del sangue e alla pietra sepolcrale, destinandola alla sua cappella privata. Con la consacrazione della chiesa parrocchiale di Montanaro, terra dipendente materialmente e spiritualmente dall’ abbazia, avvenuta nel 1765, il corpo della santa fu donato alla suddetta comunità e traslato nella nuova chiesa, ove si trova tutt’ ora.
Autore: Don Giuseppe Ponchia
Palencia, 1188 - Parigi, 26 o 27 novembre 1252
Etimologia: Bianca = riferito al colore della carnagione (italiano)
Figlia di Alfonso IX, re di Castiglia, e di Eleonora d'Inghilterra, Bianca nacque a Palencia agli inizi del 1188. A soli undici anni, fu promessa sposa a Luigi, delfino di Francia, dallo zio Giovanni Senzaterra che intendeva riconciliarsi con il re Filippo Augusto. Il matrimonio dei due giovanissimi principi fu celebrato il 23 maggio 1200 a Portmort, in Normandia, e Bianca, educata cristianamente, allevò con gli stessi sentimenti religiosi i suoi numerosi figli, tra cui Luigi, che sarebbe succeduto al padre sul trono di Francia e che avrebbe ricevuto l'aureola dei santi. Dai Plantageneti suoi avi materni, Bianca ereditò l'eccezionale forza di animo e il senso politico che ben presto dimostrò collaborando alle imprese del marito, da lei incoraggiato nella sua lotta per l'eliminazione degli inglesi dal Poitou.
Divenuta regina di Francia nel 1223, rimase vedova appena tre anni dopo e, assunta la reggenza in nome del figlio minorenne Luigi IX, si trovò subito ad affrontare una coalizione dei grandi feudatari che, sotto la guida di Pierre Mauclerc, duca di Bretagna, miravano a rendersi indipendenti dal potere regio o, quanto meno, cercavano di ottenere una maggiore influenza politica, mal tollerando la reggenza di una straniera. Con accorte manovre, Bianca seppe aver ragione di questa e di altre successive coalizioni, riuscendo anche a debellare Raimondo VII, conte di Tolosa, e ad estendere in Linguadoca l'autorità regia, che fu effettivamente esercitata dopo il matrimonio del figlio Alfonso di Poitiers con Giovanna di Tolosa. Un valido aiuto nelle sue lotte Bianca lo ebbe dal cardinale Romano Frangipane, legato pontificio, presente in Francia già ai tempi di Luigi VIII, che aveva saputo conservare un certo ascendente anche sulla regina. Giunto il figlio alla maggiore età nel 1234, Bianca continuò ancora per una decina d'anni ad occuparsi degli affari di stato al fianco di Luigi IX, fronteggiando nuove sollevazioni, specie quella di Ugo di Lusignano, conte delle Marche. In seguito alla partenza del re per la crociata del 1243, Bianca dovette assumere nuovamente la reggenza e tornare ad occuparsi dell'amministrazione del regno, abbandonata già da qualche anno; durante questa seconda reggenza, non meno travagliata della precedente, preparò l'annessione della Linguadoca alla corona francese e represse energicamente la rivolta dei contadini scoppiata nel 1251.
Sofferente di cuore, Bianca morì a Parigi il 26 o 27 novembre 1252, mentre Luigi IX era ancora in Oriente. Il suo corpo riposa nell'abbazia di Maubuisson, da lei fondata nel 1242 e dove ella stessa aveva preso l'abito cistercense qualche anno prima della morte; il suo cuore, invece, si conserva nell'abbazia di Lys, nei pressi di Melun, dove fu portato il 13 marzo 1253. Bianca è universalmente venerata come santa, benché non sia mai stata canonizzata, e la sua festa si celebra il 2 dicembre.
Ecco la storia "cruenta, ma fulgida, di una famiglia cristiana nell’epoca delle persecuzioni romane".
Etimologia: Ilaria = gaia, allegra, dal latino
Il gruppo di martiri a cui appartiene Ilaria è composto da quattro santi, Claudio, Ilaria, Giasone e Mauro e sono tutti celebrati dal 'Martirologio Romano' il 3 dicembre.
La notizia del loro martirio proviene dal Martirologio di Adone, che la prese dalla ‘passio’ dei santi Crisanto e Daria; secondo questa ‘passio’ Claudio era un tribuno dell’esercito, che mentre interrogava i martiri Crisanto e Daria, alla vista di un miracolo da loro operato, si convertì al cristianesimo insieme alla moglie Ilaria ed i figli Giasone e Mauro e 70 soldati.
Informato dell’avvenimento, l’imperatore Numeriano (283-284) dispose che Claudio fosse gettato in mare con una pietra al collo, mentre i due figli Giasone e Mauro con i 70 soldati, furono condannati alla decapitazione.
Affranta dal dolore Ilaria, non poté recuperare il corpo del marito, ormai perso in mare e mentre si accingeva a seppellire i corpi dei suoi figli, venne arrestata e prima di essere uccisa, ottenne di fermarsi a pregare; durante la preghiera fu martirizzata.
I sepolcri di Ilaria, Giasone e Mauro esistevano nel VII secolo sulla via Salaria, anche menzionati negli ‘Itinerari’ dell’epoca, quello di Mauro era stato ornato con un carme di papa Damaso.
Queste poche note, forzatamente raccontano solo la fine cruenta ma fulgida, di una famiglia cristiana nell’epoca delle persecuzioni romane, nulla sapendo della loro vita vissuta nella società imperiale.
Autore: Antonio Borrelli
Questo santo sposo, mi pare un buon modello per i tempi d'oggi in cui sembra che il ricavo determini ogni scelta. Un commerciante che pone dio al primo posto ed il servizio ai fratelli prima del proprio vantaggio; e il tutto con l'umiltà del silenzio e senza vanagloria... ce ne vorrebbero tanti di laici così, specie in politica!
Questo è un beato laico. Fabbrica e vende pettini; di qui il soprannome. È nato in data incerta a Campi, poi la sua famiglia si è trasferita nella vicina Siena. Sposato, ma senza figli, diventa proprietario di una casa e di una vigna, e si fa presto notare per la generosità anche verso i concorrenti: nei giorni di mercato, arriva tardi a vendere per non danneggiarli troppo. Ma non è mai in ritardo all’ospedale di Santa Maria della Scala, dove medica ferite e piaghe; né alle funzioni in chiesa; né alle case povere, dove porta aiuti insieme a otto amici (mercanti e uomini di legge).
Non lascerà scritti: anzi, saranno famosi i suoi silenzi, tant’è che spesso lo vediamo raffigurato con un dito sulle labbra. Ma le poche cose che dice (e le molte che fa) devono avere un’efficacia eccezionale. Al punto che certi trafficoni, dopo aver frodato la città, riconsegnano il denaro a lui, che lo restituisce al Comune. E il Comune lo chiama spesso per incarichi di fiducia; nel 1282 gli fa perfino scegliere i cinque detenuti da amnistiare. I francescani di Siena, quando hanno dubbi sull’autentica vocazione dei loro novizi, li fanno esaminare da lui. Alla sua vita si ispirano i più rigorosi seguaci di Francesco d’Assisi, gli “spirituali”. L’oratore domenicano Ambrogio Sansedoni, futuro beato, rinuncia a diventare vescovo perché così l’ha consigliato lui. Rimasto vedovo, vende casa e vigna per soccorrere i poveri, e vive gli ultimi anni ospite dei francescani, che seppelliranno poi il suo corpo nella loro chiesa. Spontaneamente i senesi invocano il suo aiuto e gli attribuiscono grazie e prodigi. Anche il Comune lo onora subito come beato. La conferma canonica del culto, invece, arriverà solo nel 1802. Ma già nel Trecento l’efficacia della sua preghiera è stata esaltata da Dante Alighieri nella Divina Commedia (Purgatorio, canto XIII), dove fa dire alla nobildonna senese Sapìa Tolomei: "Io non mi sarei convertita se lui non si fosse ricordato di me". La sua tomba fu poi distrutta da un incendio e di lui restò solo un braccio, conservato dalle clarisse di Siena.
Martirologio Romano: A Siena, beato Pietro Pettinario, religioso del Terz’Ordine di San Francesco, insigne per la particolare carità verso i bisognosi e gli infermi e per la sua vita di umiltà e silenzio.
Dicono che Pietro è onestissimo e già questo, con i tempi che corrono, basterebbe a fare di lui una persona eccezionale. Ma di lui si dicono tante altre cose; ad esempio, che è generoso oltre misura; che non ha paura di sporcarsi le mani nell’assistere i malati, che ispira e merita fiducia. Sembra sia di origini fiorentine, probabilmente di Campi, dove è nato forse nel 1189. A Siena si è trasferito giovanissimo e qui impara il mestiere di costruire pettini, d’osso o di corno, per scardassare la lana e per il telaio della tessitura. A Siena, in quello che allora si chiamava vicolo della Calcina e che adesso è intitolato a lui, viene indicata ancora oggi quella che la tradizione vuole sia stata la sua bottega. Qui “si fa i soldi” e gli antichi catasti lo descrivono proprietario di una casa e di una vigna. A Siena, però, Pietro si “converte” anche. Non sappiamo come, non sappiamo quando, ma sicuramente, ad un certo punto della sua vita, si accorge che nella vita i soldi non sono tutto. Forse ad operare questo suo cambiamento è l’incontro con la spiritualità francescana che si sta diffondendo e che lo permea a tal punto da fare di lui, da tranquillo borghese, un santo laico in piena regola. A cominciare dal lavoro, in virtù del quale gli hanno attribuito il soprannome “Pettinaio”. Dicono che a comprare i suoi pettini vada anche a Pisa e li compra a dozzine, ma prima di tornarsene a casa, passando sul ponte vecchio della città, li controlla minuziosamente uno ad uno e, man mano che ne trova di non perfettamente costruiti o rovinati, li getta in Arno. C’è qualcuno che, facendo appello al comune buon senso, gli fa notare che non sarebbe una frode vendere quei pettini sottocosto, come “merce fallata”, e ricavarne comunque un qualche utile, ma Pier Pettinaio, imperterrito, continua ad accuratamente controllare la sua merce prima di metterla in vendita, perché non vuole che nessuno riceva un danno dal suo commercio. E quello che potrebbe essere un danno per lui, si dimostra invece un’ottima referenza, che gli fa meritare la fama di miglior venditore del mercato senese. Allora, per non approfittare anche di ciò, ne inventa un’altra delle sue: arriva appositamente in ritardo a montare il banchetto sul mercato, per non fare troppa concorrenza ai colleghi. Non tutti capiscono e apprezzano questa sua strategia, ma a Pier Pettinaio basta essere a posto con la sua coscienza di commerciante che non cerca un ingiusto profitto dal suo lavoro. Il resto del suo tempo lo dedica al servizio dei malati, chinandosi a curare le piaghe più ripugnanti e a svolgere i servizi più umili, soccorrendo chiunque ha bisogno e donando generosamente del suo, perché ritiene giusto che i miserabili prendano parte della piccola fortuna che è riuscito onestamente a mettere da parte. L’amministrazione pubblica gli affida incarichi di fiducia, gli fa scegliere i prigionieri da annualmente riscattare e gli fa individuare i poveri cui assegnare un’elemosina pubblica particolare. Ed altrettanto fanno i suoi compaesani, come i trafficoni e gli evasori, che lo scelgono come intermediario per saldare i loro debiti con il fisco cittadino, mentre i francescani si affidano al suo discernimento per pronunciarsi sulle vocazioni “dubbie”. Non si tramandano suoi discorsi o proclami, piuttosto sono famosi i suoi silenzi, tanto che la sua scarsa iconografia lo rappresenta sempre con un dito sulle labbra, quasi a fare di lui il “santo del silenzio”. Le biografie non sono concordi sulla sua vita matrimoniale, e così c’è chi gli attribuisce quattro figli e chi nessuno. Certo è che ad un certo punto della sua vita si trova vedovo e solo e allora cerca ospitalità nel convento dei Frati minori di Pisa. Terziario Francescano, si spoglia di tutti i suoi beni, mentre cresce la sua fama di santità e gli si attribuiscono miracoli e profezie. Perfino Dante lo cita nel XIII canto del Purgatorio, attribuendo alle sue “sante orazioni” la salvezza dell’anima della nobildonna Sapia Salvani. Pellegrina più volte nei luoghi di San Francesco fino a che le forse glielo permettono. Sigillato poi nell’immobilità assoluta da una lunga malattia, che accetta e vive con la pazienza dei santi, muore centenario il 4 dicembre 1289. Un secolo dopo Siena lo invoca già suo protettore, ha istituito una festa solenne in suo onore il 4 dicembre e sono testimoniati pubblici pellegrinaggi sulla sua tomba. Che nel 1655, però, viene distrutta da un incendio e va così dispersa: ma non la sua memoria, cosicché Pio VII, il 2 gennaio 1802, riconosce ufficialmente il culto del beato Pier Pettinaio.
Autore: Gianpiero Pettiti
Crispina, martire. Nata a Tagora, in Numidia, nel 304, durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano, venne arrestata e processata a Tebessa, nell'Africa Proconsolare.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Tebessa in Numidia, nell’odierna Algeria, passione di santa Crispina di Tagora, madre di famiglia, che, al tempo di Diocleziano e Massimiano, fu decapitata per ordine del proconsole Anulino per essersi rifiutata di sacrificare agli idoli.
Il nome la dice " ricciuta ", o " crespa ", ma le sue fattezze non ci sono state tramandate. Probabilmente i capelli già si venavano d'argento, perché non era più giovane, e madre di diversi figli. Nel corso del processo che ella subì, i capelli le vennero rasati per oltraggio e dileggio.
Il ricordo di Santa Crispina e del suo martirio è affidato a due documenti di grande valore storico. Uno è la Passione, tratta dagli Atti ufficiali del processo. L'altro è un sermone di Sant'Agostino, conterraneo della Martire, pronunziato nelle ricorrenze della sua morte.
Nata a Tagora, in Numidia, la donna cristiana, moglie e madre, proveniva da famiglia nobile ed era di condizione agiata. Nel 304, durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano, venne arrestata e processata a Tebessa, nella Africa Proconsolare, davanti al giudice Anulino.
Sant'Agostino commenta così il suo luminoso sacrificio: " I persecutori si accanirono contro Crispina, contro questa donna ricca e delicata: ma ella era forte, perché il Signore era la sua protezione... Questa donna, fratelli, c'è qualcuno in Africa che non la conosca? Fu molto nota, di famiglia nobile, e ricchissima. Ma la sua anima non ha ceduto: è stato il corpo ad esser colpito ".
La Passione, imperniata sul dialogo tra Crispina e il giudice, ci fa vedere con quanta tenacia la donna rifiutasse di " sacrificare ai demoni ", resistendo ad ogni minaccia piuttosto che " sporcare la propria anima con gli idoli, che sono di pietra, fabbricati dall'uomo ".
Prima di lei, erano stati condannati probabilmente altri cristiani. Infatti i calendari fanno i nomi di Giulio, Potamia, Felice, Grato e sette altri. Perciò il giudice le chiese: " Vuoi tu vivere a lungo oppure morire tra i supplizi come gli altri tuoi complici? ". " Se volessi morire - ribatté la donna - non dovrei far altro che dare il mio consenso ai demoni, lasciando che la mia anima si perda nel fuoco eterno ".
Venne emessa la sentenza di condanna, " conforme alle prescrizioni della legge di Augusto ". Crispina l'ascoltò benedicendo il Signore. Poi tese il collo fragile al taglio della spada, poco fuori Tebessa, in un luogo dove è stata ritrovata l'antichissima " memoria " sepolcrale dedicata alla Martire.
Sant’Agostino, nel suo sermone, non esita a paragonare Crispina a Sant'Agnese; accostando la fanciulla candida e intatta come un'agnella ad una donna anziana e consapevole, sposa e madre. Agostino accenna anche alla sublime e misteriosa comunione che unisce ì morti ai viventi, i Santi ai sofferenti. " Questi Santi -egli dice - non soffrono più. Sono qui in mezzo a noi ".
Ciò che era vero per Sant'Agostino, è ancora vero e consolante per noi. Viviamo in mezzo ai Santi, e il loro sacrificio ci è di aiuto.
Fonte: Archivio Parrocchia
Furono sottoposti ad atroci supplizi dal re vandalo Unerico, ariano. Maiorico, ancora bambino, si impaurì alla vista delle torture, ma fu sostenuto dallo sguardo e dalle parole di sua madre, Dionisia.
Martirologio Romano: In Africa settentrionale, commemorazione dei santi martiri della persecuzione vandalica, che, sotto il re ariano Unnerico, furono sottoposti ad atroci e innumerevoli supplizi per aver difeso la fede cattolica; alla loro schiera appartengono i martiri Dionisia e Maioríco, suo figlio, che, ancora bambino, spaventato dalle torture, ma confortato dallo sguardo e dalle parole della madre, si fece ancor più coraggioso degli altri compagni e rese tra i tormenti la sua anima.
Lo storico della persecuzione vandalica in Africa, il vescovo Vittore di Vita, che scriveva sulla fine del sec. V, informa che sotto il re ariano Unnerico molti cristiani dell'Africa proconsolare ebbero a soffrire, per la fede nella S.ma Trinità, atroci tormenti. Erano prese di mira specialmente le donne appartenenti alla nobiltà, che venivano denudate e fustigate in pubblico fino a farle morire dissanguate. A tale genere di supplizio, perché nobile e particolarmente bella, fu sottoposta Dionisia, conterranea di Vittore. Pur tra i tormenti, ella trovò la forza d'incoraggiare al martirio i compagni di fede presenti: l'unico figlioletto suo, Maiorico, a cui poté dare sepoltura con le sue stesse mani, la propria sorella Dativa, e Leonzia, figlia di Germano, vescovo di Perada o Paradana. Ad essi si aggiunsero il venerabile medico Emilio o Emelio (Emiliano, in Usuardo), cognato di Dativa, il cui supplizio Vittore preferisce non descrivere; Terzo, uomo religioso della Byzacena, e Bonifacio Sibid ense, che va identificato probabilmente coll'omonimo vescovo di Sicilibba, a cui furono estratte le viscere.
A questi martiri gli antichi calendari ne associarono altri due che subirono l'estremo supplizio nella medesima persecuzione e nella stessa provincia. Nella città di Tuburbium maggiore (Tuburbin), già celebre per altri martiri ricordati nel Calendario cartaginese al 30 luglio, il nobile e generoso Servo o Servio (che sotto Genserico aveva sofferto per non aver voluto svelare il segreto di un amico), duramente colpito con bastoni, fu levato in alto per mezzo di carrucole e più volte lasciato cadere violentemente al suolo. Nella città Colusitana o Culcitanense (Culsitanum), la più feconda di martiri, la matrona Vittoria o Vittrice subì il martirio imperterrita senza dar ascolto alle preghiere del marito e senza lasciarsi commuovere dalle lacrime dei figli.
Il loro culto è menzionato nei martirologi di diverse Chiese antiche e in quelli di Adone, Floro e Usuardo. Il loro ricordo è attestato nel Leggendario del convento dei Canonici Regolari di Boddeken in Westfalia attraverso un cod. del sec. XIV della Biblioteca Teodoriana di Paderborn. Il Martirologio Romano li commemora il 6 dicembre, ad eccezione di Servo, ricordato nel giorno seguente e di Vittoria che sfuggì ai suoi redattori.
Emiliano ebbe nel tardo Medioevo culto particolare in Napoli, ove sue reliquie sarebbero state portate dagli esuli africani; sulla fine del sec. XIV il sodalizio dei farmacisti, che lo scelsero a loro patrono con s. Pellegrino, eresse un tempietto in suo onore.
Autore: Domenico Ambrasi
Nasce nel 1150 a Niardo, in provincia di Brescia, da una famiglia agiata. Il padre, Gratiadeus, è governatore della Valcamonica. Anche se devoto di santa Margherita, Obizio non intraprende da subito la carriera ecclesiastica ma decide di diventare «Milites», termine allora in uso per designare il gentiluomo dedito, per professione, al maneggio delle armi a cavallo. Ancora giovane, prende in moglie la contessa Inglissenda Porro, da cui avrà quattro figli: Jacopo, Berta, Margherita e Maffeo. Il 7 luglio 1191, sull'Oglio, Obizio si trova a combattere quella che sarà l'ultima battaglia della sua carriera militare. Durante un contrasto con i bergamaschi, che stanno battendo in ritirata, un ponte di legno crolla sotto il peso delle pesanti corazze dei soldati. Obizio finisce nel fiume, tratto a riva perde conoscenza ma ha una visione dell'inferno. L'esperienza lo porterà a scegliere la vita religiosa. La famiglia dapprima lo ostacolerà e poi lo sosterrà. Nel 1197, ottenuti i consensi necessari, è ammesso come oblato nel monastero di Santa Giulia a Brescia. Trascorrerà gli ultimi anni della sua vita in questo luogo. Morì nel 1204. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Brescia, sant’Obizio, che, cavaliere, convertitosi a Dio e datosi a una vita di penitenza, distribuì i suoi averi per il bene di tutti.
Sant’Obizio nasce intorno al 1150 a Niardo, un paese in provincia di Brescia. Nessun documento riporta con esattezza la sua data di nascita. Un'indicazione, seppur incerta, ci viene dalla tradizione popolare che vuole sia il 4 febbraio.
L'agiatezza della famiglia e la posizione sociale del padre, Gratiadeus, governatore della Valcamonica, fanno da sfondo ad un'infanzia serena e ad una giovinezza non priva di svaghi.
È molto devoto a S. Margherita, che figurerà addirittura sul suo scudo, e, fra i suoi antenati, si rivela la presenza di uno zio fondatore di due monasteri e una parentela alquanto stretta con S. Costanzo, l'altro patrono di Niardo. La religione, però, non occupa ancora il primo posto nella sua vita.
Obizio, sull'esempio del padre, decide di intraprendere la carriera di "Milites", termine allora in uso per designare il gentiluomo dedito, per professione, al maneggio delle armi a cavallo.
Ancora giovane, prende in moglie la contessa Inglissenda Porro, da cui avrà quattro figli: Jacopo, Berta, Margherita e Maffeo.
Favorito dalla sua forza, agilità e intelligenza, diventa ben presto un ottimo guerriero. Grazie al suo coraggio e valore è insignito a parecchi onori militari. Una brillante carriera militare sembra attenderlo.
È proprio nel corso di uno dei tanti combattimenti che accade l’evento straordinario che obbliga Obizio a rivedere completamente la sua esistenza.
L'ultima battaglia del futuro Santo, si svolge il 7 luglio 1191, sul fiume Oglio, in territorio bresciano. Obizio, a capo del suo esercito, è impegnato a respingere l'attacco dei Bergamaschi. Questi ultimi, ormai in ritirata, si accalcano su di un ponte costruito con materiale ligneo di fortuna.
La fragile struttura del ponte, messa a dura prova dalle violente sollecitazioni e dal ben grave peso dei cavalieri in armatura e dai loro destrieri, non regge all'urto. In un attimo, tutto crolla, uomini e cavalli precipitano insieme nelle gelide acque sottostanti.
Anche Obizio è fra di loro. Rischia di affogare, appesantito com'è dall'armatura e ostacolato nei movimenti dallo scenario di morte che regna tutt'intorno: nel fiume galleggiano, l'uno fianco all'altro, come in battaglia, i corpi dei senza vita, i moribondi, i feriti che invocano soccorso, macerie d'ogni genere…
Obizio, ormai allo stremo delle forze, viene soccorso da un conoscente che lo trae in salvo sulla riva. Esausto, cade a terra, privo di conoscenza, e vive in questi momenti l'esperienza che cambierà per sempre la sua vita: una visione lo conduce all'inferno. È una visione cupa, minacciosa, densa d'odio lacerante, d'angoscia profonda, di disperazione senza fine. È una visione di tale intensità d'emozioni, così vivida, precisa, reale, che scuote il cuore del futuro Santo.
Obizio decide proprio in quegli attimi di dare l'addio alle armi e di dedicare la sua vita totalmente a Dio.
Inizialmente, questo proposito è ostacolato dalla moglie e dai figli che non riescono a comprendere il motivo dell'improvviso cambiamento e tentano, in tutti i modi, di distoglierlo da questa sua decisione, per poterlo riportare alla vita ricca d'agi che sino allora egli aveva condotto.
Obizio, però, è irremovibile. Anzi, inizia un'opera di paziente convincimento perché i suoi familiari lo comprendano e lo imitino. Le sue preghiere, unite a quest'azione costante, tramutano la moglie e i figli da ostili a sostenitori. Addirittura, i suoi due ultimi figli, Margherita e Maffeo, vorranno seguire le sue orme e diverranno religiosi.
Obizio dovrà attendere ancora parecchi anni prima di potersi consacrare interamente a Dio; anni che il Santo trascorre con la sua famiglia ma in completa povertà, in preghiera e dedicandosi ad innumerevoli opere di bene.
Nel 1197, ottenuti finalmente i consensi necessari, è ammesso come oblato nel monastero di Santa Giulia a Brescia. Sant'Obizio trascorrerà gli ultimi anni della sua vita in questo luogo, dedicandosi completamente a Dio e ai più bisognosi e compiendo i primi di una lunga serie di miracoli.
Intanto, si spargono voci sulle sue opere di carità e sui miracoli da lui compiuti. La gente capisce di avere un Santo in città.
Sant'Obizio muore il 6 dicembre 1204, dopo aver dato l'ultimo saluto ai suoi familiari. Le esequie, celebrate nella chiesa del monastero di S. Giulia, saranno svolte con gran solennità e con tutto l'onore riservato ai Santi.
Autore: Claudia Gioia
Abbiamo sue notizie dalla vita di san Savino vescovo di Spoleto. Visse quindi nella stessa epoca del Santo Vescovo ed è ricordata per la sua carità eroica e per la venerazione verso il suo vescovo.
Martire sotto Diocleziano, non si hanno più sue notizie fino al sec. X quando le sue venerate reliquie dal Monastero di san Savino vengono traslate a Metz dal vescovo Teodorico.
La memoria liturgica è il 7 dicembre come san Savino, ma anche il 30 gennaio e 22 novembre.
Nella leggendaria narrazione della Vita di s. Savino vescovo di Spoleto si ha qualche notizia riguardante s. Serena. Era una vedova che profuse con grande impegno l’amore per il prossimo e aveva avuto una grande venerazione per il vescovo Savino; durante la persecuzione di Diocleziano subì il martirio, altre notizie non ve ne sono.
Nel secolo X il vescovo di Metz in Francia ottenne di trasferire le reliquie della martire, che fino allora era stata sepolta nel monastero di san Savino presso Spoleto, godendo di grande venerazione di popolo.
Con la traslazione delle reliquie a Metz (970) il culto si estese, generando così anche uno sdoppiamento.
Si celebra il 7 dicembre come san Savino ma anche il 30 gennaio. Al 16 agosto di qualche calendario è riportato il nome di s. Serena, si tratta della moglie di Diocleziano che nei leggendari Atti di s. Marcello e di s. Susanna si narra che intervenne per difendere i cristiani; si tratta di una notizia falsa in quanto Lattanzio che visse alla corte di Diocleziano nel suo “De mortibus persecutorem” dice che la moglie si chiamava Prisca e la figlia Valeria, quindi storicamente la celebrazione non è esatta.
Diminutivo: Serenella. Dal latino serenus inizialmente solo un significato atmosferico “cielo senza nuvole” poi assunse anche un significato psicologico.
Autore: Antonio Borrelli
Valencia, Spagna, 19 marzo 1898 - Picadero de Paterna, Spagna, 8 dicembre 1936
Martirologio Romano: Nel villaggio di Picadero Paterna nel territorio di Valencia in Spagna, beato Giuseppe Maria Zabal Blasco, martire, che, padre di famiglia, durante la persecuzione contro la fede vinse con la fortezza in Cristo i supplizi del martirio.
José María Zabal Blasco, fedele laico, nacque a Valencia il 19 marzo 1898. All’età di dodici anni rimase orfano di padre e fu assunto come apprendista nello studio dell’avvocato Pablo Meléndez Ponzalo e poi tra il personale direttivo nelle ferrovie. Il 3 maggio 1925 convolò a nozze con Catalina Cerdá Palop, matrimonio dal quale nacquero tre figli, che insieme educarono cristianamente. Uomo di grande fede e pietà, José María aderì all’Azione Cattolica e fu membro di un sindacato cattolico, ove si distinse nella difesa dei diritti dei lavoratori.
Allo scoppio della guerra civile e della feroce persecuzione religiosa che attraversò la Spagna, José María Zabal Blasco fu catturato nei primi giorni del novembre 1936 e subì il martirio l’8 dicembre 1936, sollenità dell’Immacolata Concezione di Maria, presso Picadero de Paterna, vicino a Valencia.
Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001 elevò agli onori degli altari ben 233 vittime della medesima persecuzione, tra i quali questa bella figura di laico, lavoratore e padre di famiglia.
Autore: Fabio Arduino
Martirologio Romano: A Nazianzo in Cappadocia, nell’odierna Turchia, santa Gorgonia, madre di famiglia, che fu figlia di santa Nonna e sorella dei santi Gregorio il Teologo e Cesario, le cui virtù celebrò lo stesso Gregorio.
Gorgonia ha una qualifica insolita, anche se bellissima: Santa madre di famiglia. Madre di famiglia, così come altre sono Martiri, Vedove o Fondatrici. Madre di famiglia appartenente ella stessa ad una famiglia di Santi, quella che nel IV secolo, a Nazianzo, in Cappadocia, fiorì attorno a Gregorio il Vecchio, Santo, e a sua moglie Nonna, anch'ella Santa. Essi ebbero tre figli, e tutti e tre Santi: Gregorio il Giovane, famoso Dottore della Chiesa; Cesario, medico; e la primogenita Gorgonia.
Gorgonia seguì l'esempio di Santa Nonna, si sposò, ed ebbe tre figlie. Pare che si battezzasse soltanto a tarda età, come il fratello Cesario. Nonostante ciò, la sua vita fu di una virtù specchiata, di una pietà profonda; ed esemplare fu anche l'educazione impartita alle tre figliole.
Desiderò per lunghi anni il Sacramento che finalmente la fece cristiana, con una trepidazione e un ardore che ancora commuovono, ed il cui eco fu raccolto dal grande fratello Gregorio, quando, con mesto affetto, ne scrisse l’elogio funebre.
Dall'ebraico "Hannah", Anna significa "pietà". Più donne bibliche portano questo nome; quella di cui parleremo oggi è una delle due mogli di Elkana lo Zufita. Essendo sterile, andata pellegrina al Tempio di Silo, una vallata tra Sichem e Rama, la località dove abitava, implora il Signore di renderla madre, facendo voto di offrigli la sua creatura per tutti i giorni della sua vita" (I Sam 1,12). Ottenuta la grazia, Anna impone al figlio agognato uno splendido nome che fa capire trattarsi di una vera e propria consacrazione: Samuele in ebraico vuoi dire infatti "il nome (di Dio) è EI" (Shem-EI) ma collegato anche al fatto che la madre lo ha lungamente e insistentemente richiesto, tale sarebbe il significato poiché in ebraico "shal'al" è come dire "domandare", logicamente in questo caso al Signore, (I Sam, 1-20). Sant'Anna è festeggiata dai Greci all'8 e 9 dicembre.
La nascita di Samuele (Sam 2,1-10) ispira ad Anna un cantico di ringraziamento che taluni hanno considerato il prototipo del Magnifìcat. Nel libro I di Samuele (2,1) leggiamo:
"Esulta il mio cuore nel Signore; per grazio del Signore si innalza la mia fronte. Si apre liberamente la mio bocca contro i miei nemici; perché io godo della vittoria che mi hai concesso. Non vi è alcuno santo come il Signore; perché non vi è alcuno fuori di lui; e non cè rocca come il nostro Dio. Non moltiplicate i discorsi superbi; dalla vostra bocca non escano arroganze; poiché il Signore è il Dio del sapere; e le opere sue sono rette. L'arco dei forti si è spezzato, ma i deboli sono stati rivestiti di vigore. Quei che erano sazi, per il pane andarono a giornata, mentre gli affamati hanno cessato di faticare. Colei che era sterile partorì sette figli e la madre di numerosa prole è sfiorita (...) Il Signore fa morire e vivere; conduce alla morte e ne richiama. Il Signore fa impoverire e arricchire, abbassa e anche esalta (...) Il Signore giudica i confini della terra; darà forza al suo re; ed eleverà la potenza del suo Messia".
Come costatiamo, c'è una certa analogia con il Magnificat di Maria, ma non pare possa esser messo sullo stesso piano del cantico esploso dall'animo di Maria Vergine Madre al sentire il saluto della cugina Elisabetta, quando dopo l'Annuncio dell'arcangelo Gabriele, si reca ad Ain Karim per portarle benedizione e aiuto.
Dopo avere svezzato il figlio, Anna grata al Signore e fedele al voto fatto, ritorna a Silo e consegnando il figlioletto nelle mani del sacerdote Eli, dice: "Per questo bambino ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho chiesto. Per questo in cambio lo offro in dono al Signore per tutti i giorni della sua vita" (1 Sam 1, 27-28).
Così Samuele cresce nel servizio del Signore, che avendo sul ragazzo particolari disegni, lo segue con "voci" e inequivocabili "messaggi": il figlio della fedele Anna è destinato a essere un grande profeta. E non vi è lettore della Bibbia che non ricordi la descrizione, molto bella, della triplice chiamata divina durante la notte; Samuele la ritiene come suggerimento di Eli, il quale gli ricorda di rispondere, qualora il "fenomeno" si ripetesse per la terza volta: "Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta". Ciò che difatti avviene.
Il giovane Samuele, sentendo che il Signore era con lui e chiamava lui non tralasciò di ascoltare e comprendere nessuna parola, perciò "acquistò autorità, e tutto Israele seppe che Samuele, da Dan fino a Bersabea, era stato costituito profeta dal Signore. In seguito Iddio, dopo che si era rivelato a Samuele in Silo, fece sì che quanto questi diceva giungesse a tutto Israele come parola del Signore" (I Sam 3, 19-21).
E Samuele fu riconosciuto come personaggio credibile e autorevole; fu ritenuto personaggio interessante e complesso per le funzioni che dovette ricoprire: non fu soltanto "profeta" bensì "giudice" e "guida" sicura per il suo popolo.
La storia di Samuele è importante soprattutto perché nel suo tempo (circa 1050-1000) Israele, era costretto a soffrire una fase storica quanto mai complicata mancando di un’autentica guida politica nel suo interno, e si dibatteva in grandi difficoltà soprattutto all'esterno, per la minaccia dei popoli vicini, in modo speciale per le continue aggressioni da parte dei Filistei. Nello stesso tempo agiva soprattutto come profeta, mai stanco di trasmettere al popolo eletto il volere di Dio. Sicché non smetteva di ricordare che se si voleva la vittoria contro i Filistei, Israele e quanti lo guidavano dovevano assolutamente assegnare a Dio il "primato", di essere fedeli al loro unico vero Dio e respingere ogni tentazione di idolatria.
"Se è proprio di tutto cuore che voi tornate al Signore, eliminate da voi tutti gli dèi stranieri ... fate in modo che il vostro cuore sia indirizzato al Signore e seguite lui, lui solo, ed egli vi libererà dalle mani dei Filistei", (I Sam 7,3-5). E così avviene.
Anna, una santa madre, ha avuto l'intuizione di volere un figlio non per sé ma per il Signore; e al Signore lo offre per tutta la vita. Anna ha visto giusto: dopo Samuele, avrà altri tre figli e due figlie (Sam 1, 20-21) ma sul primo, il Signore aveva disegni particolari. Sarà un grande profeta, e la sua azione risalterà specialmente durante il passaggio dal periodo dei Giudici a quello della Monarchia: è Samuele che ungerà i primi due re (Sam I 10,1-8; 16,1-13) ma di ciò parleremo quando tratteremo delle donne che hanno avuto importanza nella vita di Davide ed è lui che guiderà coloro che avranno il compito sociale di guidare il popolo.
Compiuta la sua missione, Samuele scompare dalla scena, e solo qualche tempo dopo si dà notizia della sua scomparsa: "Samuele morì e tutto Israele si radunò e lo pianse. Lo seppellirono presso la sua casa in Rama. Davide si alzò e scese al deserto di Paran" (I Sam 25-1).
La memoria di Samuele rimase viva in Israele, gli israeliti ne ebbero grande stima e continuarono a benedirlo, come si può leggere nel (Salmo 26,99-6 e in Geremia 15,1). Lo elogia pure il Siracide (46,13-20) collocandolo tra i grandi profeti del suo popolo: "Samuele, amato dal suo Signore, di cui fu profeta.
Lo ricorda anche il Nuovo Testamento, onorandolo come uno dei profeti che hanno preannunciato l'avvento del Messia. "I profeti a cominciare da Samuele e da quanti parlano di lui, in seguito annunciarono questi giorni" (At 3,24)
Ha ben meritato una pagina nel gran Libro, Anna, questa santa madre...
Fonte: www.preghiereagesuemaria.it
1474 circa - Guadalupe, 1548
Nel dicembre 1531 la Madonna apparve a Guadalupe, in Messico, scegliendo come suo interlocutore un povero indio, Juan Diego, nato verso il 1474 e morto nel 1548, che prima di convertirsi al cattolicesimo portava un affascinante nome azteco, Cuauhtlotatzin, che sta a significare “colui che parla come un’aquila”. Cuauhtlotatzin fu tra i primi a ricevere il battesimo, nel 1524, all’età di cinquant’anni, con il quale gli fu imposto il nuovo nome cristiano di Juan Diego, e con lui venne battezzata anche la moglie Malintzin, che prese a sua volta il nome di Maria Lucia. Rimasto vedovo dopo solo quattro anni di matrimonio, orientò tutta la sua vita a Dio. Dopo le apparizioni della S. Vergine sulla collina del Tepeyac visse santamente per 17 anni in una casetta che il vescovo Zumàrraga gli aveva fatto costruire a fianco della cappella eretta in onore della Vergine di Guadalupe. Giovanni Paolo II nel 1990 lo ha dichiarato beato, per proclamarlo infine santo nel 2002.
Martirologio Romano: San Giovanni Diego Cuauhtlatoatzin, che, di origine indigena, dotato di fede purissima, con la sua umiltà e il suo fervore fece sì che si edificasse il santuario in onore della Beata Maria Vergine di Guadalupe sul colle Tepeyac presso Città del Messico, dove ella apparve a lui ed egli si addormentò nel Signore.
Con lo sbarco degli spagnoli nelle terre del continente latino-americano aveva avuto inizio la lunga agonia di un popolo che aveva raggiunto un altissimo grado di progresso sociale e religioso. Il 13 agosto 1521 segnò il tramonto di questa civiltà. Tenochtitlan, la superba capitale del mondo atzeco, fu saccheggiata e distrutta. L’immane tragedia che ha accompagnato la conquista del Messico da parte degli spagnoli, sancisce per un verso la completa caduta del regno degli aztechi e per l’altro l’affacciarsi di una nuova cultura e civiltà originata dalla mescolanza tra vincitori e vinti.
E’ in questo contesto che, dieci anni dopo, va collocata l’apparizione della Madonna a un povero indio di nome Juan Diego, nei pressi di Città del Messico. La mattina del 9 dicembre 1531, mentre sta attraversando la collina del Tepeyac per raggiungere la città, l’indio è attratto da un canto armonioso di uccelli e dalla visione dolcissima di una Donna che lo chiama per nome con tenerezza. La Signora gli dice di essere "la Perfetta Sempre Vergine Maria, la Madre del verissimo ed unico Dio" e gli ordina di recarsi dal vescovo a riferirgli che desidera le si eriga un tempio ai piedi del colle. Juan Diego corre subito dal vescovo, ma non viene creduto.
Tornando a casa la sera, incontra nuovamente sul Tepeyac la Vergine Maria, a cui riferisce il suo insuccesso e chiede di essere esonerato dal compito affidatogli, dichiarandosene indegno. La Vergine gli ordina di tornare il giorno seguente dal vescovo, che, dopo avergli rivolto molte domande sul luogo e sulle circostanze dell’apparizione, gli chiede un segno. La Vergine promette di darglielo l’indomani. Ma il giorno seguente Juan Diego non può tornare: un suo zio, Juan Bernardino, è gravemente ammalato e lui viene inviato di buon mattino a Tlatelolco a cercare un sacerdote che confessi il moribondo; giunto in vista del Tepeyac decide perciò di cambiare strada per evitare l’incontro con la Signora. Ma la Signora è là, davanti a lui, e gli domanda il perché’ di tanta fretta. Juan Diego si prostra ai suoi piedi e le chiede perdono per non poter compiere l’incarico affidatogli presso il vescovo, a causa della malattia mortale dello zio.
La Signora lo rassicura, suo zio è già guarito, e lo invita a salire sulla sommità del colle per cogliervi i fiori. Juan Diego sale e con grande meraviglia trova sulla cima del colle dei bellissimi "fiori di Castiglia": è il 12 dicembre, il solstizio d’inverno secondo il calendario giuliano allora vigente, e né la stagione né il luogo, una desolata pietraia, sono adatti alla crescita di fiori del genere. Juan Diego ne raccoglie un mazzo che porta alla Vergine, la quale però gli ordina di presentarli al vescovo come prova della verità delle apparizioni. Juan Diego ubbidisce e giunto al cospetto del presule, apre il suo mantello e all’istante sulla tilma si imprime e rende manifesta alla vista di tutti l’immagine della S. Vergine. Di fronte a tale prodigio, il vescovo cade in ginocchio, e con lui tutti i presenti.
La mattina dopo Juan Diego accompagna il presule al Tepeyac per indicargli il luogo in cui la Madonna ha chiesto le sia innalzato un tempio. Nel frattempo l’immagine, collocata nella cattedrale, diventa presto oggetto di una devozione popolare che si è conservata ininterrotta fino ai nostri giorni. La Vergine ha scelto come suo interlocutore un “povero indio”, Juan Diego, nato verso il 1474 e morto nel 1548 a Guadalupe, che prima di convertirsi al cattolicesimo portava un affascinante nome azteco, Cuauhtlotatzin, che sta a significare “colui che parla come un’aquila”. Varie fonti ci tramandano i dati biografici del veggente del Tepeyac: egli è un macehual, cioè un uomo del popolo, piccolo coltivatore diretto in un modesto villaggio: poco più di niente, nella società azteca complessa e fortemente gerarchizzata. Cuauhtlotatzin fu tra i primi a ricevere il battesimo, nel 1524, all’età di cinquant’anni, con il quale gli fu imposto il nuovo nome cristiano di Juan Diego, e con lui venne battezzata anche la moglie Malintzin, che prese a sua volta il nome di Maria Lucia.
Il neoconvertito si distingueva in mezzo agli altri per la sollecitudine nel frequentare la catechesi e i sacramenti, senza badare ai sacrifici che questo richiedeva: si poneva in cammino fin dalle prime ore del giorno per raggiungere Santiago di Tlatelolco, dove i francescani radunavano gli indigeni per catechizzarli. Rimasto vedovo dopo solo quattro anni, Juan Diego orienta la sua vita ancora più decisamente verso Dio: trascorre tutto il suo tempo fra il lavoro dei campi e le pratiche della religione cristiana, fra cui l’ascolto della catechesi impartita agli indigeni convertiti dai missionari spagnoli. Conduce una vita esemplare che edifica molti. L'esperienza eccezionale vissuta sul Tepeyac s'inserisce in un’esistenza gia’ trasformata dalla grazia del battesimo e cementata dall’incontro con la Madre di Dio che ne potenzia in modo straordinario il cammino di fede, fino a spingerlo ad abbandonare tutto, casa e terra, per trasferirsi in una casetta che il vescovo Zumàrraga gli ha fatto costruire a fianco della cappella eretta in onore della Vergine di Guadalupe.
Qui Juan Diego vive per ben 17 anni in penitenza e orazione, assoggettandosi agli umili lavori di sagrestano, senza mai mancare al suo impegno di testimoniare quanto Maria ha fatto per lui e può fare per tutti quelli che con affetto filiale vorranno rivolgersi al suo cuore di Madre.
La morte lo coglie nel 1548, quando ha ormai 74 anni. La sua fama di santità, che già l’aveva accompagnato in vita, cresce nel tempo fino ai nostri giorni, finche’ nel 1984 si dette finalmente inizio alla sua causa di beatificazione e si pose mano all'elaborazione della Positio, orientata a comprovarne non solo il culto, da tempo immemorabile, ma anche a dimostrare le virtu’ del servo di Dio e a illustrarne la vita, separate il più possibile dal fatto guadalupano. Attraverso una solida base documentale si voleva cioè dimostrare che Juan Diego, per i suoi soli meriti di cristiano, era degno di assurgere agli onori degli altari, finche’ – al termine di un complesso iter ecclesiastico - con il decreto Exaltavit humiles (6 maggio 1990), se ne è finalmente concessa la memoria liturgica, fissata al 9 dicembre, data della prima apparizione della “Morenita”. Giovanni Paolo II ha dichiarato beato il veggente Juan Diego nel 1990, per proclamarlo infine santo nel 2002.
Autore: Maria Di Lorenzo
+ Londra, Inghilterra, 10 dicembre 1591
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, santi martiri Edmondo Gennings, sacerdote, e Swithin Wells, che, condannati a morte durante la persecuzione
Il 10 dicembre 1591 furono martirizzati a Londra ben sette cattolici, colpevoli di fedeltà alla Santa Sede e di non aver aderito all’anglicanesimo, in seguito ad un decreto reale che rafforzò le leggi contro il cattolicesimo. Tra di essi figurano Edmondo Gennings e Swithun Wells.
Edmondo Gennings, alias “Ironmonger” (“ferramenta”), era nato a Lichfield nel 1567. Compiuti gli studi a Reims, ricevette l’ordinazione presbiterale a Soissons e dal 9 aprile 1590 iniziò a svolgere il suo ministero in Inghilterra. Approdato a Whitby, si diresse verso il suo paese natale, ma qui scoprì che i suoi genitori erano ormai morti. Raggiunse allora Londra in cerca di suo fratello Giovanni, acceso puritano, che lo avvertì del pericolo di morte se fosse diventato sacerdote e del discredito che avrebbe gettato sui suoi amici.
Edmondo si trasferì allora in campagna per qualche mese, ma nell’autunno del 1591 fece ritorno a Londra, ove celebrò l’Eucaristia in casa di un anziano maestro, Swithun Wells, e di sua moglie Margherita. Durante la Messa, sopraggiunse il notorio Topeliff, l’inquisitore, con i suoi soldati. I membri della congregazione riuscirono a tenerli a bada sino al termine della celebrazione, poi però Edmondo fu arrestato insieme con un altro sacerdote, Polidoro Plasden, i coniugi Wells ed altri due laici, Giovanni Mason e Sidney Hodgson, tutti accusati di essere suoi complici. Tutti e sei furono condannati a morte e giustiziati: Edmondo fu impiccato, sventrato e squartato, mentre Swithun solamente impiccato. Ciò avvenne a Gray’s Inn Fields, nei pressi della casa dei Wells. Il medesimo giorno Polidoro Plasden ed i due laici furono giustiziati con la medesima atrocità presso Tyburn, insieme al sacerdote Eustazio White e Brian Lacy. La signora Wells fu invece graziata, ma morì comunque in prigionia dieci anni dopo.
Giovanni, il fratello di Edmondo Gennings, suo unico parente ancora in vita, al momento dell’assassinio affermò che egli “anelava, piuttosto che temere, una fine precoce e sanguinosa dei suoi parenti più prossimi”, tuttavia dieci giorni dopo si convertì anch’egli al cattolicesimo ed entrò tra i frati minori. Divenne addirittura ministro dei francescani inglesi e, tra il 1619 ed il 1621, fondò il convento delle Terziarie Inglesi a Bruxelles, che poi trasferì a Taunton.
Edmondo Gennings e Swithun Wells furono beatificati nel 1929 con numerose altre vittime della medesima persecuzione e canonizzati da Papa Paolo VI il 25 ottobre 1970 con il gruppo dei Quaranta Martiri d’Inghilterra e Galles. Nel 1929 fu proposta anche la causa di canonizzazione della signora Wells, in attesa di ulteriori prove.
Autore: Fabio Arduino
Nato nel 742, Tassilone III duca di Baviera già nel 748, prestò nel 757 ancora quindicenne il giuramento di vassallo a suo zio Pipino il Breve a Compiègne. Ciò nonostante lo abbandonò durante la campagna di Aquitania nel 763 e regnò politicamente indipendente, avendo sposato Liutberga, figlia di Desiderio, re dei Longobardi (765). Sebbene avesse rinnovato l'atto di omaggio davanti a Carlo Magno nel 781, Tassilone III strinse alleanze ostili ai Franchi, tra l'altro con gli Avari pagani, fino a quando Carlo Magno, con la minaccia di tre eserciti franchi, lo costrinse ad arrendersi; riconosciuto traditore fu condannato a morte nel 788 ad Ingelheim. Carlo però tramutò la pena in relegazione a vita in un monastero. Al sinodo imperiale di Francoforte nel 794, Tassilone III dovette rinunciare ancora una volta a tutti i suoi diritti sulla Baviera, per sé e per i figli del resto già chiusi in un monastero. Fonti antichissime parlano di una relegazione nel monastero di Jumièges, mentre Otto di Frisinga (metà sec. XII) menziona in proposito il monastero di Lorsch. Stollenmayer risolve tale contraddizione nel senso di un soggiorno di Tassilone III in Lorsch negli anni 788-94 e dal 794 a Jumièges, dove mori e venne sepolto col suo figlio Theodo. Il monumento sepolcrale dei deux énervés (sec. XIII) circondato da tante leggende e conservato oggi nel Museo di Jumièges, sarebbe il monumento sepolcrale di T. e di Theodo. L'anno della morte di Tassilone III è ignoto e come giorno si riferisce l'11 dic.
Durante il suo governo Tassilone III presiedette tre sinodi, destinati a consolidare l'esistenza della Chiesa in Baviera. Sotto di lui furono fondati e rinnovati numerosi monasteri che lo dovevano appoggiare contro i vescovi «francofili» e che — specialmente dopo la vittoria riportata da lui sui Carantani, pagani della Carinzia, nel 772 — dovevano servire come base alla colonizzazione ed alla missione nel Sud-Est, cosi per es. Innichen e sorattutto Kremsmunster (777), dove si conserva ancora oggi il celebre calice di Tassilone III, uno dei capolavori più tipici dell'arte del suo tempo. I giudizi sul carattere e sull'operato di Tassilone III oscillano tra la disapprovazione (Hauck) e l'elogio: è stato infatti chiamato anche «principe pio».
La leggenda (Rudolf von Polling, Protestatto veritatis de Tassilonis vita et degradatione [1281], ed. G. Leidinger, in Neues Archiv der Gesellschaft fur altere deutsche Geschichtskunde, XXIV [1899], pp. 681-84) cerca di colmare le numerose lacune circa gli ultimi anni di vita di Tassilone III; ci racconta che Carlo Magno lo fece accecare, ma lui veniva guidato sicuramente dagli angeli; inoltre ci narra che mori beatamente e che presso la sua tomba (a Lorsch) furono esaudite molte preghiere. Molti monasteri, che a ragione o a torto, vedono in Tassilone III il promotore della loro fondazione, lo ricordano a volte quale «beato», appoggiandosi alla leggenda di Rudolf di Polling; dal sec. XVI alcune raffigurazioni ce lo mostrano negli abiti monacali, ornato dell'aureola. A partire dal Wion (1595) è ricordato in parecchi martirologi. Ancora oggi i monasteri di Kremsmùnster e di Frauenchiemsee celebrano l'11 dic. un Ufficio solenne in sua memoria ed il suo nome è ancora oggi ricordato nella professione solenne. Ora tuttavia non gode più apertamente del titolo di beato, sebbene nella preghiera che le monache di Frauenchiemsee recitano l'11 di ogni mese dopo il vespro, ricorra l'espressione beati Tassilonis Confessoris. Già Rader (1615) si asteneva dall'accettare o dal rifiutare l'appellativo di «beato», e Ma-billon non si sentiva in grado di dargli il titolo di «santo».
Autore: Konrad Kunze
Mai Vinh, Vietnam, 1787 circa - An Hòa, Vietnam, 12 dicembre 1840
Martirologio Romano: A Huê in Annamia, ora Viet Nam, san Simone Phan Ðàc Hòa, martire, che, medico e padre di famiglia, insigne per la sua carità verso i poveri, catturato per aver dato ospitalità ai missionari sotto l’imperatore Minh Mang, dopo il carcere e le flagellazioni coronò il martirio con la decapitazione.
Quando nel XVI secolo gli europei giunsero la prima volta nell’odierno Vietnam, regione un tempo nota come Indocina, vari regni erano qui in guerra tra loro, seppur tutti soggetti in qualche modo all’influenza cinese. Portoghesi ed olandesi istituirono centri commerciali ed i francesi, dal 1770, dopo aver ceduto l’India agli inglesi cominciarono ad insediarsi proprio in Vietnam. In questo momento periodo di espansione colonialistica e di pressione da parte cinese, l’attività missionaria intrapresa dalla Chiesa cattolica ricevette sporadici attacchi: vescovi, sacerdoti e laici, sia europei che indigeni, subirono il martirio in odio alla fede cristiana. Non si conoscono i nomi di tutti questi insigni testimoni di Cristo, ma comunque ben 117 di essi sono stati dichiarati “santi” da Papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988.
Una violenta persecuzione si scatenò tra il 1838 ed il 1840, dopo un periodo di circa vent’anni di pace e tolleranza religiosa. Gia Long, signore e potente guerriero, si era proclamato imperatore sin dal 1806 e dopo il 1820, quando Minh Mang ascese al trono cinese, condivise la decisione di opporsi ai cambiamenti sociali, culturali e tecnologici provenienti dall’Occidente. Minh, fedelissimo seguace del confucianesimo, mal tollerava l’attività missionaria promossa dai cristiani, ignorando forse che Cristo stesso quale uomo fu asiatico e non europeo. Anche Gia Long seguì la sua linea di opposizione ad una religione ritenuta occidentale: nel 1832 emanò infatti un decreto di espulsione per tutti i missionari stranieri, con l’ordine di distruggere anche tutte le chiese. Ai cristiani vietnamiti fu dunque chiesto di rinnegare la loro fede e calpestare il crocifisso.
Ai cattolici francesi parve allora di scorgere nel sovrano vietnamita un nuovo Nerone, ma non riuscirono ad intervenire per arginare le persecuzioni. In una grande ondata di violenza sette o otto sacerdoti francesi ed un numero imprecisato di laici vietnamiti subirono il martirio, tra i quali il dottor Simone Phan Dac Hoa. Questi era nato a Mai Vinh nel 1787 circa. Laico molto rispettato dalla comunità locale, padre di famiglia, esercitava la professione di medico e divenne sindaco. Era affiliato alla Società Parigina delle Missioni Estere. Il 12 dicembre 1840 presso An Hòa fu barbaramente torturato e poi decapitato. Simone Hoa è stato beatificato nel 1900 ed infine canonizzato nel 1988.
Autore: Fabio Arduino
Già la più antica Vita paleoslava di s. Venceslao del sec. X, narra che il duca Vratislao, padre di Venceslao e Boleslao, aveva anche quattro figlie, poi sposate ai duchi vicini. Una era Pribyslava, che con grande probabilità sposò il duca dei Croati, popolazione finitima ai Boemi. Altri particolari fornisce la Vita et Passio di s. Venceslao e s. Ludmilla, opera del cosiddetto Cristiano (fine del sec. X), che ne indica anche il nome.
Secondo questa fonte Pribyslava viveva una vita molto pia e dopo la morte prematura del marito «prese il sacro velo», il che sembrerebbe indicare che entrò nel monastero delle Benedettine di S. Giorgio dentro il castello di Praga, fondato verso il 970 ed unico a quel tempo in Boemia. Secondo Cristiano, qualche tempo dopo la morte di Venceslao, Pribyslava ritrovò a Boleslav, nel luogo stesso del martirio, tra la chiesa dei SS. Cosma e Damiano e un albero, l'orecchio che gli era stato tagliato durante il supplizio. Secondo il monaco cassinese Lorenzo, autore di una Vita di s. Venceslao, si sarebbe trattato invece di parte della mano. A contatto col corpo del santo, l'orecchio, secondo le antiche narrazioni ricordate nelle leggende, si riattaccò alla testa.
Pribyslava fu anche presente alla esumazione del corpo di suo fratello dalla tomba originale nel castello di Praga, avvenuta dopo un certo tempo; nello stesso castello fu anch'essa sepolta, probabilmente nel cimitero in vicinanza della rotonda di S. Vito, fondata da Venceslao. Nel 1367, dopo la solenne consacrazione della cappella di S. Venceslao ancor oggi incorporata alla cattedrale gotica di S. Vito, «la venerabile e pia signora Pribyslava», fu, insieme con Podiven, domestico di s. Venceslao, sepolta dentro la cattedrale alle soglie della cappella. Le ossa furono esumate nel 1673, quando s'incominciò a completare la cattedrale gotica in stile barocco, e collocate dall'arcivescovo di Praga, Breuner, in un reliquiario d'argento in forma di ramo di lauro; quando questo fu confiscato, furono riposte in un'urna di legno.
L'asserzione del cronista boemo Venceslao Hajek di Libocany (1541), secondo cui Pribyslava trascorse la sua vita a Jablonné v Podjestédi, dove fu anche sepolta nella chiesa ai piedi del monte Kra-tina, non trova conferma nelle fonti antiche; evidentemente si tratta di una erronea identificazione di Pribyslava con la beata Zdislava (sec. XIII) che realmente visse in quei luoghi, a Lemberg. Tutte le notizie delle più antiche leggende di s. Venceslao su Pribyslava sono ripetute anche nelle altre sue Vitae medievali (Oriente iam sole, Ut annuncietur) e nelle cronache boeme, tra cui quella in versi del cosiddetto Dalimil (inizio del sec. XIV).
Nel periodo barocco (1602) lo storico gesuita Bohuslao Balbin inseri Pribyslava nel suo libro sui santi di Boemia (Bohemia sonda), tra coloro che, anche se non ancora canonizzati o beatificati, erano tuttavia venerati o chiamati «santi» e «beati» (par. 5). Nella più recente letteratura agiografica Pribyslava è generalmente chiamata «beata» o «venerabile», benché non si abbia notizia di un'approvazione ufficiale del suo culto da parte delle autorità ecclesiastiche. Come giorno della sua festa, si indica il 12 dic.
Nell'iconografia medievale Pribyslava è sempre rappresentata nei cicli delle illustrazioni della Vita di s. Venceslao nell'atto di riattaccare l'orecchio tagliato alla testa del fratello esanime. Più di recente (sec. XX) Pribyslava ha trovato anche una rappresentazione individuale in abiti ducali con un reliquiario nella mano destra. Cosi per es. nell'opera di Francesco Bilek e Bfetislav Storm.
Autore: Vaclav Rynes
Martirologio Romano: Nel territorio di Tiyen-Tiyou in Corea, santi Pietro Cho Hwa-sŏ, padre di famiglia, e cinque compagni, martiri, che, sebbene tentati dal mandarino con promesse e torture a rinnegare la religione cristiana, resistettero fino alla decapitazione.
Genova, 2 aprile 1587 - Carignano, 15 dicembre 1651
Figlia del doge di Genova, rimasta vedova a soli 20 anni spese la sua vita a favore dei bisognosi. Suo motto fu: «Servire Dio nei suoi poveri». Il suo apostolato fu rivolto in modo particolare agli anziani, donne in difficoltà e malati. L'istituzione con la quale passò alla Storia fu L'Opera di Nostra Signora del rifugio. Gratificata dal Signore con estasi, visioni, locuzioni interiori moriva il 15 dicembre 1651, all'età di 64 anni. Giovanni Paolo II l'ha proclamata beata a Genova il 22 settembre 1985.
Martirologio Romano: Nella stessa città, santa Virginia Centurione Bracelli, vedova, che, dedita a servire Dio, accorse in molti modi in aiuto dei poveri, sostenne le chiese rurali e istituì e resse le Signore della Misericordia Protettrici dei Poveri.
Fondatrice delle "Suore di N.S. del Rifugio in Monte Calvario - Genova" e delle "Figlie di N.S. al Monte Calvario - Roma".
Virginia Centurione Bracelli nacque a Genova il 2 aprile 1587 da Giorgio, poi Doge della Repubblica e da Lelia Spinola. Dopo un’infanzia molto pia e studiosa, nonostante l’orientamento decisivo verso la vita monastica, all’età di 15 anni dovette andare sposa – per volontà del padre – a Gaspare Grimaldi Bracelli, da cui ebbe due figlie, Lelia e Isabella. Gaspare, a causa delle sue sregolatezze, mori tisico ad Alessandria nel 1607, dove si era recato in cerca di beneficio al suo male, assistito affettuosamente da Virginia, la quale ebbe la gioia di riportarlo a Dio.
Rimasta vedova ventenne, comprese che una speciale volontà di Dio la chiamava a servirLo nei suoi poveri, ciò che cercò di accordare con i suoi doveri di madre e d’amministratrice saggia e prudente della casa.
Ben presto suo particolare interesse, che già era oggetto della sua sollecitudine, divenne la sua attività fondamentale, sempre più chiaramente precisa e definita quale organizzazione d’autentico servizio di promozione degli emarginati "perché stiano senza offesa di Dio e si guadagnino per quanto possono il loro vivere con le loro mani".
Promosse L’Opera delle Chiese povere rurali alle quali donava danaro e vestiti. Si diede al servizio dei fanciulli abbandonati, dei vecchi, dei malati mettendo a disposizione le proprie rendite, fondò scuole di formazione e d’addestramento per i fanciulli poveri. Una notte d’inverno accolse in casa una fanciulla abbandonata al freddo e ai pericoli della strada. Fu il piccolo seme che doveva germogliare in una pianta robusta, specialmente in quei tristi tempi di guerra e di sconvolgimenti nell’Italia settentrionale. Nel 1626, dopo aver rinunziato a tutte le sue sostanze, in favore dei poveri, fondò la "Ausiliarie delle Signore della Misericordia". Non ci fu miseria in Genova che non trovasse Virginia disponibile a farle proprie. Intanto spiegava il catechismo ai bambini, predicava il Vangelo. Le svariate opere fondate trovarono il loro punto d’incontro nell’"Opere di Nostra Signora del Rifugio in Monte Calvario", un ricovero per accogliere molte giovani abbandonate e pericolanti. Quando il suo palazzo non poté più bastare, prese in affitto il monastero di Monte Calvario, poi una seconda casa e una terza.
La sua attività ha qualcosa d’incredibile. E’ inspiegabile senza la fede e la fiducia in Dio illimitata. Mori in concetto di santità nella casa di Carignano il 15 dicembre 1651.
La fama di santità, che è sempre rimasta viva, è divampata quando il 20 settembre 1801, venne alla ribalta intatta la sua salma, palpabile come fosse sepolta nel sonno. Da allora i prodigi e i segni si moltiplicarono, chiara manifestazione della volontà di Dio che voleva glorificare la sua serva.
Fu proclamata Beata dal Papa Giovanni Paolo II il 22 settembre 1985 a Genova. Il suo corpo incorrotto è conservato nella cappella delle Suore di N.S. del Rifugio in Monte Calvario a Genova.
E' stata canonizzata da papa Giovanni Paolo II a Roma il 18 maggio 2003.
Due Congregazioni, distinte e parallele incarnano e proiettano nel tempo e nello spazio lo spirito di Virginia: la Congregazione delle Suore di N.S. del Rifugio in Monte Calvario, con sede a Genova, e la Congregazione delle Figlie di N.S. al Monte Calvario con sede a Roma. I due Istituti sono la continuazione storica mai venuta meno, delle Figlie di Virginia. Ma per motivi contingenti, e indubbiamente provvidenziali, essi si articolano in due famiglie.
L’eco della loro azione, era andata oltre i confini di Genova e nel 1827 aveva convinto l’allora Papa Leone XII a chiamare in Roma un gruppo di "Sorelle" alle quali il Papa affidò la direzione dell’Ospizio delle Terme di Diocleziano, un Ospizio con finalità vicine a quelle del Rifugio.
La situazione storica impose in appresso, prima, di fatto, e poi di diritto, due vie parallele, per quanto lo spirito fosse rimasto identico e unico.
Genova, 1562 - 1617
Nacque a Genova nel 1562. Cresciuta in un ambiente animato dalla devozione cristiana anche se austero, desiderò forse di entrare nella vita religiosa, ma quando i genitori le trovarono un fidanzato in Angelo Strata, si unì con gioia a lui in matrimonio a 17 anni. Non tardarono ad arrivare i figli, in attesa del sesto, però rimase vedova a 25 anni. Colpita da grave crisi si trovò spesso a invocare la morte, ma appena ristabilitasi pronunciò tre voti: di castità, di non portare mai gioielli e vesti di seta, e di non partecipare a feste mondane. Dopo che le figlie divennero canonichesse lateranensi e i figli entrarono tra i Minimi, si unì a Vicentina Lomellini Centurione, Maria Tacchini, Chiara Spinola e Cecilia Pastori per dar vita all'ordine delle suore Annunziate Celesti a Genova. Per il loro abito le religiose vennero chiamate Turchine o Celesti. La regola fu redatta dal gesuita Bernardino Zanoni, padre spirituale della Fornari. Maria Vittoria morì il 15 dicembre 1617 e fu beatificata da Leone XII nel 1828. (Avvenire)
Etimologia: Maria = amata da Dio, dall'egiziano; signora, dall'ebraico
Martirologio Romano: A Genova, beata Maria Vittoria Fornari, che, rimasta vedova, fondò l’Ordine dell’Annunciazione.
Poco dopo la sua morte, la Beata Maria Vittoria De Fornari Strata apparve ad una sua ammiratrice devota indossando tre vesti: la prima era di colore scuro, ma ornata di oro e argento; la seconda era scura anch'essa, ma ornata di gemme lucenti; la terza era bianco-azzurra, con un bianco sfolgorante. Questa visione, a prescindere dalla sua storicità, sintetizza i tre stati di vita (coniugale, vedovile e religioso) attraverso i quali la beata passò: fu infatti figlia, sposa, mamma, vedova e religiosa (fondatrice, superiora e semplice suora). La sua "esemplarità" giunse inoltre alla testimonianza delle più svariate virtù.
Maria Vittoria nacque a Genova nel 1562, settima dei nove figli di Geronimo e Barbara Veneroso. Cresciuta in un ambiente di amore e di pietà e anche un po' austero, la bimba desiderò forse di entrare nella vita religiosa, ma quando i genitori le trovarono un fidanzato in Angelo Strata, si unì a lui in matrimonio a 17 anni "con grande sua soddisfazione e gioia". Non tardarono ad arrivare i figli: quando Angelo morì appena otto anni e otto mesi dopo il matrimonio, cinque frugoletti si aggrappavano alle gonne della venticinquenne mammina e un sesto sarebbe nato un mese dopo.
Nonostante l'agiatezza e i figli, Maria Vittoria si sentì di colpo priva di tutto e attraversò una tremenda crisi, durante la quale invocò ripetutamente la morte: un tratto umano, che poi le avrebbe consentito di meglio comprendere e aiutare le sue figliole sconcertate da qualche amaro distacco. Superata la crisi, pronunciò tre voti: di castità, di non portare mai gioielli e vesti di seta, e di non partecipare a feste mondane.
Dopo che le figlie divennero canonichesse lateranensi e i figli entrarono tra i Minimi, ella si unì a Vicentina Lomellini Centurione, Maria Tacchini, Chiara Spinola e Cecilia Pastori per dar vita all'ordine delle suore Annunziate Celesti nel monastero preparato per loro al Castelletto di Genova da Stefano Centurione, il marito di Vicentina, che abbracciò anch'egli lo stato religioso e sacerdotale. Per il loro abito le religiose vennero chiamate Turchine o Celesti. La regola, redatta dal gesuita Bernardino Zanoni, padre spirituale della Fornari, stimolava le religiose ad un'intima devozione alla Beata Vergine dell'Annunciazione, e stabiliva un'intensa vita di pietà, una povertà genuina e una rigorosa clausura. Fondatrice e priora, Maria Vittoria trascorse gli ultimi cinque anni come semplice religiosa, dando esempi di obbedienza e umiltà. Morì il 15 dicembre 1617 e fu beatificata da Leone XII nel 1828.
Autore: Piero Bargellini
Nong Sëng, Tailandia, 30 settembre 1907 – Mukdahan, Tailandia, 16 dicembre 1940
Filippo Siphong Onphitak, padre di famiglia, essendo stato espulso il sacerdote del paese di Songkhon fu nominato guida della comunità cristiana e, allo scatenarsi della persecuzione contro i cristiani, fu attirato con l’inganno vicino al fiume Tum Nok e quindi ucciso a colpi d’arma da fuoco il 16 dicembre 1940. Dieci giorni dopo subirono medesima sorte le religiose Agnese Phila e Lucia Khambang, nonché le laiche Agata Putta, Cecilia Butsi, Bibiana Hampai e Maria Phon, che vennero fucilate nel cimitero del villaggio di Songkhon. La beatificazione di questo gruppo complessivo di sette martiri tailandesi, sepolti nel cimitero del villaggio di Songkhon, è stata celebrata a Roma da Giovanni Paolo II il 22 ottobre 1989, in seguito al riconoscimento del loro eroico martirio avvenuto il 1° settembre dell’anno precedente. Il Martyrologium Romanum, che commemora i santi ed i beati nell’anniversario della nascita al cielo, cita in data odierna solo il beato Filippo Siphong Onphitak in data odierna, 16 dicembre.
Martirologio Romano: Vicino alla città di Mukdahan in Thailandia, beato Filippo Siphong Onphitak, martire, che, padre di famiglia, dopo l’allontanamento del sacerdote dal villaggio di Song-Khon fu nominato capo della comunità cristiana e, alle prime avvisaglie della persecuzione contro i cristiani, fu condotto con l’inganno presso il fiume Tum Nok e fucilato.
Il cristianesimo venne introdotto in Tailandia nel 1881 e nel 1940 i fedeli cattolici erano già settecento. Nei quattro anni successivi i missionari francesi furono costretti ad abbandonare il paese, in preda alla guerra tra Tailandia e l’allora Indocina francese. Come è solito in circostanze simili, venne considerata quale priorità l’unità nazionale ed invece “declassato” a pericolo il pluralismo religioso.
Il villaggio di Songkhon, sito sulle rive del grande fiume Mekong alla frontiera con il Laos, fu teatro nel 1940 del glorioso martirio di sette cristiani indigeni: Filippo Siphong Onphitak, Agnese Phila, Lucia Khambang, Agata Phutta, Cecilia Butsi, Bibiana Khamphai e Maria Phon.
Scopo della presente scheda biografica è soffermarsi in particolar modo sulla vicenda di Filippo, commemorato in data odierna dal Martyrologium Romanum, che infatti cita i santi ed i beati nei rispettivi anniversari della loro nascita al Cielo.
Filippo Siphong Onphitak, figlio del signor Intong e della signora Pheng, nacque ad Nong Sëng, provincia di Nakhon Phanom, il 30 settembre 1907 e qui fu battezzato. Allievo della scuola parrocchiale di Non Seng, al termine degli studi secondari fu inviato quale istitutore a Songkhon, ove giunse nel 1926. Cinque anni dopo sposò Marie Thong, la famiglia si stabilì a Songkhon ed nacquero cinque figli. Uomo assai buono, a Filippo fu affidato l’insegnamento nella scuola parrocchiale e quale catechista coltivò la fede cristiana con tale zelo apostolico che i missionari, quando furono allontanati, gli affidarono la cura pastorale dei fedeli del villaggio, meritandogli così l’appellativo di “forte albero” della vita della Chiesa locale. Nell’agosto 1940 un gruppo di gendarmi raggiunse in barca attraverso il Mekong il villaggio di Songkhon e, constatato che gli abitanti professavano una religione straniera, presero a far pressione affinché abiurassero. Il 29 novembre padre Figuet fu espulso, ma grazie all’incoraggiamento del catechista Siphong e delle religiose Agnese Phila e Lucia Khambang tutti rimasero fermi nella fede.
A metà di dicembre i soldati architettarono un inganno per uccidere Filippo, scrivendogli una falsa lettera a nome della Sotto-Prefettura di Mukdahan, nella quale gli si chiedeva di recarsi immediatamente in tale città. Consapevole dei pericoli, ma anche dei suoi diritti di cittadino, Siphong decise di sottostare all’ordine ricevuto. Il pomeriggio del 15 si avviò allora in bicicletta affiancato dai gendarmi Lu di Songkhon e No di Mukdahan. Il dì seguente, sul far della sera, il soldato Lu sparò due colpi di fucile su Siphong, che gridò con dolore: “Lu, perché fai questo? Perché mi uccidi?” e si fece il segno della croce. “Sei proprio sicuro che le formule magiche da pugile ti serviranno a qualche cosa?” lo schernì Lu colpendolo con un altro colpo letale al cuore. Filippo spirò immediatamente.
Era dunque il 16 dicembre 1940. Filippo Siphong Onphitak fu il primo indigeno tailandese a spargere il suo sangue per testimoniare la sua fede in Cristo. I due gendarmi ordinarono poi agli abitanti di Phaluka di seppellirlo, coprendo la tomba di rovi affinché l’anima del defunto non potesse tormentare i vivi. Dopo soli dieci giorni toccò la medesima sorte alle due religiose suddette ed alle quattro laiche loro compagne, ma alla loro vicenda si dedica un’apposita scheda in data 26 dicembre. Le soglie mortali di Filippo furono rinvenute solamente nel 1959 e traslate nel cimitero di Songkhon accanto alle sei donne.
La beatificazione di questi sette martiri tailandesi, è stata celebrata a Roma da papa Giovanni Paolo II il 22 ottobre 1989, in seguito al riconoscimento del loro eroico martirio avvenuto il 1° settembre dell’anno precedente. Il martirologio ufficiale della Chiesa Cattolica commemora dunque separatamente al 16 dicembre il Beato Filippo Siphong Onphitak, mentre al 26 dicembre le Beate Agnese Phila e Lucia Khambang, vergini delle Sorelle Amanti della Croce, e le compagne Agata Putta, Cecilia Butsi, Bibiana Hampai e Maria Phon, rispettando così la coincidenza con i rispettivi anniversari del martirio.
Autore: Fabio Arduino
Borgogna, 931 – Seltz, Francia, 16 dicembre 999
Nata nel 931 da Rodolfo, re di Borgogna, e da Berta, figlia di Burcardo, duca di Svevia, Adelaide all'età di sei anni rimane orfana di padre e nel 947 sposa Lotario, re d'Italia. Rimasta vedova dopo soli tre anni di matrimonio, viene perseguitata e messa in prigione da Berengario II del Friuli, che si era impadronito del regno d'Italia, essendosi lei rifiutata di sposarne il figlio. Liberata da Ottone I, lo sposerà e ne avrà tre figli, tra cui il futuro Ottone II. Nel 962 papa Giovanni XII la incorona unitamente a suo marito Ottone I. Dopo la morte di questi esercita la tutela del minorenne Ottone III, suo nipote, reggendo l'impero. Attenta agli ultimi e agli indigenti, Adelaide è in stretti rapporti con il movimento di riforma di Cluny, specialmente con gli abati Maiolo e Odilone, il quale ne compone la «Vita». Costruisce chiese e monasteri, beneficando particolarmente i cenobi di Peterlingen, San Salvatore di Pavia e Selz. In quest'ultimo monastero benedettino, da lei fondato presso Strasburgo, Adelaide si ritira fino alla morte nel 999. Presto venerata come santa in Alsazia, viene canonizzata da Urbano II nel 1097. (Avvenire)
Etimologia: Adelaide = dal nobile aspetto, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: A Selz vicino a Strasburgo in Lotaringia, nell’odierna Francia, sant’Adelaide, imperatrice, che mostrò sobria giocondità verso i familiari,
Le Chiese d’Oriente e d’Occidente in due millenni di cristianesimo hanno attribuito l’aureola della santità quale corona eterna a non poche imperatrici che sedettero sui troni di Roma, di Costantinopoli e del Sacro Romano Impero. Sfogliando le pagine dell’autorevole Bibliotheca Sanctorum e della Bibliotheca Sanctorum Orientalium possiamo trovare i loro nomi: Adelaide, Alessandra e Serena (presunte mogli di Diocleziano), Ariadne, Basilissa (o Augusta), Cunegonda, Elena, Eudossia, Irene d’Ungheria (moglie di Alessio I Comneno), Irene la Giovane (moglie di Leone IV Chazaro), Marciana, Pulcheria, Placilla, Riccarda, Teodora (moglie di Giustiniano), Teodora (moglie di Teofilo l’Iconoclasta), Teofano. Anche nel XX secolo non sono mancate sante imperatrici: Sant’Alessandra Fedorovna, moglie dell’ultimo zar russo canonizzata dal Patriarcato di Mosca, la Serva di Dio Elena di Savoia, imperatrice d’Etiopia, ed in fama di santità è anche Zita di Borbone, moglie del Beato Carlo I d’Asburgo ed ultima imperatrice d’Austria.
La prima imperatrice citata, Sant’Adelaide, è oggi commemorata dal Martyrologium Romanum ed è forse una delle più celebri in quanto il suo nome è ancor oggi abbastanza diffuso. Adelaide nacque nel 931 da Rodolfo II, re dell’Alta Borgogna, e da Berta, figlia di Burcardo, duca di Svevia. Sin dall’infanzia fu trattata come una pedina politica, infatti all’età di soli due anni fu promessa in sposa a Lotario, figlio di Ugo di Provenza, che sposò poi a sedici anni. Nel frattempo rimase orfana di padre a sei anni. In quel periodo Lotario II era formalmente re d'Italia, sebbene il paese fosse in realtà dominato da Berengario d’Ivrea. Dalla loro unione nacque Emma, ma dopo soli tre anni di felice matrimonio nel 950 Adelaide rimasta vedova. Lotario era stato probabilmente avvelenato per ordine di Berengario, che infatti perseguitò e mise in prigione Adelaide in un castello sulle rive del lago di Garda, per essersi rifiutata di sposare suo figlio. Non si sa con certezza se Adelaide fu liberata da Ottone I il Grande, quel re tedesco che stava tentando di riportare ordine nel Nord Italia a capo di un’armata, o se ella riuscì a scappare autonomamente per poi rifugiarsi presso di lui.
Cosa certa è invece che i due convolarono a nozze il giorno di Natale del 951 presso Pavia. Adelaide aveva appena vent’anni, ma era una donna di elevate doti intellettuali e non mancò di prendere parte attivamente agli affari di stato. Questa unione contribuì a consolidare l’autorità di Ottone nell’Italia settentrionale e nel 962 fu finalmente incoronato imperatore a Roma da Papa Giovanni XXII. Pare che Adelaide, devota e piena di grazia, fu un’imperatrice assai popolare tra i suoi sudditi. Il matrimonio durò ben ventidue anni e nacquero cinque figli tra cui il futuro Ottone II.
Nel 973, alla morte del marito, dovette affrontare un nuovo conflitto. Il suddetto erede al trono era infatti un giovane testardo e nel risentimento verso la madre fu molto influenzato da sua moglie, la bizantina Teofano. Adelaide abbandonò allora la corte e si trasferì a Vienne presso suo fratello Corrado di Borgogna. Si rivolse in cerca d’aiuto a San Maiolo, abate di Cluny, che favorì la riconciliazione familiare: madre e figlio si incontrarono a Pavia ed Ottone II s’inginocchio per implorare il perdono materno. In segno di riconoscenza Adelaide inviò alcune offerte al santuario di San Martino di Tours, compreso il più bel mantello di Ottone, e con queste parole invocò la protezione per suo figlio: “Tu che hai avuto la gloria di coprire con il tuo mantello Cristo Signore nelle spoglie di un mendicante”. In seguito non mancarono però altri conflitti: dieci anni dopo la sua ascesa al trono, nel 983 Ottone II morì, lasciando come suo erede l’infante Ottone III e Teofano come reggente. L’imperatrice d’origine bizantina era però ancora ostile alla suocera e ad Adelaide non restò che lasciare nuovamente la corte. All’improvvisa morte di Teofano, nel 991, fu però richiamata essendo ancora minorenne il nipote e resse con rara saggezza l'impero. All’età di sessant’anni venne a trovarsi per la prima volta in una posizione di potere e si avvalse dei consigli sapienti di alcuni santi quali Villigiso arcivescovo di Magonza, Adalberto di Magdeburgo, Maiolo ed Odilone di Cluny. Quest’ultimo fu poi autore di una vita della santa imperatrice.
Adelaide nutrì sempre un gran desiderio di pace, nonché una grande capacità di perdonare i nemici. Fu piena di carità verso gli indigenti, ai cui bisogni era solita venire incontro con larghe sovvenzioni. Fondò e restaurò parecchi monasteri maschili e femminili, beneficando particolarmente i cenobi di Peterlingen, San Salvatore di Pavia e Seltz. Tentò di convertire gli slavi, i cui movimenti alla frontiera turbarono gli ultimi anni della sua vita. Ritiratasi infine nel monastero benedettino di Seltz, in Alsazia vicino a Strasburgo, morì santamente il 16 dicembre 999. La sua canonizzazione fu decretata dal pontefice Urbano II nel 1097 circa.
Autore: Fabio Arduino
Segnalo un sacerdote che, se pur non sposato, è stato definito l’apostolo della Sacra Famiglia di Nazaret e il profeta della famiglia ed è l’ideatore ed iniziatore della “Sagrada Familia” di Barcellona.
Tremp (Lleida, Spagna) 7 gennaio 1833 - Barcelona (Spagna) 17 dicembre 1901
“Dio ha chiamato i fedeli a contemplare ed imitare la Santa Famiglia per mezzo del Beato José Manyanet, sacerdote” (Mess. Romano), è quindi l’apostolo della Sacra Famiglia di Nazaret e il profeta della famiglia. Nella casa di Nazaret trovò il modello per le comunità religiose, il Vangelo per la famiglia e la pedagogia per i suoi centri di apostolato. Fondò le congregazioni di Religiosi Figli della Sacra Famiglia Gesù, Maria e Giuseppe e le Missionarie Figlie della Sacra Famiglia di Nazaret e fu l’ispiratore del Tempio espiatorio della “Sagrada Familia”, di Barcelona, opera dell’architetto Antonio Gaudí, in processo di beatificazione.
Etimologia: José: deriva dall’ebraico Josef, che significa: [Dio] voglia aggiungere.
Martirologio Romano: A Barcellona in Spagna, san Giuseppe Manyanet y Vives, sacerdote, che, fondò la Congregazione dei Figli e delle Figlie della Sacra Famiglia per aiutare tutte le famiglie a divenire esemplari sul modello della santa famiglia di Nazareth di Gesù, Maria e Giuseppe.
Nacque a Tremp (Lleida, Spagna) il 7 gennaio 1833 da una famiglia numerosa e cristiana. Fu ordinato sacerdote in La Seu d’Urgell il 9 aprile 1859. Dopo dodici anni d’intenso lavoro al seguito del vescovo José Caixal e al servizio della curia diocesana, si sentì chiamato da Dio alla speciale consacrazione religiosa e a fondare due congregazioni con la missione d’imitare e propagare il culto della Famiglia di Nazaret e di procurare la formazione cristiana delle famiglie, specialmente con l’educazione e l’istruzione cristiana dei ragazzi e dei giovani, e con il ministero sacerdotale.
Spinto dal carisma ricevuto, scrisse varie opere ed opuscoli per propagare la devozione alla Santa Famiglia, per la formazione dei religiosi e delle famiglie e per la direzione dei collegi e delle scuole professionali. Fondò la rivista “La Sagrada Familia” e le associazioni laicali “Camerieri e Cameriere della Sacra Famiglia” -oggi “Associazione della Sacra Famiglia”-, vincolata ai suoi Istituti, per diventare discepoli, testimoni ed apostoli del mistero di Nazaret. Peregrinò a Lourdes, Roma e a Loreto per approfondire lo spirito della Famiglia di Nazaret. Questo è il carisma proprio che penetra tutta la sua vita, racchiusa nel mistero di una vocazione evangelica appresa dagli esempi di Gesù, Maria e Giuseppe nel silenzio di Nazaret, che egli esprimeva così: Una Nazaret in ogni focolare!
Minato nella salute da alcune piaghe del costato rimaste aperte per ben sedici anni - ch’egli chiamava “le misericordie del Signore”-, il 17 dicembre 1901 tornò alla casa del Padre, in Barcellona, centro del suo apostolato, attorniato dai ragazzi, con la stessa semplicità che caratterizzò tutta la sua vita. Le ultime parole furono le giaculatorie che tante volte aveva ripetuto in vita: Gesù, Giuseppe, Maria... Fu beatificato il 25 novembre 1984 da Papa Giovanni Paolo II.
Tra i bei frutti della sua vita emergono 19 religiosi e un giovane ex-allievo che morirono a causa della sua fede e vocazione nella persecuzione religiosa della Spagna del 1936-39, in processo di dichiarazione di martirio.
Nel Centenario della sua morte, Giovanni Polo II ha ribadito la importanza di evangelizzare oggi la famiglia e fortificare il matrimonio con la gran forza pastorale che scaturisce dalla proposta e l’esempio della Sacra Famiglia, come fece il Beato.
La sua festa liturgica è stata fissata dalla Congregazione per il Culto - dopo la beatificazione - per il 16 dicembre. Il Nuovo Martyrologium Romanum pone la data al 17 dicembre.
E' stato proclamato santo da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.
Autore: J.M. Blanquet, S.F. Fonte: www.manyanet.org
Nacque verso il 361 da un'agiata famiglia di Costantinopoli. Divenuta orfana in giovane età, fu affidata per l'educazione a Teodosia, sorella del vescovo di Iconio, sant'Anfilochio. Fin da giovanissima, così, Olimpia fu istruita sulla Sacra Scrittura. Imitando santa Melania, si dedicò alla mortificazione, e pur potendo aspirare ad una brillante posizione nella corte imperiale, se ne allontanò. Nel 384-85 si sposò ma dopo solo venti mesi il marito morì; l'imperatore Teodosio il Grande voleva risposarla con un suo cugino, ma Olimpia rifiutò. Teodosio allora per vincere le sue resistenze le sequestrò tutti i suoi beni, che le vennero restituiti nel 391. Fu così che Olimpia ne approfittò per fondare alcune opere caritative. Il vescovo Nettario (381-397) contrariamente all'usanza, la nominò diaconessa, dignità che allora si dava alle vedove di 60 anni. Olimpia fondò in città un monastero le cui religiose appartenevano alle migliori famiglie della città. Al suo arrivo in città come arcivescovo, Giovanni Crisostomo trovò in Olimpia una valida collaboratrice. Ma fu anch'essa vittima della persecuzione contro i "giovanniti" (seguaci di san Giovanni Crisostomo). Fu infatti esiliata a Nicomedia. Morì verso il 408. (Avvenire)
Etimologia: Olimpia = che abita nell'Olimpo, sede degli dèi
Di questa santa dell’agiografia greca, non ci sono dubbi sulla sua ‘Vita’ perché ci sono pervenuti vari importanti documenti storici e contemporanei che la citano o descrivono; inoltre vi sono ben 17 lettere che le inviò, dal suo esilio, s. Giovanni Crisostomo.
Olimpia nacque verso il 361 da una agiata e distinta famiglia di Costantinopoli, suo nonno Ablabios godeva della stima dell’imperatore Costantino ed era stato prefetto di Oriente quattro volte, suo padre era conte di palazzo.
Divenuta orfana in giovane età, fu posta sotto la tutela di Procopio prefetto della capitale, il quale l’affidò per la sua educazione a Teodosia, donna di grande cultura e sentimenti cristiani, sorella del vescovo di Iconio s. Anfilochio; di lei avevano grande stima sia s. Basilio che s. Gregorio di Nazianzo, Dottori della Chiesa; s. Gregorio di Nissa le dedicò il suo commento al ‘Cantico dei Cantici’.
Fin da giovanissima, Olimpia ebbe lezioni sulla Sacra Scrittura, considerata da altre dame della società, come s. Melania l’Anziana, la via per giungere alla perfezione cristiana; e imitando s. Melania, si dedicò alla mortificazione, ella pur potendo aspirare ad una brillante posizione nella corte essendo ricca, istruita e nobile, invece se ne allontanò.
Nel 384-85, sposò Nebridio che fu prefetto di Costantinopoli nel 386, ma la sua felicità durò poco, dopo solo venti mesi il marito morì; l’imperatore Teodosio il Grande voleva risposarla con un suo cugino, ma Olimpia rifiutò dicendo: “Se il mio re avesse voluto che io vivessi con un uomo, non mi avrebbe tolto il mio primo”.
Teodosio considerò ciò un capriccio e per vincere le sue resistenze, le sequestrò tutti i suoi beni, finché non avesse compiuti 30 anni; il prefetto della città aggiunse il divieto di intrattenersi con i vescovi più illustri e perfino di andare in chiesa.
Ma nel 391, Teodosio visto la sua virtù e la costanza nella prova di Olimpia, che conduceva una vita di penitente povera, le restituì i suoi beni. Lei ne approfittò per fondare a Costantinopoli alcune opere caritative, fra cui un grande ospizio per ricevere gli ecclesiastici di passaggio e i viaggiatori poveri.
Avendo una grande ricchezza e proprietà, sia in città che nelle altre regioni, altrettanto grande fu la sua generosità, donò a s. Giovanni Crisostomo 10.000 denari d’oro e 20.000 d’argento per la sua chiesa di S. Sofia; il vescovo Nettario (381-397) contrariamente all’usanza, la nominò diaconessa, dignità che allora si dava alle vedove di 60 anni, mentre Olimpia ne aveva solo 30 e a lei ricorreva per consigli densi della sua scienza e saggezza.
Fondò sotto il portico meridionale di S. Sofia, un monastero le cui religiose appartenevano alle migliori famiglie della città, fra cui tre sue sorelle Elisanzia, Martiria e Palladia, in più una sua nipote chiamata anch’essa Olimpia; iniziò con circa 50 suore che in breve tempo divennero 250.
Agli inizi del 398, giunse in città s. Giovanni Crisostomo che pur non volendo, era stato nominato arcivescovo di Costantinopoli, trovando un fervore cristiano affievolito sia nei fedeli che nel clero e monaci, fino alla corte divenuta oltremodo mondana con la presenza di Eudossia moglie dell’imperatore d’Oriente Arcadio.
Ma si consolò vedendo il monastero di Olimpia, formato da anime ben disposte e adatte a servire da modello. Tra l’arcivescovo e Olimpia si instaurò una salda amicizia, le tre sorelle furono ordinate diaconesse e affiancarono in questo compito Olimpia.
Si sforzava di aiutarlo in tutto, dal cibo al suo vestire, divenne in certo modo la collaboratrice nell’opera di rinnovamento spirituale da lui iniziata. Tutto questo attirò anche su di lei il rancore di coloro che intendevano intralciare l’opera riformatrice del vescovo.
Due dei vescovi dissidenti, ottennero da Arcadio un decreto d’esilio contro s. Giovanni Crisostomo, il quale fra il tumulto dei fedeli e delle suore, dovette lasciare S. Sofia e venne condotto dai soldati a Cucusa fra i monti dell’Armenia, dove giunse affranto dal viaggio due mesi dopo, alla fine di agosto del 404.
Nello stesso giorno della partenza, il 30 giugno 404, un incendio distrusse l’episcopio e gran parte della chiesa e del senato. Furono accusati i fedeli del vescovo e la stessa Olimpia fu portata davanti al prefetto della città Optato, accusata dell’incendio, si difese dicendo che avendo dato spese considerevoli per costruire chiese, non aveva nessuna necessità di bruciarle.
Optato le offrì di lasciare in pace lei e le sue suore, se avessero riconosciuto il nuovo vescovo Arsace e Olimpia rifiutò; fu condannata a pagare una grossa somma come multa e dopodiché nello stesso anno 405 si ritirò volontariamente a Cizico.
Giacché proseguiva la persecuzione contro i “giovanniti” (seguaci di s. Giovanni Crisostomo) Olimpia fu nuovamente processata dal prefetto e esiliata a Nicomedia. In quegli anni mantenne una corrispondenza (che le era permesso) con il vescovo esiliato in Armenia, interessandosi della sua salute, inviandogli del denaro che veniva speso per i poveri della regione e per il riscatto di persone cadute nelle mani dei briganti isauriani.
Giovanni tramite questi scritti, descrive i particolari del penosissimo viaggio per giungere lì. La esorta a bandire la tristezza e a far nascere la gioia spirituale che distacca dalle cose del mondo ed eleva l’anima, raccomandandole di sostenere i suoi amici, che subivano la persecuzione per causa sua.
Olimpia morì verso il 408 in un data non documentata, secondo lo scrittore Palladio, “gli abitanti di Costantinopoli la pongono fra i confessori della fede, perché ella è morta ed è ritornata al Signore fra le battaglie sostenute per Dio”, anticamente i confessori erano i martiri.
Il suo monastero ebbe alterne vicende, le suore coinvolte nella disgrazia dell’arcivescovo, si dispersero nel 404, quando fu mandato in esilio; si riunirono solo nel 416, quando i “giovanniti” si riappacificarono con i successori del Crisostomo; sotto la guida di Onorina, parente di Olimpia; il monastero fu poi distrutto dall’incendio di S. Sofia nel 532, ritornarono poi quando Giustiniano lo ricostruì.
Le reliquie di s. Olimpia, che erano state portate da Nicomedia nella chiesa di S. Tommaso sul Bosforo, andarono perse durante l’incendio della chiesa appiccato dai Persiani nelle loro incursioni (616-626). La superiora Sergia, fu fortunata nel ritrovarle fra le macerie e le fece trasportare all’interno del monastero; in seguito non si hanno più notizie di esse.
S. Olimpia è festeggiata nella Chiesa Orientale il 24-25-29 luglio, il ‘Martirologio Romano’ al 17 dicembre.
Autore: Antonio Borrelli
Nata nel VII secolo da nobile famiglia carolingia, Begga si sposò e rimase vedova. Allora - sull'esempio della madre, santa Itta, che alla morte del marito, il beato Pipino di Landen, si era ritirata nel monastero belga di Nivelles - fondò Notre-Dame ad Andenne-sur-Meuse (Belgio), di cui fu badessa. Le si attribuì la fondazione di sei oratori intorno alla chiesa principale: perciò il luogo fu detto "sept-eglises". È considerata, dal XV secolo, l'iniziatrice del movimento delle beghine, per assonanza e perché la scelsero come patrona. (Avvenire)
Martirologio Romano: Ad Andenne nel Brabante, nell’odierno Belgio, santa Begga, vedova, che, dopo la morte del marito, fondò il monastero della Beata Maria Vergine secondo le regole dei santi Colombano e Benedetto.
La Vita sanctae Beggae viduae fu redatta nel XII sec. con la fusione di elementi desunti da una Vita di s. Gertrude dell'VIII sec., di reminiscenze classiche e invenzioni fantastiche. Begga nacque da nobilissima famiglia: figlia del b. Pipino di Landen (m. 640) e di s. Itta (o Iduberga), fondatrice del monastero di Nivelles (m. 652), ebbe per fratelli lo sventurato Grimoaldo, che morì nel 663 vittima di intrighi cortigiani, e s. Gertrude, badessa a Nivelles fino al 659, anno della sua morte.
Begga sposò uno dei figli di s. Arnolfo di Metz, Ansegiso o Ansegisello, domesticus alla corte di Sigeberto III (m. 656) e dì Childerico Il (m. 675) e firmatario di alcuni diplomi nel 670. Ansegiso è generalmente confuso col nobile Adalgysel della Cronaca di Fredegario o della carta di fondazione di Cugnon (645-47). Dopo la morte del marito, avvenuta nel 685, Begga fondò e intitolò a Notre-Dame un monastero ad Andenne-sur-Meuse (Belgio), in un terreno di sua proprietà.
Nell'abbandonare il mondo Begga s'ispirò al comportamento della madre Itta che, alla morte del marito, si era rinchiusa nel monastero di Nivelles (Belgio), da lei fondato. E proprio ad Agnese, badessa di Nivelles, ella si rivolse per ottenere libri, reliquie e suore con cui sostenere la sua fondazione di Andenne. Si attribuiva, inoltre, a Begga la fondazione di sei oratori che, disposti intorno alla chiesa principale, rappresentavano le sette basiliche di Roma e valsero ad Andenne il nome dì "sept-tglises", ad septem ecclesias. Le monache di Nivelles praticavano probabilmente la regola di s. Colombano, se si considerano i costanti legami dell'abbazia (consolidatasi sotto la vigile protezione di Amando, Foillano e Ultano, fratelli questi di s. Furseo) coi monaci irlandesi. Ma nel 691 la regola importata ad Andenne era mista di elementi desunti dalle regole di s. Colombano e di s. Benedetto.
La Vita leggendaria pone la morte di B. al 709, attribuendole un viaggio a Roma sotto il papa Adriano I, eletto in realtà nel 772. Al tempo della redazione della Vita il monastero di Andenne fu secolarizzato e affidato a canonichesse nobili con prebende; l'autore descrive questo regime come se fosse quello della fondazione.
Begga fu onorata come santa subito dopo la morte; il suo nome, assente negli antichi martirologi, è passato, dai calendari dell'XI sec. al Martirologio Romano, al 17 dic. Per la somiglianza dei nomi, a partire dal XV sec. si è considerata Begga come iniziatrice del movimento delle beghine, ed è esistita una pia letteratura che, specialmente nei paesi fiamminghi, illustra e difende questa teoria, nata, invece, dal fatto che le beghine scelsero Begga come patrona.
Autore: Henry Platelle
Non è sposato, ma è protettore degli sposi, non potevo lasciarlo fuori!
Wessex (Gran Bretagna), 701 - Heidenheim (Germania), 18 dicembre 761
Vunibaldo nacque nel 701 nel Wessex (Inghilterra) da una famiglia importante per la Chiesa: il fratello fu il grande vescovo di Eichstätt (Baviera) Villibaldo, lo zio Bonifacio, l'evangelizzatore della Germania, e la sorella Valburga, figura carismatica del ramo femminile del monastero di Heidenheim, fondato da Vunibaldo nella diocesi retta dal fratello. Fu importante centro culturale e missionario. Pellegrino a Roma e in Terra Santa, al ritorno entrò con Villibaldo tra i benedettini di Montecassino. Nel 738 fu chiamato dallo zio in Germania e mandato ad evangelizzare Turingia e Baviera. Morì nel 761. E quando il fratello ne fece esumare le spoglie, nel 777, esse erano intatte. Protegge sposi e minatori. (Avvenire)
Patronato: Sposi, Minatori
Martirologio Romano: Nel monastero di Hildesheim nella Baviera, in Germania, san Vinebaldo, abate, che, di origine inglese, insieme al fratello san Villibaldo seguì san Bonifacio e lo aiutò nell’opera di evangelizzazione delle popolazioni germaniche.
San Wunibald chiamato anche Wynnebald, nacque nel 701 nel Wessex, in Gran Bretagna, da genitori anglosassoni, il padre secondo tardive tradizioni, era un re di nome Riccardo e la madre si chiamava Wunna. Divenuto giovane, nell’estate del 721 insieme al padre ed al fratello Willibald, intraprese un pellegrinaggio a Roma, una vera impresa per quell’epoca, ma il padre arrivato a Lucca, morì durante il viaggio.
Wunibald per motivi di studio, rimase a Roma in un monastero fino al 739, mentre il fratello Willibald proseguiva nel 723 fino alla Terra Santa, meta finale di molti pellegrinaggi medioevali.
Nel 729-30 Wunibald ritornò brevemente in Gran Bretagna e qui convinse ai suoi ideali ascetici, un altro fratello, di cui non si sa il nome e insieme ripartirono per Roma. Nel 738 nella città pontificia incontrò s. Bonifacio Winfrid (680-755) suo parente, il grande monaco anglosassone, evangelizzatore della Germania; Wunibald attratto dall’ideale missionario di s. Bonifacio, lasciò la vita contemplativa del monastero romano e nel 739 giunse come missionario in Turingia, regione della Germania, qui fu consacrato sacerdote dallo stesso Bonifacio, il quale gli affidò la cura di sette chiese, stabilendo la sede a Sülzenbrücken a sud di Erfurt.
Qui ritrovò anche suo fratello Willibald il quale fu consacrato nel 742, vescovo di Eichstätt, da s. Bonifacio, che era diventato arcivescovo di Magonza. Chiamato dal duca Odilone, Wunibald nel 744 si recò in Baviera per diffondere il suo apostolato missionario, nella regione presso il fiume Vils nel Pfalz Superiore.
Dopo tre anni di intenso lavoro, nel 747 ritornò da Bonifacio, arcivescovo di Magonza, ma la sua permanenza in questa città non fu lunga, egli contrariamente al fratello, era sempre attratto dalla vita monastica e dalla solitudine e così d’accordo con il fratello vescovo, acquistò in una zona isolata presso Eichstätt, un terreno e insieme ad alcuni compagni, nel 752 ne iniziò la coltivazione e nello stesso tempo cominciò ad erigere il monastero di Heidenheim.
Una volta completato il convento, ne divenne il primo abate, dedicandosi alle missioni ed al ripristino della fede cristiana nella popolazione, nel frattempo ricaduta nel paganesimo; fu ammirato ma anche odiato per il suo zelo e la sua austerità.
Gli ultimi anni della sua vita furono provati da grave malattia, nonostante ciò egli fece ancora un faticoso viaggio a Würzburg, per incontrare il vescovo locale e poi al monastero di Fulda, dove era la tomba di s. Bonifacio, morto nel 755; questi viaggi avevano lo scopo di mantenere in vita e sostenere il suo monastero.
Desiderava finire la sua vita a Montecassino, dove era già atteso, presso la tomba del patriarca s. Benedetto, alla cui Regola aveva affidato il suo monastero, ma il fratello vescovo Willibald lo distolse a causa dell’impedimento delle sue gravi infermità. Wunibald morì pertanto a Heidenheim, il 18 dicembre 761, assistito dal fratello e lì sepolto.
La sorella s. Valburga, monaca a Wimborne era stata trasferita ad Heidenheim come badessa delle monache, chiamata dal fratello Willibald, in questo cosiddetto doppio monastero, il cui ramo maschile era diretto da Wunibald, alla morte di questi, divenne badessa generale del doppio monastero; nel 776 Willibald fece costruire una chiesa più grande e un anno dopo fece trasferire solennemente il corpo del fratello abate, nella nuova cripta, confermando in tal modo il culto che era iniziato subito dopo la morte.
La maggior parte delle sue reliquie risultano disperse dal tempo della Riforma Protestante (XVI sec.), alcune sono sparse in varie città della Germania. La città di Eichstätt annovera tra i suoi santi patroni, almeno dal 1075, i tre fratelli Willibald, Wunibald e Valburga; durante i secoli vi sono state varie cerimonie e traslazioni che hanno visto le reliquie dei tre fratelli, insieme esposte alla venerazione dei fedeli.
S. Wunibald ha un culto molto diffuso in Germania ed è patrono di tante località, che non è possibile qui elencare; è stato anche soggetto molto rappresentato nell’arte; innumerevoli sono i bassorilievi, busti, pitture, reliquiari, sigilli, incisioni, statue che lo raffigurano, raramente da solo, è sempre in abiti da monaco, a volte con il pastorale di abate o con il libro della Regola e dal 1500 anche con una cazzuola in mano, simbolo della costruzione del monastero.
Autore: Antonio Borrelli
Sposata addirittura 3 volte!
Susa (Torino), 1015 ca. – Canischio (Torino), 19 dicembre 1091
Etimologia: Adelaide = dal nobile aspetto, dall'antico tedesco
È denominata in parecchie cronache benedettine, come “Beata Adelaide”, ma il suo culto non è stato mai riconosciuto.
Nel grande intrecciarsi delle vicende della Storia, che coinvolge i popoli e i singoli governanti, spesso l’aspetto politico, dinastico, bellico, prende il sopravvento nel ricordo storico, lasciando nell’ombra l’aspetto umano, religioso, morale, caritatevole, del signore dell’epoca.
È il caso soprattutto di tante sante figure di nobili castellane del Medioevo, che operarono più o meno apertamente, nell’aiutare i bisognosi del luogo, nel fondare monasteri e chiese, nell’addolcire l’attività di governo dei consorti, quasi sempre in guerra in quell’epoca difficile e oscura.
Molte di queste castellane, diventate vedove, si dedicavano a vita ritirata presso qualche monastero, da loro fondato in precedenza; diventando spesso badesse di una comunità religiosa, che comprendeva a volte anche qualche loro figlia.
Detto questo, si può comprendere come la figura storica della marchesa di Susa, Adelaide, abbia in parte oscurato i meriti indiscussi della donna, sposa, vedova, madre, che visse ed operò alla luce delle virtù cristiane; tale da essere denominata “Beata Adelaide” e per l’appoggio dato alla Chiesa: “figlia di S. Pietro”.
Figlia primogenita ed erede del conte Olderico Manfredi II, Marchese di Susa e Conte di Torino e di Berta Obertagna dei Marchesi d’Este, Adelaide nacque nel castello di Susa tra il 1010 e il 1016.
La madre morì in giovane età, dopo aver dato alla luce quattro figli, Adelaide, Immilla, Berta ed un figlio morto giovanissimo nel 1034
Il marchese suo padre, rimasto vedovo, divise fra le tre figlie rimaste i suoi possedimenti, dei quali la maggior parte (tutte le terre tra Ivrea e Ventimiglia), andò alla figlia primogenita Adelaide; ma la potenza del marchese di Susa e conte di Torino, era prevalentemente di tipo militare, non trasmettibile ad una donna sola, per cui alla morte del padre, la giovane marchesa, qualificata in molti testi anche come principessa, a soli sedici anni nel 1035, andò in sposa ad Ermanno III duca di Svevia.
Ma fu un matrimonio di breve durata, perché il duca Ermanno nel luglio 1038 morì di peste, senza aver avuto un figlio; Adelaide che aveva 22 anni, allora si risposò con Arrigo I (Enrico I) marchese del Monferrato, ma nel 1044 rimase di nuovo vedova.
Per evidenti ragioni di Stato fu necessario ricorrere ad un terzo matrimonio e la giovane vedova sposò nel 1045 Oddone I (1020 ca. - 19/2/1059), conte di Savoia, Aosta, Moriana, secondogenito del capostipite sabaudo Umberto I Biancamano.
Nei 14 anni di matrimonio, nacquero cinque figli; Pietro I († 1078), Amedeo II († 1080), Berta († 1087), Adelaide († 1079), Oddone († 1102) futuro vescovo di Asti; in effetti ben quattro di essi premorirono alla madre, rimasta di nuovo vedova nel 1059.
Degna nipote di Arduino d’Ivrea, suo bisnonno, che nel 976 cacciò i saraceni dalla Valle di Susa, aveva trascorso gran parte dell’adolescenza fra le armi, vedendo da vicino guerre e stragi, indossando lei pure armi e corazza.
Pur essendo una bella persona anche nel volto, considerava la bellezza e la ricchezza come cose passeggere, valutando invece le virtù come gloria duratura.
Dotata di forte temperamento, non indugiava se necessario, a castigare la corruzione in grossi personaggi della regione, compreso anche dei vescovi, nel contempo premiava magnanimamente le nobili imprese e le attività caritatevoli.
Accoglieva alla sua corte trovatori e menestrelli, ma voleva che i loro canti fossero improntati ad incitare sempre alle virtù, alla religione, alla pietà.
Fondò nei suoi possedimenti molte chiese e monasteri, diventati poi centri di divulgazione del patrimonio di studi e di storia; fece restaurare la chiesa di S. Lorenzo ad Oulx (Torino), che come molte altre era stata distrutta dai saraceni.
La sua protezione ai tanti monasteri fondati in Piemonte, Valle d’Aosta e Savoia, fu tale che s. Pier Damiani († 1072), vescovo e Dottore della Chiesa, suo contemporaneo, poté dire: “Sotto la protezione di Adelaide, vivono i monaci come pulcini sotto le ali della chioccia”.
Fu amata dagli italiani del tempo, che generalmente la chiamavano “la marchesa delle Alpi Cozie”; fu stimata dai suoi sudditi e temuta dai suoi avversari; nei lunghi anni di vedovanza, seppe tenere il potere con notevole abilità e saggezza, tanto che il già citato s. Pier Damiani le scrisse: “Tu, senza l’aiuto di un re, sostieni il peso del regno, e a te ricorrono quelli che alle loro decisioni desiderano aggiungere il peso di una sentenza legale. Dio onnipotente benedica te ed i tuoi figlioli d’indole regia”.
Purtroppo dai suoi figli che amava tanto, giunsero per lei i dolori più forti, perché li vide morire ancora giovani, tranne l’ultimo, il vescovo Oddone.
Inoltre la figlia Berta (1051-1087) fu protagonista suo malgrado, di uno sconvolgimento politico che investì l’impero di Germania e il Papato.
Il marito Enrico IV (1050-1106), imperatore del S.R.I., re di Germania, re d’Italia e duca di Franconia, che lei aveva sposato quindicenne il 13 luglio 1066; ben presto per il suo carattere vizioso e tiranno, prese ad osteggiare la casta giovinetta, mettendo in atto, scontrosità, raggiri e agguati per screditarla e così potersene liberare.
Si scatenò un’ostilità che portò la povera Berta a rinchiudersi nell’abbazia di Lorscheim, in attesa degli eventi; Enrico IV convocò un Concilio a Magonza per discutere la sua richiesta di divorzio, nonostante il parere contrario della madre, l’imperatrice Agnese, anch’essa ritirata in un convento.
Il papa inviò come suo delegato il cardinale vescovo di Ostia s. Pier Damiani, il quale nella discussione che ne seguì, argomentò brillantemente a favore della giovane Berta, convincendo tutti i convenuti.
La reazione di Enrico IV fu grande, e non temendo l’avversione dei sudditi continuò nei suoi propositi e alla fine incappò anche nella scomunica di papa s. Gregorio VII (Ildebrando di Soana, † 1085).
Berta pur avendo tanto subito dallo scellerato sposo, si dimostrò di grande animo, spronandolo con l’aiuto della sua famiglia in Piemonte, a chiedere il perdono del papa.
Adelaide, per intercessione della figlia, acconsentì ad accompagnare l’ingrato genero dal papa, che era ospite della contessa Matilde nel suo castello di Canossa (Reggio Emilia) accompagnati anche dal figlio Amedeo II. L’umiliato imperatore, dovette a quest’energica donna, molto più che alla stessa contessa Matilde, se il papa Gregorio VII, concesse patti e condizioni dure ma fattibili, togliendogli la scomunica, che aveva comportato la disubbidienza dei sudditi; comunque l’umiliazione fu grande, tanto da passare alla storia, perché Enrico IV fu lasciato per tre giorni fuori dal castello di Canossa, nel pieno inverno del 1077 prima di essere ricevuto dal papa.
Tralasciamo qui il prosieguo delle vicende di Berta ed Enrico che tornarono in Germania e ritorniamo ad Adelaide, che in questa vicenda dolorosa della diletta figlia, seppe obbedire ed onorare il Pontefice e non s’inimicò l’imperatore, districandosi tra le due distinte autorità, l’una spirituale e l’altra temporale, allora in lotta aperta per le investiture ecclesiastiche. In seguito Adelaide si trovò a fare da mediatrice pure in una contesa fra i suoi due generi, lo stesso Enrico IV e Rodolfo duca di Svevia, marito dell'altra figlia Adelaide.
Negli ultimi anni della sua vita, quantunque assai vecchia, conservò sempre lucida la mente; lasciata ogni cura di governo al nipote Umberto II, si ritirò forse prima a Valperga da dove qualche volta si portava a piedi scalzi al piccolo monastero di Colberg, distante due miglia, per onorarvi la Madre di Dio, là venerata; il suddetto monastero prese poi il nome di Belmonte.
Sulla fine della marchesa Adelaide di Susa, vi sono contrastanti ipotesi di vari studiosi; quella più attendibile è che dopo Valperga, ella si spostò in un piccolo villaggio, Canischio (TO), forse per sfuggire alla peste e qui morì e fu sepolta nella chiesa di S. Pietro il 19 dicembre 1091, aveva 76 anni circa, una bella età per quell’epoca.
La testimonianza di uno studioso, dice che nel 1775, gli fu mostrato nella chiesa parrocchiale di Canischio, il suo “meschinissimo sepolcro” in uno stato d’abbandono, che rifletteva lo stato di vita modesta dei suoi ultimi anni.
La suddetta chiesa è stata nel tempo distrutta e del suo sepolcro non esiste più traccia. Un’altra ipotesi degli storici è che i suoi resti mortali, furono trasportati da Canischio nella cattedrale di S. Giovanni Battista di Torino, ma anche qui non esistono tracce.
Autore: Antonio Borrelli
Etimologia: Abramo = grande padre, dall'ebraico
Abramo e Coren furono discepoli dei santi vescovi Giuseppe, Isacco e Leonzio, erano sacerdoti armeni ammogliati ed avevano la cura delle anime. Quando nel 450 il re di Persia Iezdegerd II inviò agli Armeni un decreto con cui ordinava di accettare come religione il mazdeismo, il clero e i principi armeni, riunitisi nel sinodo di Artasat, risposero energicamente che preferivano la morte piuttosto che rinnegare la loro fede cristiana. A questo sinodo erano presenti Abramo e Coren. L'anno seguente (451) il re mandò il suo esercito per imporre con la forza quanto non era riuscito ad ottenere con le minacce; ma il popolo armeno con a capo i suoi principi combatté coraggiosamente, mentre il clero assisteva e incoraggiava i soldati nella dura lotta. La guerra segnò una sconfitta per gli Armeni, dei quali molti guadagnarono la palma del martirio, mentre altri furono fatti prigionieri. Tra questi ultimi c'erano anche Abramo e Coren, che insieme con i loro maestri Giuseppe, Isacco e Leonzio, furono cacciati in prigione per tre anni nella città di Nisapur, nel nord-est della Persia. I vescovi furono messi a morte in quanto ritenuti responsabili della ribellione contro il re, mentre ai loro discepoli Abramo e Coren, invitati a rinnegare la loro fede, fu proposta l'adorazione del sole per essere messi in libertà. Essi rifiutarono, e per questo il giudice Tamsapur ordinò che fossero trascinati per terra e poi di tagliar loro le orecchie, infine li mandò in Mesopotamia ai lavori forzati nelle terre del re. Qui essi si prodigarono aiutando e consolando i prigionieri armeni sopravvissuti alla guerra del 451. Dopo sette anni di duro lavoro, nel 461, Coren moriva in seguito ad una insolazione confessando la sua fede, mentre Abramo continuò ancora per due anni a sopportare la vita in esilio, finché fu liberato nel 463 e poté ritornare in patria. Qui, però, visto che il popolo lo onorava come confessore, si ritirò in solitudine per dedicarsi alla vita cenobitica. Dopo tre anni, tuttavia, la fama della sua vita angelica attirò ancor più l'attenzione del popolo, che lo costrinse ad accettare la consacrazione episcopale. Fu, infatti, vescovo di Bznunik per qualche anno e morì in fama di santità. La festa dei due santi confessori si celebra il 20 dicembre.
Autore: Paolo Ananian
Ecco un Santo sposo di una santa e padre di due sante... La santità è proprio "contagiosa"...
San Flaviano, martire al tempo di Giuliano l’Apostata, fu marito di Santa Dafrosa e padre delle sante Bibiana e Demetria. Mai inserito in alcun martirologio, il suo culto è però particolarmente vivo presso la cittadina laziale di Montefiascone.
Etimologia: Flaviano = dai capelli biondi, dal latino
Emblema: Palma
Assai difficile è riuscire a far luce sulla vera identità di San Flaviano, considerato martire romano al tempo dell’imperatore Giuliano l’Apostata, ma il cui nome è taciuto da tutti i più antichi martirologi. La tradizione lo vuole marito di Santa Dafrosa (4 gennaio) e dunque padre delle sante Bibiana (2 dicembre) e Demetria (21 giugno). Confessatosi cristiano, venne marcato a fuoco sul volto con il sigillo degli schiavi e condannato al lavoro forzato presso le terme od un tempio pagano presso una località che è stata variamente identificata con Civitavecchia, Acquapendente o Montefiascone. Ma il centro del suo culto è in particolar modo ormai da un millennio proprio quest’ultima pittoresca cittadina laziale.
Le reliquie del santo sono conservate in parte nella cattedrale, ma buona parte di esse è invece oggetto di culto nella chiesa intitolata al santo stesso, ai piedi della cittadina. La chiesa di San Flaviano suscita interesse non soltanto per i suoi ricordi di santità, ma anche per i suoi caratteri costruttivi. E’ infatti formata da due edifici sovrapposti, ambedue di tipo basilicale a tre navate con abside. Colonne e pilastri sono arricchiti da fantasiosi capitelli scolpiti, che rievocano con prepotente suggestione l’antica arte etrusca, così ricca di testimonianze in quella regione. Una serie di antichi affreschi lungo le pareti arricchisce invece la chiesa inferiore.
In questa antichissima chiesa le reliquie di San Flaviano riposano da più di undici secoli. Già nell’852 infatti il pontefice Leone IV ne faceva menzione in una sua lettera. A quel tempo l’edificio era intitolato a Santa Maria e solo più tardi mutò il nome in quello del santo, venendo ricostruito nella forma attuale. Papa Urbano IV consacrò il nuovo altare nel 1262 ed alla medesima epoca risale anche la bella facciata monumentale. Le reliquie di San Flaviano furono deposte sotto l’altare, contenute in un’urna di marmo.
Nel 1657, con l’imperversare di una pestilenza, si pensò di esumare i resti del patrono per invocarne l’intercessione. Si scoprì così che l’urna era stata interrata in una profondissima fossa, unico modo per sfuggire alla profanazione degli invasori barbari, che devastarono Montefiascone nell’Alto Medioevo.
Il culto di San Flaviano dunque, seppur ben documentato e vivamente sentito a Montefiascone, che gode del suo patronato, non è però mai stato esteso ufficialmente alla Chiesa universale, a differenza di sua moglie Dafrosa che in passato fu inserita nel Martyrologium Romanum. Oggi dell’intera famiglia solamente la figlia Bibiana compare ancora sul martirologio della Chiesa Cattolica.
Autore: Fabio Arduino
Valencia, Spagna, 6 nevembre 1876 – Castellar, Spagna, 23 dicembre 1936
Martirologio Romano: Nel territorio di Valencia in Spagna, Paolo Meléndez Gonzalo, martire, che, padre di famiglia, durante la persecuzione contro la religione, uniformandosi in tutto all’esempio di Cristo, raggiunse per sua grazia il regno eterno.
Con la beatificazione, in questi ultimi due decenni, di quasi mille martiri della guerra civile spagnola si può dire che ogni categoria lavorativa è oggi ufficialmente rappresentata in paradiso. I laici, nella stragrande maggioranza provenienti dalle fila dell’Azione Cattolica, sono, infatti, così significativamente rappresentati tra le centinaia di beati tra vescovi, preti e religiosi, da poter offrire ad ogni lavoratore un modello ed un protettore contemporaneo. Questa settimana, ad esempio, vogliamo portare alla ribalta un avvocato, la cui vita esemplare è sufficiente a riscattare la fama dell’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria, entrata forse nell’immaginario collettivo. Come a dire che il suo martirio non fu improvvisato, bensì logica conclusione e degno coronamento di una vita interamente illuminata dalla fede. Nasce il 7 novembre 1876 a Valencia, figlio di un comandante della Guardia Civile che lo lascia orfano a 14 anni. Oltre che per necessità, si sente in dovere, come primogenito di sette tra fratelli e sorelle, di prendersi a carico la famiglia nel senso più vero del termine: sarà il babysitter, l’accompagnatore, il compagno di giochi, l’educatore di tutti, senza per questo trascurare la scuola, dove, infatti, si diploma con la menzione d’onore. Scontato che, così intelligente e dotato, decida di proseguire gli studi: si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Valencia, laureandosi a pieni voti e vincendo, per di più, un premio straordinario come miglior studente di Diritto di tutta la Spagna. La sua religiosità dell’infanzia si irrobustisce e si consolida nella giovinezza grazie all’Azione Cattolica, che lo forma e lo prepara ad occupare cristianamente il suo posto nella società. I suoi compagni ricordano che è sua abitudine studiare davanti al crocifisso o ad un’immagine religiosa, quasi a ricevere da questi simboli motivazione e slancio nello studio. Apre uno studio da avvocato e subito lo apprezzano per la serietà, l’onestà e la dirittura morale. Il lavoro non gli impedisce di dedicare tempo ed energie alle opere di carità, alle pratiche religiose e all’apostolato. Eccolo, dunque, operoso e infaticabile, a lavorare per i poveri della San Vincenzo; eccolo abitualmente partecipare alla messa e accostarsi alla comunione, pratica giornaliera alla quale resterà fedele per tutta la vita; eccolo animatore dei gruppi cattolici di tutta la diocesi, dagli Operai Cattolici, agli Uomini di Azione Cattolica. Parla bene e si fa ascoltare volentieri; è talmente coerente nella vita di ogni giorno da risultare anche credibile. Si è sposato nel 1904 con Dolores, una ragazza che condivide i suoi ideali e la sua forte spiritualità ed è un matrimonio benedetto da ben dieci figli. Nel 1936, quando la Guerra Civile spagnola raggiunge il culmine della violenza assumendo i connotati di una e propria persecuzione religiosa, l’avvocato che “puzza troppo d’incenso” viene subito preso di mira: lui, imperturbabile, continua la sua attività di sempre, con il solito impegno, con la consueta serenità. Anzi, accetta anche di diventare l’avvocato del vescovo, incarico che tanti hanno rifiutato per paura di esporsi troppo. Rifiuta ogni consiglio di moderare il suo impegno e di limitare il suo apostolato, come pure di nascondersi: non ha paura e, contemporaneamente, non vuole abbandonare il figlio Carlo, gravemente ammalato. Lo arrestano il 25 ottobre insieme al figlio Alberto, e davanti ai giudici, alla richiesta se è cattolico, risponde con fierezza “Cattolico apostolico e romano”. Lo tengono in carcere. Sopporta la prigione con serenità, affronta le torture con estrema dignità, fino a pochi giorni prima di Natale. Alle figlie, che chiedono sue notizie, la direzione del carcere assicura che è imminente la sua liberazione. E’ proprio una di esse a scoprire, alla vigilia di Natale, a scoprire il cadavere di papà e del fratello tra i corpi ammassati nel cimitero di Valencia: fucilato come gli altri, forse quello stesso giorno, forse il giorno precedente, e poi finito con un colpo alla nuca. Perché “troppo cattolico”, perché non erano riusciti a piegarlo nel suo desiderio di restare “fedele a Dio, alla Chiesa e alla Patria”. La Chiesa ha riconosciuto autentico martirio la morte dell’avvocato Paolo Meléndez Gonzalo e Giovanni Paolo II° lo ha beatificato l’11 marzo 2001.
Autore: Gianpiero Pettiti
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Pablo Meléndez Gonzalo, fedele laico, nacque a Valencia il 7 novembre 1876, primo di sette figli. Il 9 novembre 1876 ricevette il battesimo nella chiesa dell’ordinariato militare di Santo Domenico di Valencia, poiché suo padre era comandante della guardia civile. A soli quattordici anni rimase orfano di padre e divenne così l’appoggio di sua madre. Dall’anno seguente aderì a diverse associazioni cattoliche. Ottimo studente di Diritto, ottenne il premio massimo di carriera di tutta la Spagna.
Il 25 gennaio 1904 convolò a nozze con Dolores Boscá Bas e da questo matrimonio nacquero ben dieci figli. Fu direttore del giornale cattolico “La voz de Valencia”, consigliere comunale, vice sindaco di Valencia e deputato provinciale. In tutti questi incarichi Pablo Meléndez Gonzalo non mancò mai di essere strenuo difensore degli interessi della Chiesa. Avvocato dell’arcivescovo di Valencia, esercitò il gratuito patrocinio anche per alcune congregazione religiose ed opere ecclesiastiche. Fu infine il primo Presidente diocesano dell’Azione Cattolica di Valencia.
Allo scoppio della guerra civile spagnola, Pablo fu arrestato il 25 ottobre 1936 e durante la sua prigionia non mancò mai di dimostrarsi esemplare nell’esercizio della carità. Morì martire, insieme con suo figlio Alberto, il 24 dicembre 1936 presso Castellar. Papa Giovanni Paolo II lo ha beatificato l’11 marzo 2001 con altre 232 vittime della medesima persecuzione.
Autore: Fabio Arduino
Varennes, Canada, 15 ottobre 1701 - Montreal, 23 dicembre 1771
Nasce a Varemes il 15 ottobre 1701, in una zona del Canada che era colonia francese. Il padre, capitano delle truppe coloniali, muore quando Margherita ha cinque anni. A 12 anni la giovane entra fra le Orsoline di Quebec ma dopo due anni torna in famiglia. A 21 anni si sposa ma rimane presto vedova con cinque figli ed un altro in arrivo e con poche risorse economiche. Si dà ugualmente ad un'intensa vita di carità verso i poveri assistendoli all'ospedale generale di Montréal. Dopo la morte dell'ultimo figlio e divenuti sacerdoti altri due, il 31 ottobre 1738, inizia insieme a tre compagne una vita religiosa, stabilendosi in una casa d'affitto e gettando così le basi dell'Istituto delle Suore di Carità dette «Suore grigie» dal colore dell'abito. Nel 1747 prende la direzione dell'ospedale che le viene confermata dal re di Francia nel 1753; nello stesso anno il vescovo di Montréal approva canonicamente il nuovo Istituto. Muore a Montréal il 23 dicembre 1771 e viene beatificata da Giovanni XXIII il 3 maggio 1959 e, in seguito ad un miracolo avvenuto per sua intercessione, è stata canonizzata da Giovanni Paolo II il 9 dicembre 1990 a Roma. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Montréal in Canada, santa Maria Margherita d’Youville, religiosa, che, madre di famiglia, rimasta vedova, educò piamente due dei suoi figli sulla via del sacerdozio e si adoperò con tutte le forze per l’assistenza agli infermi, agli anziani e ai bisognosi di ogni genere, per i quali fondò la Congregazione delle Suore della carità.
Marie Marguerite d'Youville nasce il 15 ottobre 1701 a Varennes (Québec) primogenita di sei figli di Cristoforo Dufrost de Lajemmerais e di Maria Renata Gaultier de Varennes. All'età di sette anni rimane orfana di padre la cui morte lascia la famiglia in grande povertà. Ella, tuttavia, grazie all'interessamento del bisnonno Pietro Boucher, può compiere due anni di studi presso le Orsoline di Québec, le quali scoprono in lei un carattere già ben temprato e una precoce maturità.
Ritornata in famiglia, aiuta la mamma nell'accudire alla casa e nell'educare i suoi fratelli più piccoli.
A Montréal, dove nel frattempo si è trasferita con la madre passata a seconde nozze, conosce Francesco d'Youville che sposa nel 1722.
Incominciano, però, per lei grandi sofferenze: il disinteresse per la famiglia da parte del marito, dedito al traffico di alcool con gli Indiani, e soprattutto la morte in tenera età di quattro dei suoi sei figli. Assiste con tenerezza il marito, colpito da improvvisa e grave malattia fino alla morte sopravvenuta nel 1730.
La giovane vedova con immensa fede nella Paternità di Dio, dà allora inizio a molteplici iniziative caritative. Pur vegliando all'educazione dei due figli, che diventeranno sacerdoti, il 21 novembre 1737 accoglie nella sua casa una cieca. Quindi, con tre compagne che condividono i suoi ideali, il 31 dicembre dello stesso anno si consacra a Dio per servirlo nella persona dei diseredati. Margherita, a sua insaputa, diventa così fondatrice dell'Istituto conosciuto più tardi con il nome di Suore della Carità di Montréal, " Suor Grigie ".
Schieratasi a fianco dei più poveri, nonostante la salute malferma, prosegue arditamente nella sua opera assistenziale non temendo gli insulti e le calunnie che le provengono dal suo stesso ambiente familiare.
Nemmeno la morte di una associata e l'incendio della sua abita zione affievoliscono il suo ardore; sono, anzi, uno stimolo per radicalizzare ancor più il suo impegno a servizio dei poveri.
Con le due compagne della prima ora, il 2 febbraio 1745 si impegna a mettere tutto in comune per aiutare un maggior numero persone bisognose. Due anni più tardi, la " madre dei poveri ", come ormai viene chiamata, assume la direzione dell'Ospedale dei Fratelli Charon cadente in rovina. Ella ne fa un rifugio accogliente per tutte le umane miserie che feriscono il suo occhio perspicace il suo cuore materno.
Nel 1756 un incendio devasta l'ospedale, ma non affievolisce la fede e il coraggio della fondatrice: ella invita le sue suore e i poveri a riconoscere in tale prova il passaggio di Dio e a lodarlo.
Quasi prevedendo l'avvenire, a 64 anni intraprende la ricostruzione di questa casa di accoglienza per tutte le persone bisognose e in difficoltà.
La morte la coglie il 23 dicembre 1771.
Il piccolo seme gettato in terra canadese nel 1737 da questa figlia della Chiesa, è ora diventato un albero che stende le sue radi su quasi tutti i continenti. Le Suore della Carità di Montréal " Suore Grigie ", con le loro comunità sorelle: le Suore della Carità di San Giacinto, le Suore della Carità di Ottawa, le Suore della Carità di Québec, le Suore Grigie del Sacro Cuore (Philadelphia) e le Suore Grigie dell'Immacolata Concezione (Pembroke) continuano la stessa missione con audacia e speranza.
Papa Giovanni XXIII la proclamò Beata il 3 maggio 1959.
La guarigione di una persona colpita da leucemia mieloblastica avvenuta nel 1978 è stata attribuita alla sua intercessione.
Margherita d'Youville continua ancor oggi, attraverso le sue religiose, a servire Cristo in tanti bambini orfani, adolescenti insicuri dell'avvenire, ragazze deluse nelle loro speranze, famiglie disgregate e ad assistere con la sua protezione le persone impegnate nelle opere assistenziali e quelle consacrate a Dio nel servizio dei fratelli e delle sorelle.
Fonte: Santa Sede
Una considerazione, visti i tantissimi Santi sposi di oggi... Anche il Santo dei Santi ha scelto una Famiglia per venire al mondo, una genealogia d'amore per far nascere uomini, cristiani, santi... AUGURI!
Martirologio Romano: Commemorazione di tutti i santi antenati di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo, ovvero di quei padri che piacquero a Dio e che, trovati giusti, pur senza avere ricevuto le promesse, ma avendole soltanto guardate e salutate da lontano, morirono nella fede: da essi nacque secondo la carne il Cristo, che è al di sopra di tutto il creato, Dio benedetto nei secoli.
Hebron, Terra di Canaan - † Egitto
Si chiama così secondo Gn 25,26 il figlio di Isacco e di Rebecca. Da Giacobbe si fanno discendere le 12 tribù di Israele. Le storie di Giacobbe non costituiscono nella Genesi una biografia organica, ma sono piuttosto una raccolta di vari racconti, che sono stati applicati a Giacobbe. Il suo nome viene fatto derivare con una etimologia popolare dalla parola ebraico che significa "ingannare" ('aqob) (Gn 27,36; cfr. però Gn 25,26). A questa interpretazione si allacciano le storie particolareggiate dell'inganno di Giacobbe verso il fratello Esaù (cessione del diritto e della benedizione della primogenitura, Gn 25,29-34; 27). I discendenti di Giacobbe dipendono da questa benedizione carpita con l'inganno. Un altro gruppo di racconti collega Giacobbe con dei luoghi di culto e dimostra così la loro dignità (p. es.: Gn 28,10-22: Betel, sogno della scala dei cielo). Un'altra tradizione riguarda il racconto di Giacobbe in o Makpela (Gn 50,12ss). Altri racconti di Giacobbe sono ambientati in Haran presso Labano (Gn 20ss); inoltre si hanno altri racconti che sono collegati con Mahanaim (Gn 32,2-22; 33,1-16), con Penuel (la lotta notturna; Gn 32,23-31; Israele), con in Sichem (33,18-34,11), con la storia di Giuseppe. Nella tarda letteratura biblica Giacobbe è ricordato raramente (negativamente p. es. Os 12,3s.7; positivamente p. es. Sap 10,10ss).
Etimologia: Giacobbe = seguace di Dio, dall'ebraico
Il nome Giacobbe deriva da “ageb” cioè “tallone, calcagno” e più specificamente “afferrare per il calcagno o soppiantare”; il nome gli fu imposto perché al momento del parto, teneva con la mano il calcagno del fratello gemello Esaù, nato per primo e quindi destinatario del diritto di primogenitura, così importante nella scala familiare e sociale del tempo.
I suoi genitori furono il patriarca Isacco e Rebecca, la quale essendo sterile, in virtù delle preghiere rivolte a Dio dal marito Isacco, alla fine in età avanzata rimase incinta di due gemelli, appunto Esaù e Giacobbe che si urtavano nel seno materno, quasi presagio delle lotte fraterne che sarebbero accadute dopo la nascita.
Nacquero e crebbero nella Terra di Canaan, finché, secondo il racconto della Genesi (cap. 25 a 35), Giacobbe riuscì ad ottenere i diritti della primogenitura dal fratello Esaù in cambio di un piatto di lenticchie, in un momento in cui era stanco ed affamato.
Poi essendo il loro padre Isacco vecchio ed ammalato, questi volle impartire la benedizione dei patriarchi al primogenito, allora Giacobbe approfittò della momentanea assenza di Esaù dal villaggio e con la complicità e suggerimento della madre Rebecca, della quale era il favorito, indossò una pelliccia di animale, così da poter passare per Esaù che era molto peloso, infatti Isacco quasi cieco non si accorse del camuffamento e impartì la benedizione a Giacobbe credendolo Esaù.
Ciò suscitò l’ira del fratello, quando ritornato apprese dell’inganno e visto che secondo le ancestrali regole, la benedizione una volta data non poteva essere ritirata, né impartita anche a lui, perciò per vendicarsi Esaù fece il proposito di ucciderlo.
Rebecca allora per salvarlo, inviò Giacobbe presso la sua parentela di origine nella Terra di Paddan-Aram; nella casa di suo padre Betel e di suo fratello Labano.
Lo scopo non era solo allontanarlo dalla vendetta di Esaù, ma anche per fargli trovare una moglie, nella cerchia della sua parentela, secondo la legge della “endogamia”, che prescriveva di non sposare donne di altre tribù al fine di preservare la discendenza del proprio clan; ciò era già avvenuto proprio con Rebecca cugina di Isacco.
Così Giacobbe partì con la benedizione di Isacco, verso Carrai città di origine di Abramo, Isacco e Rebecca, situata nella fertile e pianeggiante regione di Paddan-Aram; mentre Esaù si sposò con donne del luogo.
Durante il cammino per giungere dallo zio Labano, Giacobbe si fermò in una località detta allora Luz (nome che fu poi cambiato in Betel = Bet-El, casa di Dio); prese una pietra, vi appoggiò il capo e si addormentò.
Nel sonno vide una scala che in basso poggiava sulla terra e in alto toccava il cielo, sulla quale salivano e scendevano angeli, nel frattempo Dio dalla sommità, gli prediceva che la sua discendenza sarebbe stata numerosa come la polvere detta terra e che lo avrebbe tenuto sempre sotto la sua protezione; Giacobbe fece voto di riconoscerlo sempre come suo Dio e di ritornare in quel luogo per trasformarlo in santuario.
Presso Labano, Giacobbe s’invaghì della cugina Rachele e la chiese in sposa al padre suo zio, il quale gliela promise a patto che lavorasse per lui come pastore per sette anni, affinché con il suo lavoro potesse ‘riscattarla’, secondo la prassi orientale, dalla famiglia di appartenenza, facendola diventare così “sua”.
L’amore di Giacobbe per la giovane e bella Rachele, fece sembrare quel lungo periodo di sette anni, come fossero passati pochi giorni e al termine dei quali si organizzò finalmente un banchetto per il promesso matrimonio.
Ma come un colpo di scena teatrale, nell’oscurità della sera, Labano fece condurre nella tenda di Giacobbe non Rachele, ma la figlia maggiore Lia tutta velata, la quale era ancora nubile e non della stessa bellezza.
Al mattino dopo Giacobbe accortasi dell’inganno, protestò vivamente con Labano, il quale si giustificò dicendo che era usanza di sposare prima la figlia maggiore se nubile.
In effetti Giacobbe fu ripagato allo stesso modo, dell’inganno fatto ad Isacco a scapito di suo fratello Esaù; proprio da un parente più furbo di lui.
Labano gli disse allora: “Finisci la settimana nuziale con Lia, poi ti darò anche Rachele, per il servizio che tu presterai ancora presso di me per altri sette anni”.
Non si dimentichi che la poligamia era ampiamente praticata nell’antico Vicino Oriente, a questo punto a Giacobbe non restò altro che accettare e dopo la prescritta settimana con Lia, poté realizzare il suo lungo sogno e “si accostò a Rachele e l’amò più di Lia”.
Lo scrittore del sacro testo biblico, descrive poi le inevitabili tensioni suscitate dalla relazione a tre di Giacobbe e le due mogli; tanto più che Lia più trascurata, era però feconda, mentre Rachele amata era sterile.
Lia partorì quattro figli, Ruben, Simeone, Levi, Giuda, capostipiti di celebri tribù. Risultati vani i tentativi di generare figli propri, Rachele ricorse alla possibilità di generare per interposta persona, secondo l’uso orientale; quindi offrì a Giacobbe la propria schiava Bila affinché potesse avere un figlio tramite di lei.
Questo ripiego era già avvenuto tempo prima con Sara moglie sterile di Abramo e la sua schiava Agar, che generò Ismaele considerato poi figlio di Sara; dalla schiava Bila Abramo ricevé due figli Dan e Neftali.
Il racconto biblico prosegue descrivendo la situazione familiare di Giacobbe, che venne trovarsi al centro della competizione fra le due sorelle a dargli dei figli, si ricorda che compito principale della donna era quello di generare figli e ciò era anche indice della benedizione di Dio sul nucleo familiare e sulla tribù.
Lia la prima moglie, visto che Giacobbe fra l’altro ormai in età matura, non si accostava più a lei perché non l’amava, gli offrì la sua schiva Zilpa per avere altri figli; da lei nacquero Gad e poi Aser.
In seguito Rachele concesse alla sorella Lia un’altra notte con Giacobbe, in cambio di un’erba (mandragora) ritenuta efficace contro la sterilità.
A Lia nacque così Issacar e in seguito ancora un sesto figlio Zabulon e una figlia Dina; a questo punto si legge nella Genesi che Dio “si ricordò” di Rachele, esaudì le sue preghiere e la rese feconda, ed ella concepì e partorì un figlio chiamato Giuseppe.
Conclusasi la storia delle quattro madri e dei loro undici figli, ritorna nel racconto biblico la figura di Labano, zio di Giacobbe e padre di Lia e Rachele. Orami erano trascorsi una ventina d’anni circa, che Giacobbe lavorava per lui a Paddan-Aram e quindi gli sorse il desiderio di ritornarsene a Canaan sua terra d’origine, tanto più che i rapporti con lo zio-suocero erano diventati più difficili.
Per questo fu necessario mettere in atto dei raggiri ed inganni riguardo le greggi, per rifarsi dei danni e soprusi subiti da Labano; con il consenso delle due mogli, che si ritenevano vendute a suo tempo dal padre, con il seguito delle due schiave e degli undici figli, padrone ormai di numerosi armenti e servitori, Giacobbe di nascosto lasciò la casa di Labano diretto a Canaan.
Lungo la strada fu raggiunto dal suocero che l’accusò di avergli sottratto figlie e nipoti e in più di aver rubato i “teafini” dalla sua casa, sorta di statuette indicanti le divinità familiari, in realtà esse erano state prese da Rachele, all’insaputa di Giacobbe, per portarle con sé in segno di protezione o di memoria del suo passato; alla fine Giacobbe e Labano si lasciarono rappacificati e stringendo un’alleanza.
Ripreso il cammino, a Giacobbe apparve una schiera di angeli, come un esercito schierato, nella località di Macanaim; la visione lo confortò e confermò la presenza di Dio che lo proteggeva e lo guidava, così come gli aveva indicato di partire da Labano.
Giunta la carovana verso il paese di Seir nella campagna di Edom, Giacobbe inviò dei messaggeri al fratello Esaù, annunciandogli il suo ritorno e sperando nel suo perdono.
Esaù gli andò incontro con quattrocento uomini, lo spaventato Giacobbe, che però confidava nell’aiuto di Dio, inviò davanti a sé a scaglioni delle greggi di capre, pecore, cammelle, giovenche, asini e torelli, affinché tali doni potessero placare la prevista ira del fratello; mentre egli trascorreva la notte in attesa, accampandosi dopo aver guadato il fiume Iabbok, un affluente del Giordano.
Qui durante la notte avvenne un episodio di grande potenza e fascino; un essere celeste (un angelo di Dio) lo affrontò e lottò con lui per tutta la notte fino all’alba; gli domandò il suo nome e gli disse: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e gli uomini e hai vinto”; Giacobbe chiamò poi quel luogo ‘Penuel’.
Il racconto di recondito significato, più che alla persona fisica di Giacobbe, si riferisce al popolo da lui derivato. Il significato del soprannome Israele è incerto, è probabile che in origine significasse “Dio si mostri forte”, interpretato poi “egli è stato forte contro Dio”.
All’alba comparve all’orizzonte Esaù con il suo numeroso seguito e Giacobbe gli andò incontro prostrandosi a terra per sette volte, ma il fratello lo abbracciò e fra le lacrime di entrambi si rappacificarono. Poi Giacobbe presentò le mogli con i rispettivi figli e le schiave con i loro figli; riconciliatosi, i due fratelli si divisero di nuovo, perché le lenti greggi e i numerosi bambini della carovana di Giacobbe, non potevano tenere il passo con le veloci cavalcature di Esaù.
Giacobbe si diresse verso Sichem al centro della regione montuosa della Palestina e qui si accampò in un terreno acquistato dal principe locale. A Sichem avvenne l’increscioso episodio del rapimento della figlia di Giacobbe e Lia, Dina, da parte del principe ereditario Sichem, il quale dopo averla violentata se ne innamorò e fece chiedere al padre Camor, di averla come moglie da Giacobbe.
Camor offrì anzi la possibilità di stabilirsi definitivamente nel suo territorio alla tribù di Giacobbe, offrendo anche una cospicua somma come prezzo nuziale.
A questo punto subentra un atto non edificante, anzi esecrabile con il ragionamento di oggi. I fratelli di Dina, finsero di accettare, anzi imposero che nelle clausole dell’alleanza fra la loro tribù d’Israele e i Sichemiti, fosse introdotta la circoncisione degli uomini; per la pace desiderata essi accettarono; però quando buona parte degli uomini validi, era in preda a dolori e la febbre che ne seguì, Simeone e Levi, fratelli di Dina per vendicarne l’onore, penetrarono in città con i loro uomini, uccidendo tutti i maschi e anche il principe Camor e il figlio Sichem, saccheggiando poi tutti i beni ed i greggi.
Giacobbe condannò blandamente i due figli e questo è un aspetto negativo, ritenendo poi opportuno partire da quei luoghi, per salvare l’intera tribù dalla vendetta dei superstiti e dei popoli vicini.
Rimessosi in cammino, la tribù s’incamminò verso Betel sul luogo dove Giacobbe aveva avuto il sogno premonitore della promessa di Dio, riguardo alla sua numerosissima discendenza; qui il patriarca eresse una stele di pietra considerandolo luogo sacro.
Proseguendo nel cammino si arrivò nei pressi di Efrata, dove Rachele che era incinta per la seconda volta, ebbe un parto molto difficile e morì mettendo alla luce il secondo figlio Beniamino e sulla strada per Betlemme fu sepolta; l’afflitto Giacobbe eresse sulla tomba una stele ancora oggi esistente, il mausoleo è meta di pellegrinaggio degli ebrei.
Giunti ad Hebron si fermarono presso Isacco padre di Giacobbe, il quale morì all’età di 180 anni assistito così dai due figli Esaù e Giacobbe.
Stabilitasi nella terra dei suoi avi ad Hebron, le storie di Giacobbe nella narrazione biblica, lasciano il passo a quelle dei suoi figli, in particolare di Giuseppe, il figlio amato giunto nella sua vecchiaia, che fu per gelosia venduto dai fratelli a dei mercanti e giunse in Egitto dove divenne grande alla corte del Faraone.
Giacobbe è presente ancora nelle storie di Giuseppe, che poté riabbracciare in Egitto dopo averlo creduto morto e presso il quale morì all’età di 130 anni.
Fu sepolto secondo la sua volontà nella grotta di Makpela in Canaan, diventata il luogo di sepoltura dei suoi avi Abramo, Sara, Isacco, Rebecca e anche della sua prima moglie Lia.
Prima di morire, Giacobbe in una solenne riunione attorno al suo letto, pronunciò le benedizioni sui suoi dodici figli e in estensione ai dodici popoli d’Israele, che da loro sarebbero derivati. Ricordiamo i loro nomi: Ruben, Levi, Simeone, Giuda, Issacar, Zabulon, dalla moglie Lia; Giuseppe e Beniamino dalla moglie Rachele; Dan e Neftali dalla schiava Bila; Gad ed Aser dalla schiava Zilpa; inoltre Dina anch’essa figlia di Lia.
Il patriarca fu pieno della persuasione di vivere alla presenza di un Dio, che l’aveva scelto per realizzare le promesse fatte ad Abramo ed Isacco.
Non vacillò nella sua fede verso questo Dio, neanche nei momenti più tragici della sua vita, che fu molto infelice e in definitiva più breve nei confronti degli altri patriarchi.
Le numerose rivelazioni divine testimoniano dell’intensità della sua unione mistica con Dio. Come gli altri patriarchi del Vecchio Testamento, Giacobbe è stato sempre ricordato nelle Chiese Cristiane nel periodo dell’Avvento; nel Martirologio Romano della Chiesa Cattolica egli è ricordato insieme agli avi santi e giusti di Gesù, partendo da Adamo, il 24 dicembre vigilia della nascita di Cristo, dai quali discendeva nella sua vita terrena.
Autore: Antonio Borrelli
24 dicembre e 30 settembre
Paddan-Aram (Mesopotamia) - † Efrata (Betlemme, Palestina)
Rachele il cui nome in ebraico significa ‘pecorella’, compare nella Bibbia nel Libro della Genesi al capitolo 29.
Giacobbe dopo aver messo in atto l’inganno di presentarsi al posto di suo fratello maggiore Esaù, al loro padre Isacco, per carpirgli la benedizione del patriarca, che sarebbe toccata al suo fratello primogenito, suscitò così l’ira di questi, per cui per salvarlo fu mandato dai genitori Isacco e Rebecca, nella terra di Paddan-Aram, nella casa di Betel, padre di Rebecca e di Labano suo fratello.
Non era solo per allontanarlo finché la situazione non si fosse calmata, ma anche per fargli trovare una moglie tra i parenti della terra d’origine di sua madre, perché gli era proibito prendere in sposa una donna di Canaan, onde evitare un matrimonio misto fra il suo clan e il popolo indigeno o hittita.
Così Giacobbe partì con la benedizione di Isacco, verso Carrar città d’origine di Abramo, Isacco e Rebecca, posta nella fertile e pianeggiante regione di Paddan-Aram.
In una tappa notturna, mentre dormiva ebbe il famoso sogno della scala che congiungeva la terra al cielo e percorsa da angeli.
Giunse poi alla sua meta e si fermò ad un pozzo nella steppa, dove vi erano adunate attorno ad esso tre greggi di pecore per abbeverarsi, ma i pastori erano in attesa di altri uomini, affinché tutti insieme potessero far rotolare la pesante pietra dalla bocca del pozzo.
Mentre Giacobbe chiedeva informazioni sui parenti che doveva raggiungere, ecco avvicinarsi la figlia di suo zio Labano, la giovane Rachele che conduceva le pecore all’abbeveratoio; al vedere quella che i pastori presenti indicarono come sua cugina Rachele, egli ne fu subito conquistato per la sua bellezza.
Fortificato da ciò, con grande sforzo spostò lui la pietra che otturava il pozzo e così le pecore di suo zio e dei presenti poterono abbeverarsi. Seguì il riconoscimento reciproco dei due cugini, lo scambio di un bacio, lo sgorgare di una lacrima, poi Rachele scappò a casa da suo padre Labano e riferirgli dell’incontro.
Labano saputo dell’arrivo di suo nipote Giacobbe, figlio di sua sorella Rebecca, gli andò incontro, l’abbracciò e lo condusse a casa sua, dove dimorò per un mese.
A questo punto bisogna fare una riflessione; quanto detto finora di Giacobbe, sembra ricalcare episodio per episodio, la storia di suo padre Isacco, per il quale fu mandato da Abramo nella casa di Betel, un servo fidato per trovargli moglie, anche qui l’incontro con la giovane Rebecca, avvenne presso un pozzo, luogo privilegiato per il raduno, gli incontri e i contratti di matrimonio.
Ritornando a Giacobbe, suo zio Labano offrendogli un lavoro presso di sé, stipulò con lui un regolare contratto di lavoro, le cui condizioni furono dettate dallo stesso Giacobbe.
Egli attratto dalle virtù di Rachele, seconda figlia di Labano, la chiese in sposa e secondo la prassi orientale, che considerava la donna un bene di famiglia, offrì il suo lavoro per sette anni per ‘riscattarla dalla famiglia’ di appartenenza, facendola diventare così “sua”.
L’amore che Giacobbe nutriva per Rachele, fece sembrare quel lungo periodo come pochi giorni; al termine dei sette anni egli chiese a Labano di potersi unire a Rachele e fu organizzato un banchetto.
A sera ci fu il colpo di scena inatteso; secondo l’uso la sposa veniva condotta dallo sposo nella tenda nuziale, completamente velata nell’oscurità della notte e così fu in quell’occasione.
La mattina dopo Giacobbe si accorse che la sposa non era Rachele, ma sua sorella maggiore Lia non della stessa bellezza, datagli da Labano con un inganno; alle rimostranze di Giacobbe, il padre delle ragazze cercò di giustificarsi, evocando un’usanza locale, cioè quella di sposare per prima la figlia maggiore, appunto Lia.
Con questo episodio, Giacobbe fu ripagato allo stesso modo, come aveva ingannato Isacco per ottenere la benedizione della primogenitura al posto di suo fratello Esaù, così fu vittima anche lui di un raggiro, operato proprio da un parente più furbo di lui.
Labano gli disse allora: “Finisci la settimana nuziale di costei, poi ti darò anche quest’altra, per il servizio che tu presterai presso di me per altri sette anni”.
In effetti l’uso della poligamia era ampiamente praticato nell’antico Vicino Oriente; a Giacobbe non restò che accettare, quindi nuova settimana nuziale e il suo lungo sogno si poté avverare “si accostò a Rachele e l’amò più di Lia”.
Iniziò così una relazione a tre con le inevitabili tensioni; lo scrittore del sacro testo si è preoccupato che la giustizia fosse assicurata, Lia trascurata era però feconda, Rachele amata era però sterile.
Lia partorì quattro figli Ruben, Simeone, Levi, Giuda, le cui tribù divennero celebri. Era normale che Rachele diventasse gelosa della sorella Lia per i figli che dava a Giacobbe, mentre lei non poteva e afflitta gridò al marito la sua disperazione: “Dammi dei figli se no muoio”, a ciò Giacobbe reagì duramente, ricordandole che la vita è un dono divino.
L’afflizione esagerata di Rachele, si spiega considerando che a quei tempi, la donna era vista soprattutto come generatrice di figli e quindi di braccia per i duri lavori dei campi e dell’allevamento di mandrie e greggi.
Poi Rachele ricorse alla possibilità di generare per interposta persona secondo l’uso orientale, quindi offrì a Giacobbe la propria schiava Bila, cosicché potesse avere un figlio tramite di lei, questo diciamo stratagemma, era già accaduto con Sara moglie sterile di Abramo e la schiava Agar, dalla quale nacque Ismaele, generato dalla schiava ma considerato figlio della moglie Sara.
Dalla schiava Bila, ricevé così due figli prima Dan e poi Neftali; a questo punto il racconto biblico assume un tono abbastanza ironico per la nostra mentalità, le due mogli di Giacobbe furono in piena gara a dare dei figli al futuro patriarca che orami era in età matura.
Lia, visto che Giacobbe non si accostava più a lei perché non l’amava, prese la sua schiava Zilpa e allo stesso modo di Rachele, l’offrì al marito per avere altri figli; in questo modo la schiava Zilpa generò Gad e poi Aser.
Venne il tempo della mietitura del grano, e Ruben figlio primogenito di Lia, trovò delle mandragore (pianta velenosa a cui erano attribuite proprietà guaritrici della sterilità) e le portò alla madre.
Rachele saputo ciò, indusse Lia sua sorella, a cedergliele e in cambio concesse che Giacobbe trascorresse un’altra notte con lei.
Questo Giacobbe sballottato da una donna all’altra, ci fa sorridere considerando che i suoi atti d’amore, dovevano essere utilizzati per soddisfare esigenze generazionali delle due mogli, anche attraverso le due schiave; sembra quasi un sultano nel suo harem, ma qui egli non sceglie, ma gli viene imposta una donna di volta in volta.
A Lia quindi nacque un quinto figlio, Issacar e poi ancora un sesto Zabulon e inoltre una figlia, Dina.
Dice la Bibbia che a questo punto Dio “si ricordò” di Rachele, la esaudì e la rese feconda; essa concepì e partorì un figlio e lo chiamò Giuseppe.
Conclusasi la storia delle madri e dei loro figli, ritorna nel racconto biblico della Genesi, la figura di Labano, padre di Lia e Rachele, presso il quale Giacobbe era stato ormai per una ventina d’anni, lavorando sodo per lui; poi subentrò il desiderio di tornarsene con la famiglia a Canaan, nella sua terra d’origine.
Ora avvennero altri episodi che non riguardano Rachele e perciò tralasciamo, soffermandoci solo su quelli in cui ormai sporadicamente compare. Deciso a lasciare la casa di Betel e Labano, Giacobbe convocò le due mogli ed espose il suo progetto di lasciare quelle terre di Mesopotamia e ritornare a Canaan, anche perché i rapporti con Labano loro padre, erano cambiati e diventati più difficili.
Rachele e Lia risposero acconsentendo, giacché il loro padre l’aveva trattate come straniere, vendendole e mangiandosi la loro dote. Prima di partire di nascosto, Rachele volle prendere gli idoletti che appartenevano al padre (sorta di statuette forse indicanti le divinità familiari, oppure il possesso di esse sanciva un diritto all’eredità; non è stato chiarito), per portarseli con sé nella terra sconosciuta dove stava recandosi, come segno di protezione o di memoria del suo passato.
Ancora s’incontra Rachele al capitolo 31, quando avendo Labano raggiunto la carovana di Giacobbe, partito a sua insaputa, dopo aver rimproverato il genero di portar via da lui le figlie e i nipoti, lo accusò di aver rubato i “terafini” dalla sua casa.
L’ignaro Giacobbe lo invitò a guardare nelle tende per assicurarsi che non c’erano, giunto alla tenda di Rachele, questa l’aveva nascosti nella sella del cammello e vi si era seduta sopra.
All’entrata del padre, lei si scusò di non potersi alzare perché indisposta, “come avviene regolarmente alle donne”; così Labano si ritirò non trovando niente.
Rachele, Lia, le schiave e i loro figli furono poi presenti all’incontro riconciliatore di Giacobbe con Esaù suo fratello, dal quale si era allontanato per sfuggire alla sua ira, tanti anni prima.
Infine nel capitolo 35 della Genesi, si narra del percorso itinerante per trovare un luogo adatto per stabilirsi; la tribù di Giacobbe arrivò in prossimità di Efrata e qui a Rachele incinta per la seconda volta, si presentò un parto difficile e nonostante tutti gli sforzi e pur avendo salvato il bambino, Rachele morì, qualche minuto prima diede il nome a suo figlio, Ben-Oni che Giacobbe muterà in Beniamino.
Fu sepolta lungo la strada verso Efrata, identificata con Betlemme e sulla sua tomba Giacobbe eresse una stele; ancora oggi all’ingresso di Betlemme, esiste un piccolo mausoleo dedicato a Rachele e la sua tomba è meta di pellegrinaggio degli ebrei. Poi Giacobbe raggiunse suo padre Isacco, che visse fino all’età di 180 anni e fu sepolto dai due figli Esaù e Giacobbe.
I figli maschi del patriarca Giacobbe furono dodici: I figli di Lia, Ruben il primogenito, Simeone, Levi, Giuda, Issacar e Zebulon; i figli di Rachele, Giuseppe e Beniamino; i figli della schiava Bila, Dan e Neftali; i figli della schiava Zilpa, Gad ed Aser; inoltre è menzionata la figlia Dina avuta da Lia.
I figli di Rachele e della sua schiava Bila iniziarono l’allevamento degli ovini, mentre i figli di Lia e della sua schiava Zilpa diedero origine agli allevamenti di bovini.
La continuità del lungo percorso del ‘popolo della salvezza’, passerà poi alla discendenza di Giuseppe, figlio di Rachele, il quale non era certamente il primogenito fra i figli del patriarca; quindi ancora una volta Dio è presente nella storia d’Israele, che conduce con il suo imperscrutabile disegno; disegno tanto più evidente se si pensa che le ultime tre donne, Sara, Rebecca, Rachele, madri, mogli e nonne di patriarchi, erano tutte sterili e poi per volere di Dio, concepirono nella vecchiaia un figlio divenuto erede della discendenza. Quindi anche Rachele fa parte del grande programma di Dio e come tale anch’essa è considerata persona santa e oggi con tutti gli antenati di Gesù, uomini e donne, giusti e fedeli alla legge divina, viene ricordata con loro il 24 dicembre; per antica tradizione era venerata da sola il 30 settembre.
È patrona delle madri che hanno perso un figlio; il nome è molto diffuso fra gli ebrei ma anche fra gli inglesi (Rachel), in Russia è Raissa, in Italia portò tale nome la moglie di Benito Mussolini.
Autore: Antonio Borrelli
Soncino, (Cremona), 28 gennaio 1816 – Comonte (Bergamo), 24 dicembre 1865
Il giorno della vigilia di Natale ci offre una delle figure più recentemente additate da Giovanni Paolo II come modello di santità: si tratta di madre Paola Elisabetta Cerioli, fondatrice dell'Istituto della Sacra Famiglia, canonizzata il 16 maggio 2004. Nata il 28 gennaio 1816 da una famiglia nobile di Soncino, in provincia di Cremona, Costanza Cerioli (come si chiamava all'anagrafe) andò sposa a 19 anni a un uomo molto più anziano di lei. Ebbe tre figli, ma le morirono tutti giovanissimi: uno appena nato, il secondo a un anno, il terzo a 16 anni. Rimasta vedova, ricca e sola a 38 anni, scelse di spendere la vita prendendosi cura in casa sua delle bambine rimaste orfane. In quest'opera si unirono presto a lei altre giovani: fu la scintilla da cui scaturì l'Istituto Sacra Famiglia, nel quale prese lei stessa i voti assumendo il nome di suor Paola Elisabetta. Presto si affiancò anche il ramo maschile dei Fratelli della Sacra Famiglia dediti all'apostolato tra i lavoratori agricoli. Morì il 24 dicembre 1865. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Comonte vicino a Bergamo, santa Paola Elisabetta (Costanza) Cerioli, che, morti prematuramente tutti i figli e rimasta poi vedova, impegnò risorse e forze nell’istruzione dei figli dei contadini e degli orfani senza speranza di futuro e visse nel Signore le gioie di madre, fondando l’Istituto delle Suore e la Congregazione dei Padri e dei Fratelli della Sacra Famiglia.
Costanza Cerioli, questo il suo nome da laica, nacque il 28 gennaio 1816 a Soncino (Cremona) dai nobili e ricchi genitori Francesco Cerioli e Francesca Corniani,
Era di gracile e delicata costituzione, ma dotata di grandi virtù spirituali che la madre con la sua sensibilità seppe sviluppare. Dai dieci ai sedici anni, fu affidata alle Suore della Visitazione di Alzano, dove si fece notare per la bontà dell’animo e la diligenza nello studio.
Aveva 19 anni quando il 30 aprile 1835 andò sposa al nobile e ricco Gaetano Buzecchi dei conti Tassis, che aveva 60 anni (siamo nell’epoca in cui i matrimoni erano combinati per tanti motivi dai familiari) e con il marito si trasferì a Comonte, sempre nel bergamasco.
Nei confronti del coniuge, tanto più anziano di lei, malato e spiritualmente lontano, Costanza Cerioli fu sempre generosa, paziente e docile; ebbe tre figli, purtroppo uno morì appena nato, un altro ad appena un anno, il terzo infine a 16 anni. Purtroppo la mortalità infantile nel secolo XIX era molto forte e tante malattie che oggi sono curabilissime, allora erano mortali; del resto la media della vita in generale era molto bassa, a confronto con quella di oggi.
Rimase vedova il 25 dicembre 1854, ormai sola e ricca, nonostante avesse solo 38 anni, si isolò dal mondo e visse ritirata nella sua casa, dedicandosi alle opere di carità, in cui impegnò il suo immenso patrimonio.
Iniziò prendendo in casa due orfanelle, che man mano aumentarono di numero, insieme alle persone incaricate della loro formazione ed assistenza; così l’8 dicembre 1857 fondò l’”Istituto della Sacra Famiglia” e lei la vedova Costanza diventò suora prendendo il nome di suor Paola Elisabetta e dopo qualche anno fondò anche i “Fratelli della Sacra Famiglia” dediti al lavoro ed all’apostolato nei campi agricoli. Personalmente scrisse per i suoi Istituti le sapienti Regole, che furono approvate dal vescovo di Bergamo; si consumò in questa assistenza sociale e attività religiosa, ed a soli 49 anni morì a Comonte il 24 dicembre 1865. Fu beatificata il 19 marzo 1950, durante l’Anno Santo, da papa Pio XII.
E' stata proclamata santa da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.
Autore: Antonio Borrelli
Fondatrice e prima abbadessa del monastero benedettino di Pfalzel (Treviri), che aveva la stessa regola dei monasteri di Ohren e di Nivelles; nonna ed educatrice di san Gregorio di Utrecht. Morì intorno al 730.
Santa Adele di Pfalzel è legata al nome di un altro grande apostolo della Germania, l'inglese san Bonifacio che predicò il vangelo in Frisia, nella prima metà del secolo VIII.
Durante uno dei suoi frequenti viaggi dalla Frisia alla Renania l'instancabile missionario fu ospite del monastero di cui era badessa Adele. La tradizione vuole che questa santa, rimasta vedova, entrasse nel monastero da lei stessa fondato, portandosi dietro il nipotino Gregorio. Durante la sosta nel monastero Bonifacio parlò così bene delle verità evangeliche che il ragazzo, ammirato, volle seguirlo. Divenne uno dei più zelanti discepoli del grande missionario. È uno degli episodi senza dubbio più significativi di questa santa il cui ricordo si confonde con quello più vivido di S. Irmina, accomunate dalla santità se non dalla parentela. La memoria di sant'Adele è ricordata il 18 e, per lo più, il 24 dicembre, insieme con quella di santa Irmina. Ha culto locale e popolare. (Avvenire)
Etimologia: Adele = figlia nobile, dall'antico tedesco
Fondatrice e prima abbadessa del monastero benedettino di Pfalzel (Treviri), che aveva la stessa regola dei monasteri di Ohren e di Nivelles; nonna ed educatrice di s. Gregorio di Utrecht. Morì ca. il 730. E' da identificare con l'abbadessa Adola, destinataria d'una lettera dell'abbadessa Elfled di Streaneshalch e con Adula, «religiosa matrona nobilis», che era a Nivelles il 17 marzo 691 e il cui figlioletto fu ivi salvato dall'annegamento. Poco sicura è invece l'identificazione di Adele con Attala, figlia di s. Irmina, come anche non è dimostrato che Adele fosse figlia di Dagoberto II e sorella di s. Irmina; infine, non genuino è il «testamentum Adulae». Mabillon sembra nutrire qualche riserva sulla santità di Adele, che peraltro ha attestazioni antiche, come quella riportata da un lezionario medievale dallo Schorn («Haec sanctissima A. plena dierum migravit ad Christum»), da cui risulta altresì che Adele fu sepolta nel suo monastero. Nel 1802 il sepolcro fu tolto; la cassa con le reliquie, portata nella chiesa parrocchiale di S. Martino, fu aperta nel 1868: non vi si trovò che una copia del testamento di s. Adele e un verbale del 1802. La tavola di piombo della traslazione del 1207 e l'originario coperchio del sepolcro furono rinvenuti nello stesso anno dietro l'altare maggiore, mentre la testa e le ossa della santa, nascoste sotto lo stesso altare, si scoprirono nel 1933. La memoria di s. Adele è ricordata il 18 e, per lo più, il 24 dic., insieme con quella di s. Irmina. Ha culto locale e popolare.
S. Adele di Pfalzel è legata al nome di un altro grande apostolo della Germania, l'inglese S. Bonifacio che predicò il vangelo in Frisia, nella prima metà del secolo VIII. Durante uno dei suoi frequenti viaggi dalla Frisia alla Renania l'instancabile missionario fu ospite del monastero di Pfalzel, presso Treviri, di cui era badessa Adele.
La tradizione vuole che questa santa, rimasta vedova, entrasse nel monastero da lei stessa fondato, portandosi dietro il nipotino Gregorio. Durante la sosta nel monastero Bonifacio parlò così bene delle verità evangeliche che il ragazzo, ammirato, volle seguirlo. Divenne uno dei più zelanti discepoli del grande missionario. E’ uno sprazzo di luce sulla nebulosa storia di questa santa il cui ricordo si confonde con quello più vivido di S. Irmina, accomunate dalla santità se non dalla parentela.
Autore: Alfonso M. Zimmermann
I santi Adamo ed Eva, prototipo della relazione uomo/donna, della relazione coniugale e sponsale e che la Chiesa, cosa che forse molti non sanno, annovera fra i santi! Purtroppo non "santi insieme"... ma proclamati singolarmente...
Originariamente era il nome comune per indicare l'uomo o l'umanità, venne quindi considerato nella genealogia di Genesi 4,25-5,5 come nome proprio del primo uomo, dell'antenato della specie umana. I racconti relativi ad Adamo parlano dell'uomo in genere, nell'antenato si prefigura la storia dell'intera specie.
Etimologia: Adamo = nato dalla terra, dall'ebraico
Il nostro progenitore, in realtà non gode di un culto liturgico proprio, ma sia in Occidente che in Oriente, egli è venerato insieme a tutti gli antenati di Gesù Cristo ed i giusti del Vecchio Testamento, in un’unica celebrazione collettiva.
Il ‘Martirologio Romano’ al 24 dicembre, vigilia della Natività del Signore, commemora gli avi di Gesù, figli di Davide, figli di Abramo, figli di Adamo, che placarono l’ira di Dio e vissero come giusti e morirono in pace nella fede.
E verso la stessa data, in Oriente, più precisamente nella prima domenica dell’Avvento orientale, si commemorano gli stessi antenati; nel Canone della Messa è scritto: “Onoriamo per primo Adamo che, onorato dalla mano del Creatore e costituito primo nostro padre, gode del beato riposo, con tutti gli eletti nei tabernacoli celesti”.
Adamo è il padre del genere umano, che non deriva da un altro uomo per generazione, ma da Dio per creazione. Il senso etimologico del nome Adamo non è certo, secondo gli Autori, a volte assume il significato dell’uomo in genere, a volte il nome proprio del primo uomo.
Nell’antichità lo si mise in rapporto con ‘adham’ = rossastro, per il colore dell’argilla che servì per la formazione del suo corpo, ma oggi si preferisce collegarlo al termine ebraico “adhamah” = terra, per cui Adamo sarebbe colui che è stato in rapporto con la terra al principio, a metà e alla fine della sua vita; in sintesi Adamo, formato dalla terra, dovrà lavorarla per provvedere al suo sostentamento e infine tornerà alla terra dopo la sua morte (Genesi).
La creazione di Adamo è narrata nella Genesi in due racconti distinti ma complementari; nel primo (I, 26 e seg.) solenne e ieratico, si afferma che nel sesto giorno della creazione, dopo tutti gli altri esseri, Dio creò l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza, riguardo l’intelletto e alla volontà e per questo li pose al disopra di ogni altra creatura.
Il secondo racconto (2-3) è assai immaginoso; l’autore vi riassume antichissime tradizioni del Medio Oriente in un quadro letterario che fonde poesia, didattica, leggenda.
Vi si narra come Dio plasmò Adamo con la terra (adhamah) e gli insufflò nelle narici lo spirito vitale; poi giacché “non è bene che l’uomo resti solo”, gli mostrò gli animali cui Adamo diede un nome e vedendo che nessuno di essi poteva ‘stargli di fronte’, creò la donna, Eva, plasmandola con una delle sue costole dopo averlo immerso in un profondo sonno; al suo risveglio Adamo riconobbe in Eva la propria compagna.
Dio li pose in un giardino dell’Eden, il paradiso terrestre, ove si trovavano l’albero della vita e l’albero della scienza del bene e del male, e qui Adamo ed Eva vennero messi alla prova e soccombettero alle lusinghe del serpente.
Perciò furono puniti da Dio con la perdita del paradiso terrestre, dell’immortalità corporea, dell’amicizia divina e della felicità che vi era connessa; e conobbero la sofferenza, il duro lavoro, la malattia, la morte.
Da loro nacquero Caino, Abele, Seth e altri figli non nominati; secondo la cronologia della Bibbia, Adamo visse 930 anni.
Il peccato originale
Dio aveva creato l’uomo libero e lo lasciò in balia del suo arbitrio, ma egli doveva dimostrare la sua sottomissione a Dio, osservando la facile condizione impostagli, che l’autore sacro della Genesi illustra così: “D’ogni albero del Paradiso puoi mangiare; ma dell’albero della scienza del bene e del male non mangiarne, perché il giorno che tu ne mangiassi, moriresti di certo” (Gen. 2, 16 seg).
Adamo dovette conoscere il disegno di Dio e rendersi conto dell’immensa portata della sua elezione e della responsabilità del suo atto, quale capo giuridico e principio naturale di tutta l’umanità.
Ma c’era un nemico di Dio, invidioso della felicità dell’uomo, il principe degli angeli caduti Lucifero, che sotto le sembianze di un serpente sedusse la donna Eva e tramite lei attirò anche l’uomo nella trasgressione del precetto di Dio.
Il peccato di Adamo è ritenuto nella Genesi come conseguenza dell’ambizione superba di diventare come Dio nella scienza e legato all’amore disordinato verso la compagna, al cui invito non seppe resistere; ma san Paolo nella sua lettera ai Romani, lo specifica come un peccato di disubbidienza.
La punizione di Dio
Il racconto biblico ci presenta una specie d’interrogatorio, di indagine, di giudizio, fra Dio e le due creature umane e dopo il tentativo di scaricarsi in successione la responsabilità della colpa, l’uomo accusa la donna, la donna incolpa il serpente, il Creatore emette la sua triplice sentenza.
Prima contro il serpente-diavolo, causa principale di quel disastro: striscerà per terra e mangerà la polvere; fra il suo seme o discendenza e la discendenza della donna che aveva ingannata, vi sarà ostilità perpetua.
Alla donna Eva, le pene imposte sono proprie del suo sesso, sia come madre, sia come sposa, quindi sofferenza per le gravidanze, passione per l’uomo che vorrà sempre dominarla.
All’uomo Adamo, le pene sono duplici, sia come individuo sia come capo del genere umano e il suo castigo riguarda l’umanità, come tale in ambo i sessi; quindi il lavoro faticoso e continuo, gli stenti, la morte corporale e spirituale; poi la perdita dei doni preternaturali, la privazione della felicità naturale e soprannaturale, subentrando invece i mali fisici e morali, individuali e sociali, che rendono gravosa e infelice la vita, fino a spegnerla nella morte e nella decomposizione del sepolcro.
“Perché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero che ti avevo proibito, maledetto sia il suolo per causa tua! Con affanno ne trarrai il nutrimento, per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farà spuntare per te, mentre tu dovrai mangiare le erbe dei campi. Con il sudore della tua faccia mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto, perché polvere sei e in polvere devi tornare!”.
Mentre castigava, Dio faceva trasparire tutta la sua bontà con il perdono dei colpevoli, con la totale mutua riconciliazione, facendo sentire loro la promessa del Salvatore, figlio della Donna che più forte del serpente-demonio, gli schiaccerà il capo, riedificando le rovine causate dal loro peccato.
Adamo da parte sua, accettò il castigo come giusta penitenza; una volta cacciato dall’Eden, stentò la vita, soffrì il dolore atroce di vedere il primo omicidio del mondo accadere fra i suoi figli Caino ed Abele, infine accolse la morte in espiazione del suo peccato originario.
Già nell’Antico Testamento si parla della penitenza di Adamo e dell’espiazione della sua colpa; perciò i Padri della Chiesa lo considerarono santo, e come tale è venerato con Eva dalla Chiesa Orientale; Dante Alighieri lo collocò nel Paradiso della sua Divina Commedia.
Dopo la sua espulsione dal paradiso terrestre, la Bibbia non dice più niente di lui, tranne quando parla dei figli avuti da Eva; Caino il primogenito, Abele ucciso da lui, Seth posto in luogo di Abele; e proprio la causa scatenante del fratricidio, cioè l’invidia per il gradimento di Dio per le offerte e sacrifici di Abele, ci fa comprendere che Adamo dovette ricevere da Dio la rivelazione delle verità religiose, dogmatiche e morali, da trasmettere ai figli e per essi ai discendenti, quindi l’offerta dei sacrifici cruenti ed incruenti, l’osservanza e la santificazione di alcuni giorni.
Nel Nuovo Testamento, san Paolo chiama Gesù Cristo “Nuovo Adamo” perché capostipite di una nuova generazione umana e apportatore della Redenzione e della vita, come il primo lo fu del peccato e della morte.
Tutti gli scrittori ecclesiastici e i Padri della Chiesa, sono del parere che Adamo ottenne il perdono di Dio, avendo vissuto come un santo penitente la sua lunghissima vita, animato dalla fede e dalla speranza del Liberatore promesso, per i cui meriti egli ottenne la salvezza finale.
A questa persuasione, appartiene la tradizione, assai diffusa tra gli scrittori ecclesiastici antichi, fondata sulla leggenda della sepoltura di Adamo sul Calvario, secondo la quale il sangue redentore di Cristo Crocifisso, sarebbe caduto sul cranio di lui, ricevendo così per primo gli effetti della Redenzione.
Numerosissima è l’iconografia, specie funeraria, che raffigura Adamo con Eva vicino all’albero della Conoscenza, con il serpente tentatore avvinghiato; ma anche nella scena della cacciata della coppia dall’Eden.
Autore: Antonio Borrelli
Il nome "Eva" è spiegato in vari modi, che il primo uomo secondo Genesi 3,20 ha dato alla sua compagna, dopo che l'aveva chiamata "donna". La Bibbia dà dei due nomi un'etimologia popolare. Eva viene fatto derivare da "vivente" o "che suscita la vita". Il nome "donna" ('ishshah) viene considerato come forma femminile di ish (= maschio). L'intendere donna come "maschi-a" indica una relazione essenziale: sia per l'origine come per la finalità la donna costituisce una unità con l'uomo. A ciò allude anche il racconto di Genesi 2,18-22, secondo cui la donna è formata da una costola del primo uomo.
Tutta la sua storia raccontata nella Bibbia, è legata a quella di Adamo, primo uomo, alla cui scheda si rimanda per un approfondimento. Dopo aver creato il cielo e la terra, il firmamento e le acque, i vegetali e gli animali, Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza e lo pose a custodia e dominio su tutto ciò; quindi Adamo il primo uomo, è il padre del genere umano, che non deriva da un altro uomo per generazione, ma direttamente da Dio per creazione.
Poi il Signore Dio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto degno di lui” e visto che nessun animale poteva stare ‘di fronte a lui’, gli procurò un sonno profondo e mentre dormiva prese una sua ‘costola’ (se così si deve intendere la parola ebraica che in tutta la Bibbia, con questo significato ricorre soltanto in questo luogo), e con essa formò Eva, da Adamo poi riconosciuta come propria compagna: “Questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa” (Gen.2, 23).
“Non è bene che l’uomo sia solo”; la solitudine viene indicata da Dio come condizione negativa per l’essere umano; l’uomo è fatto per entrare in relazione con gli altri e costruire rapporti. Il momento più alto di questa sua capacità di relazione, si trova nel suo incontro con la donna, l’aiuto che può stare ‘di fronte a lui’, cioè sullo stesso piano.
L’Autore sacro, seguendo come di solito l’etimologia popolare, spiega il significato del nome Eva che Adamo diede alla sua compagna; Eva (ebraico Hawwah) ha relazione con l’idea di ‘vita’, perciò ella era o doveva essere “madre di tutti i viventi” (Gen. 3, 20).
Poi il racconto biblico ci presenta la coppia felice nell’Eden, il paradiso terrestre, finché compare il demonio sotto le sembianze del serpente, che tenta Eva a cogliere e mangiare il frutto dell’albero della Conoscenza, l’unico frutto proibito ad Adamo ed Eva da parte di Dio, così che potesse acquistare la Conoscenza e diventare come Dio.
Eva non seppe resistere e colse il frutto, convincendo poi Adamo a mangiarlo anche lui; quanto ci sarebbe da dire su questo immaginoso episodio, per le implicazioni sociali, culturali, di giustizia che ne sono scaturite, una cosa è certa che la donna, qui presentata come proveniente dall’uomo, simbolicamente capo dell’umanità, in realtà ha la forza e il potere di convincere e trasportare l’uomo stesso, verso le sue richieste.
La Bibbia presenta quindi Eva come sposa felice, che dopo un periodo forse breve di innocenza e letizia, si lasciò sedurre dal serpente-demonio; trasgredì e fece trasgredire ad Adamo la disposizione divina, dando inizio così al peccato e alla morte: “Dalla donna ebbe principio il peccato e per sua cagione si muore tutti” (Eccl. 25, 33).
Ci fu poi l’accusa di Dio, il riconoscimento della colpa, il castigo-espiazione; dopo aver condannato il serpente a strisciare per terra, Dio sentenziò contro Eva. “Moltiplicherò le tue sofferenze e le tue gravidanze, con doglie dovrai partorire figliuoli. Verso tuo marito ti spingerà la tua passione, ma egli vorrà dominare su di te”.
Ad Adamo, dimostratosi debole per essersi lasciato convincere dalla donna e per la disubbidienza fatta, Dio, disse: “Perché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero proibito, maledetto sia il suolo per causa tua. Con affanno ne trarrai nutrimento, per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi farà spuntare per te, mentre tu dovrai mangiare le erbe dei campi. Con il sudore della tua faccia mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché polvere sei e in polvere devi tornare!”.
Rivestiti di tuniche di pelle, perché ebbero la conoscenza di essere nudi, Adamo ed Eva furono cacciati dal giardino dell’Eden, perdendo ogni privilegio soprannaturale, finendo vittime di malattie, miserie, dolori, sacrifici, morte corporale e dissolvimento post-mortem, ma soprattutto perdendo l’amicizia con Dio.
Essendo Eva “madre di tutti i viventi”, si è formato nella tradizione dei Padri della Chiesa, il parallelismo Eva - Maria, perché Eva è madre della vita naturale degli uomini decaduti e Maria, per mezzo del frutto benedetto del suo seno, è madre della vita spirituale degli uomini redenti.
Ella è ricordata, per la sua contrapposizione spesso nelle più belle preghiere mariane, ricordiamo la “Salve Regina” e l’inno “Ave maris stella”, dove gli “esuli figli di Eva in questa valle di lacrime” si rivolgono a colei che ha cambiato il nome di Eva con l’Ave dell’Angelo, cioè la tristezza in gioia.
Adamo ed Eva ebbero vari figli fra cui Caino, Abele, Seth, Enos; il primogenito Caino, per invidia e odio si macchiò del primo fratricidio del mondo, uccidendo Abele e procurando ai due genitori un dolore terribile.
Eva accettò umilmente, come Adamo, il castigo di Dio come espiazione del suo peccato, confortata dalla speranza nella vittoria finale, che la sua discendenza avrebbe riportata sul serpente-demonio seduttore.
Condusse una vita penitente e si crede sia morta dopo Adamo, che secondo lo scrittore sacro biblico, visse 930 anni.
Considerata santa in Oriente, è venerata insieme ad Adamo ed agli altri antenati di Cristo, che fecero la volontà di Dio, il 24 dicembre nella Chiesa Romana e prima dell’Avvento nella Chiesa d’Oriente.
Innumerevoli opere d’arte di insigni artisti, l’hanno raffigurata mentre tentata dal serpente, coglie il frutto proibito e mentre lo porge anche ad Adamo, commettendo così il peccato originale, fonte di ogni sofferenza umana e della perdita dell’amicizia con Dio.
Autore: Antonio Borrelli
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Anastásia, martire a Srijem in Pannonia, nell’odierna Croazia.
La ‘Vita’ di questa santa del tempo di Diocleziano, risente di tutta l’influenza che hanno avuto nei secoli successivi le narrazioni della vita e martirio dei tanti santi dei primi tempi del Cristianesimo. Una parte storica, una parte leggendaria, una parte per tradizione.
Anastasia figlia di Pretestato e moglie di Publio era tutta dedita all’assistenza dei cristiani di Roma, a cui una legge iniqua, vietava di svolgere qualunque mestiere. Il marito contrarissimo puniva con crudeltà ogni sua disubbidienza, era confortata comunque dai consigli di S. Crisogono, anch’egli perseguitato e incarcerato. Morto il marito, poté più liberamente esercitare la sua carità cristiana. Il suo consigliere Crisogono fu trasferito ad Aquileia alla corte imperiale, Anastasia lo accompagnò nel viaggio da Roma e assistette all’interrogatorio e poi alla sua decapitazione, il corpo fu abbandonato presso l’abitazione delle tre sorelle cristiane Agape, Chionia, Irene, le quali con l’aiuto del santo prete Zoilo, gli diedero sepoltura e per questo furono arrestati tutti.
Poi Diocleziano partì per la Macedonia portando con sé tutti i cristiani imprigionati e con essi anche Anastasia; dalla Macedonia si spostò verso Sirmio nell’Illiria, qui gli furono denunciati come cristiani fuggiaschi, la matrona Teodota e i suoi tre figli, che fece incarcerare.
L’interesse che Anastasia aveva per la sorte dei quattro, insospettì i pagani che la denunciarono al prefetto Probo; questi dopo interrogatori e vani tentativi di farle abiurare la fede cristiana, la tenne ai ceppi per un mese e poi l’imbarcò sopra un naviglio forato, insieme ad altri cristiani e delinquenti e avviati in mare aperto per farli naufragare e morire. Ma questi scampati miracolosamente alla tempesta, sbarcarono a Palmaria, dove di nuovo presi fu loro offerta la libertà in cambio dell’onore agli dei, ma dietro il loro ennesimo rifiuto furono tutti trucidati, mentre Anastasia fu arsa viva. Le sue ceneri furono raccolte da una donna di nome Apollonia che le depositò in una piccola chiesa nel suo giardino.
Nonostante che questa ‘passio’ sia priva di valore, è certo che il culto per una s. Anastasia martire a Sirmio è antichissimo e si diffuse poi a Costantinopoli e a Roma. A Sirmio le sue reliquie furono venerate fino al 460 circa, quando poi il patriarca Gennadio le fece trasferire a Costantinopoli nella chiesa che poi da lei prese il nome; a Roma sin dal sec. IV esisteva una chiesa titolare, già a lei intestata in pieno centro delle memorie pagane (Circo Massimo, Palatino).
Agli inizi del sec. VI il nome della martire romana Anastasia fu inserito nel Canone della celebrazione della Messa, la festa era al 25 dicembre. Sin dai tempi di s. Gregorio Magno (590-604) nella chiesa del suo “titolo” si celebravano le tre Messe natalizie e la seconda era già dedicata alla santa e celebrata dal papa in persona; oggi la celebrazione è ridotta ad una memoria nella seconda Messa detta in Aurora, data la solennità del Natale.
E’ raffigurata senza particolari attributi fra le vergini in corteo nella chiesa di s. Apollinare Nuovo, presente anche nella porta di bronzo di s. Marco a Venezia, nella cattedrale di Zara, nell’abbazia di Benediktbeuren.
Nell’antichità le furono dedicate varie chiese fra cui quella di Verona e l’altra antichissima e importantissima per l’aspetto storico e archeologico a Roma, già citata, la quale nel secolo VII era già elencata come la terza chiesa più importante dopo il Laterano e s. Maria Maggiore.
Autore: Antonio Borrelli
Figlia di s. Verdan e pronipote di s. Isacco katholicos, fu chiamata Vardeni (Rosa) dai genitori e Susanik (Gigliola) in seguito. Ereditò una profonda pietà dai genitori, però ebbe come marito Vasken, - governatore della Georgia armena e figlio di Asusa -, di carattere perverso. Infatti Vasken rinnegò la fede cristiana quando si recò dal re persiano e prese in seconda moglie la madre della regina persiana, impegnandosi a convertire alla religione persiana i figli e la moglie, cioè Susanna.
Susanna seppe che il marito aveva rinnegato la fede mentre egli stava ritornando in patria; allora prese con sé i figli e andò in chiesa a piangere il marito e raccomandare sé e i figli al Signore; poi, invece di ritornare a casa prese alloggio in una casetta presso la chiesa. Quando arrivò Vasken, non trovando né la moglie né i figli, chiamò il vescovo ed un sacerdote per mandarli presso sua moglie ed invitarla a tornare a casa promettendole gloria e ricchezza più di prima. Susanna, avuto il messaggio del vescovo, lo riprese severamente, ma quello replicò dicendo: se non ritorni a casa l’ira del principe si riverserà sui fedeli, mentre col tuo ritorno potresti calmarlo e risparmiarci la sua collera. A questo ragionamento Susanna cedette e ritornò a casa, però non partecipò al banchetto preparato per il ritorno di Vasken. Di fronte all’ostinato rifiuto di lei il principe si adirò, la trasse per forza nella sala e la picchiò tanto finché la credette morta. Però il giorno seguente seppe che era ancora in vita ed ordinò di incarcerarla legandole con catene le mani, i piedi ed il collo. In questa situazione Susanna rimase per sei anni. Intanto seppe che i tre figli erano stati uccisi in una imboscata, ed ella ringraziò il Signore per averli salvati dalle mani del marito rinnegato. Dopo sei anni di carcere, trascorsi nelle mortificazioni e nella preghiera tra l’ammirazione dei sacerdoti e monaci, anche lei morì. Erano presenti all’agonia il katholicos della Georgia, Samuele, il vescovo della città, Jovhan con i suoi sacerdoti e diaconi, molti magnati e dame della Georgia. La morte della santa avvenne il 17 Kaloc dell’a. 458 ca. La festa nell’odierno calendario armeno viene celebrata nell’ottava settimana dopo la Pentecoste, mentre nel Sinassario di Ter Israel è indicato al 25 o 29 dicembre.
Autore: Paolo Ananian
Sorella o sorellastra di Egberto, re del Wessex, andò sposa a Wolstano, conte di Wiltshire, il quale, per onorare il padre, morto in guerra, restaurò la vecchia chiesa di Wilton e vi stabilì una comunità di canonici, ai quali chiese di pregare per il padre defunto. A sua volta Alburga, rimasta vedova, con l'appoggio del fratello sostituì ai canonici delle religiose, con le quali si ritirò a fare vita in comune» fino alla sua morte, che si calcola sia avvenuta dopo l'800. La sua festa è celebrata il 25 dicembre.
Autore: Sergio Mottironi
Nel Sabato santo di un anno imprecisato Fabiola si presenta, vestita con tela di sacco, nella basilica di San Giovanni in Laterano, chiedendo di essere accolta nella Chiesa. Discende da un casato illustre nella storia romana, quello dei Fabi, e alle spalle ha già due matrimoni finiti il primo con un divorzio, il secondo con la morte del marito. Facendosi cristiana, si fa anche povera, rinunciando ai suoi beni e costruendo un ospedale per i malati. Un giorno le accade di appassionarsi a un trattato sulla vita eremitica. Autore ne è Gerolamo, che dal 385 si trova in Palestina. Fabiola decide di vivere anche lei in solitudine e nel 394 va da lui in Palestina, affidandosi alla sua guida spirituale. Nel 395, però, essendo l'Impero in pericolo per l'irruzione di popoli germanici dal Nord, decide di tornare a Roma tra i suoi, a spartirne ansie e difficoltà; e continua a vivere al modo degli eremiti, ma alla preghiera solitaria accompagna il lavoro per i poveri. Pur restando laica, diventa così un modello per il mondo monastico e per la gente comune di Roma. Muore nel 399. (Avvenire)
Etimologia: Fabiola = dalla romana gens Fabia
Martirologio Romano: Commemorazione di santa Fabíola, vedova romana, che, secondo la testimonianza di san Girolamo, volse e destinò la sua vita di penitenza a beneficio dei poveri.
L'unica fonte biografica è l'Epistola 77 di s. Girolamo, scritta nell'estate del 400 ad Oceano. Della nobile famiglia dei Fabi, Fabiola andò assai giovane sposa ad un uomo vizioso dal quale poco dopo divorziò per sposarsi nuovamente. Mortole il secondo marito, riparò il peccato presentandosi nella basilica lateranense la vigilia di Pasqua davanti al papa, al clero ed ai fedeli e chiedendo perdono.
Ritiratasi a vita privata si dedicò all'assistenza dei poveri fondando un hospitium e distribuì le sue sostanze a monasteri.
Nel 394 andò in Palestina ospite di s. Girolamo ed ivi si dedicò allo studio delle S. Scritture. L'anno seguente tornò a Roma dove visse poveramente, morendovi nel 400. Ai suoi funerali partecipò tutta la città al canto dell'Alleluja.
Girolamo le indirizzò nel 397 una dissertazione sulle vesti sacerdotali ed a lei pure destinò, nel 400, il Liber exegeticus de XLII mansionibus Israelitarum in deserto. Essa, inoltre, aveva fatto tesoro della lettera di Girolamo scritta al monaco Eliodoro intorno al 376 in cui era elogiata la solitudine. Nella lettera ad Oceano così Girolam,o sintetizza le virtù di Fabiola: "Laudem Christianorum, miraculum gentilium, luctum pauperum, solatium monachorum".
Il nome di Fabiola figura nei martirologi solo dal XV al XVIII sec. al 27 dicembre; non fu però inclusa dal Baronio nel Martirologio Romano. Essa deve la sua larga notorietà al famoso romanzo del card. Wisemann, intitolato Fabiola ossia la Chiesa delle catacombe (Londra 1855) che ci presenta una Fabiola "spettatrice simpatica delle ultime persecuzioni", anziché una matrona penitente della fine del sec. IV.
Autore: Dante Salboni
Carpi, Modena, 6 giugno 1907 – Hersbruck, Germania, 27 dicembre 1944
Odoardo Focherini, nato a Carpi da genitori trentini, si formò all’apostolato tramite l’adesione all’Azione Cattolica, nella quale ricoprì molti incarichi, ultimo quello di presidente diocesano. Sposo di Maria Marchesi, che gli diede sette figli, lavorava come assicuratore, ma in parallelo collaborava con varie testate d’ispirazione cattolica, come il quotidiano «L’Avvenire d’Italia». Con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, mise in piedi una rete di sostegno per far sfuggire alla persecuzione oltre cento ebrei. Dopo aver salvato l’ultimo, fu arrestato dalla polizia nazifascista e internato nei campi di concentramento di Fossoli, Gries, Flossenburg e Hersbruck. Morì in quest’ultimo luogo, a 37 anni, il 27 dicembre 1944. È stato beatificato a Carpi il 15 giugno 2013, sotto il pontificato di papa Francesco. La sua memoria liturgica, per le regioni ecclesiastiche dell’Emilia Romagna e del Trentino, è stata stabilita al 6 giugno, giorno del suo compleanno.
Ha impiegato più la Chiesa ad accertare che la sua morte è avvenuta “in odium fidei” ed a riconoscerlo martire, che non le Comunità Israelitiche italiane a concedergli la Medaglia d’Oro (nel 1955) o la Commissione dello Yad vaShem a conferirgli il titolo di “Giusto tra le nazioni” (nel 1969).
Infatti, la causa di beatificazione di Odoardo Focherini è stata avviata solo nel 1996, anche se poi è proceduta speditamente, tanto da poter arrivare il 10 maggio 2012 al riconoscimento del martirio, che il 15 giugno 2013 lo ha portato sugli altari. Così l’Azione Cattolica, che nello stesso anno ha visto la beatificazione di Giuseppe Toniolo, è stata di nuovo in festa per un altro suo beato, perché Focherini ne è stato anche presidente per la diocesi di Carpi.
Di famiglia originaria del Trentino, ma per adozione modenese a tutti gli effetti, Odo (come familiarmente chiamato) è una splendida figura di laico, marito e padre, che paga con la vita la sua coerenza cristiana.
Per vivere fa l’assicuratore, per apostolato è giornalista (collabora con «L’Osservatore Romano» e con «L’Avvenire d’Italia», di cui diviene anche segretario amministrativo), a tempo pieno è marito affettuoso e padre premuroso di sette figli; sempre, in ogni condizione e stato di vita, è cristiano esemplare.
A 17 anni è già responsabile dell’oratorio che prima aveva frequentato, promotore del giornale per ragazzi «L’Aspirante» e responsabile di Azione Cattolica. Ha un direttore spirituale stabile e si forma a ideali grandi, capaci di dare senso alla vita.
A 18 anni si fidanza con Maria Marchesi e la sposa a 23: lei gli regalerà sette figli che saranno il suo orgoglio e lo scopo della sua vita. Comunque, non al punto da fargli dimenticare i suoi impegni di apostolato attivo, in primo luogo in parrocchia e poi con la carta stampata, che cerca in qualche modo di conciliare con i suoi impegni di agente della Società Cattolica di Assicurazione.
In tempo di guerra, insieme alla moglie, organizza una postazione “casalinga” della rete creata dalla Croce Rossa in collaborazione col Vaticano per aiutare le persone a mantenere i contatti con i soldati al fronte, ma eroe lo diventa per caso, o meglio ancora per conseguenza, solo nel 1942.
Un giorno si vede affidare un gruppetto di ebrei polacchi dal direttore de «L’Avvenire d’Italia», che li ha avuti a sua volta in consegna dal vescovo di Genova, con il preciso incarico di provvedere al loro espatrio, in modo da evitare la loro deportazione.
Riesce a procurare documenti contraffatti ed a far varcare loro il confine col sud d’Italia. Da quel giorno si perfeziona nella falsificazione di documenti, riuscendo così a salvare la vita ad almeno 105 ebrei con l’aiuto di don Dante Sala e una rete di collaboratori.
All’ultimo, Enrico Donati, porta i documenti in ospedale, a Carpi, ma all’uscita viene prelevato dal segretario del Fascio e accompagnato in questura, a Modena, l’11 marzo 1944. Non ne uscirà più, se non per essere rinchiuso in carcere. Viene interrogato una sola volta: il 5 luglio è inviato nel campo di concentramento di Fossoli, successivamente in quello di Gries, vicino Bolzano.
Di questo periodo restano ben 166 lettere indirizzate al giornale, alla moglie ed ai genitori che riesce a far passare sotto il naso dei tedeschi, facendole arrivare a destinazione evitando la censura. In esse nessun cedimento, nessuna recriminazione per la sua attività clandestina che ha determinato il suo arresto, piuttosto una constatazione riferita al cognato: «Se tu avessi visto, come ho visto io in questo carcere, cosa fanno patire agli Ebrei, non rimpiangeresti se non di non averne salvati in numero maggiore».
Sereno sempre, anche se provato nel fisico dalle fatiche, aiuta come può i compagni di prigionia e sono in molti ad affermare di aver avuto salva la vita grazie a lui. Lo trasferiscono prima a Flossenburg, nella Baviera Orientale, poi nel sottocampo di Hersbruck, dove muore a 37 anni, il 27 dicembre 1944.
Ad assisterlo nei momenti estremi Teresio Olivelli (Venerabile dal 2015), che Odo aveva salvato da morte certa, sfamandolo di nascosto. Prima di morire a sua volta nello stesso campo, avrà il tempo di trasmettere le ultime parole dell’amico: «Dichiaro di morire nella più pura fede cattolica apostolica romana e nella piena sottomissione alla volontà di Dio, offrendo la mia vita in olocausto per la mia Diocesi, per l’Azione Cattolica, per il Papa e per il ritorno della pace nel mondo».
Autore: Gianpiero Pettiti
I martiri sotto il nazismo
Alla grande strage programmata dai tedeschi di Hitler contro il popolo ebraico va unito il sacrificio di tante figure di sacerdoti, religiosi e laici, che spesero la loro vita nell’aiuto concreto ai perseguitati di quel triste periodo della storia d’Europa.
Alcuni sono già stati elevati agli onori degli altari, ma tanti altri sono avviati al riconoscimento ufficiale del loro martirio e della loro santità nello stesso contesto storico. È il caso, ad esempio, di Odoardo Focherini, laico e padre di famiglia italiano.
La famiglia d’origine
Odoardo nacque il 6 giugno 1907 a Carpi, nell’omonima diocesi (provincia di Modena). Ebbe in tutto tre fratelli, frutto dei due matrimoni del padre, Tobia Focherini: il primo con Maria Bertacchini, che aveva dato alla luce anche Odoardo, ma morì nel 1909; il secondo con Teresa Merighi, che gli fece da mamma.
Il padre era originario del Trentino, precisamente di Cellentino in Val di Peio: la famiglia era emigrata nella Pianura Padana, dopo la chiusura delle miniere di Fucine in Val di Sole. A Carpi il padre aprì un negozio di ferramenta, nel quale collaborò anche Odoardo dopo le scuole elementari e tecniche.
La formazione
Odoardo frequentò come tanti ragazzi carpigiani la vita dell’oratorio, dove fece due incontri importanti. Il primo fu con don Armando Benatti, apostolo della gioventù, che si occupò della sua formazione religiosa. In seguito strinse un intenso legame con Zeno Saltini, poi sacerdote e fondatore di Nomadelfia, che gli trasmise l’interesse per l’impegno socio-politico.
Nel 1924, non ancora ventenne, fu tra i fondatori de «L’Aspirante», il primo giornale cattolico per ragazzi, che divenne mezzo di collegamento nazionale per i ragazzi di Azione Cattolica in Italia.
Il matrimonio, il lavoro, l’apostolato
Durante una vacanza in Val di Non, vicino alla valle di origine del padre, Odoardo conobbe Maria Marchesi, della quale si innamorò. Uniti dalla stessa visione cristiana della vita, si sposarono il 9 luglio 1930; dal loro matrimonio nacquero sette figli desiderati ed amati.
Odoardo iniziò a lavorare nella Società Cattolica di Assicurazioni di Verona il 1° gennaio 1934, con il ruolo di ispettore per le zone di Carpi, Ferrara, Udine e Pordenone. Il suo poco tempo libero era dedicato ad attività apostoliche, come conferenze sociali e religiose e i congressi eucaristici diocesani; fu anche membro fondatore della sezione locale dell’Unitalsi e impegnato nella Società di San Vincenzo de Paoli. Curava anche una compagnia filodrammatica ed era membro di una società ciclistica. Allo stesso tempo, promosse il movimento degli scout a Carpi.
L’impegno in Azione Cattolica e ne «L’Avvenire d’Italia»
Continuò senza interruzione il suo impegno nell’Azione Cattolica: nel 1928 divenne presidente della Federazione Giovanile Maschile e membro della Giunta Diocesana di A. C.; nel 1934 fu eletto presidente della Sezione Uomini. Infine, nel 1936, passò all’incarico più alto: presidente dell’Azione Cattolica diocesana. Per i suoi meriti ecclesiali, nel 1937, papa Pio XI gli concesse la croce di Cavaliere di San Silvestro.
L’apostolato della stampa lo coinvolse pienamente: fu cronista attento e scrupoloso per la diocesi di Carpi presso «L’Avvenire d’Italia» e altre testate. Nel 1939 Odoardo ricevette un altro incarico importante: amministratore de «L’Avvenire d’Italia» nell’allora sede di Bologna.
Salvatore di molti ebrei
Con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, nel giugno 1940, Odoardo organizzò un ufficio di contatto con i soldati al fronte. L’ufficio aveva due sedi: la Curia vescovile di Carpi e la sua abitazione di Mirandola.
Nel 1942, il direttore de «L’Avvenire d’Italia», Raimondo Manzini, gli affidò l’incarico di mettere al sicuro alcuni ebrei polacchi, giunti in Italia con un treno della Croce Rossa Internazionale e inviati a Bologna dal cardinale Pietro Boetto, arcivescovo di Genova.
Con l’inizio dell’intensificazione delle deportazioni razziali, dopo l’8 settembre 1943, creò una rete per l’espatrio verso la Svizzera, che salvò la vita a più di cento ebrei in collaborazione col sacerdote Dante Sala.
L’arresto e la prigionia
L’11 marzo 1944, Odoardo si recò all’ospedale Ramazzini di Carpi, sotto il pretesto di andare a trovare l’ebreo Enrico Donati: in realtà, doveva organizzarne la fuga verso la Svizzera. Fece in tempo a metterlo in salvo, ma all’uscita fu atteso dal reggente del Fascio di Carpi, che lo invitò a seguirlo con urgenza dal questore di Modena.
Giunto in Questura, gli venne comunicato che era in arresto: dopo 48 ore fu trasferito in auto al comando delle SS di Bologna. Lì fu interrogato, quindi venne rinchiuso nelle carceri di San Giovanni in Monte. Solo dal 17 marzo, tramite un amico giornalista a cui aveva scritto, riuscì a far pervenire delle lettere alla sua famiglia a Mirandola ed ai genitori a Carpi.
Le sue 166 lettere (di cui la maggior parte clandestine), che coprono il periodo dalla sua prigionia fino alla morte, costituiscono un prezioso documento storico e di conoscenza del suo animo profondamente cristiano e del suo legame con la famiglia.
La deportazione
Il 5 luglio 1944 fu trasferito al campo di concentramento di Fossoli presso Carpi: vi rimase un mese, riuscendo ad avere un facile contatto con i familiari perché si fece assegnare all’ufficio di posta.
Il 5 agosto seguente fu deportato nel campo di Gries, vicino Bolzano. Anche lì come a Fossoli riuscì a farsi assegnare alla posta, quindi riuscì con mille stratagemmi a far pervenire lettere e biglietti; incontrò di nuovo a Gries l’amico Teresio Olivelli (Venerabile dal 2015).
Il 5 settembre 1944 subì un ulteriore trasferimento a Flossenburg nella Baviera Orientale, in uno dei più vasti campi di lavoro e di sterminio realizzati dai nazisti. Dopo circa un mese, fu inviato a Hersbruck, uno dei 74 sottocampi di Flossenburg, vicino Norimberga. Qui dettò a Teresio Olivelli, anche lui internato nello stesso campo, le ultime due lettere alla famiglia.
La morte
A causa di una ferita alla gamba, che gli procurò una grave setticemia, Odoardo fu ricoverato in infermeria e fu assistito dall’amico Teresio, che raccolse le sue ultime parole. Si spense in un giorno impreciso tra il 24 e il 27 dicembre 1944. Olivelli morì una ventina di giorni dopo di lui, nello stesso campo, in seguito alle percosse ricevute a difesa di un compagno.
La conferma della sua morte giunse ai familiari e al vescovo di Carpi solo il 4 giugno 1945, con la testimonianza di due sopravvissuti, un sacerdote e il maggiore dei Carabinieri Salvatore Becciu.
Quest’ultimo poté trasmettere alla famiglia di Odoardo i suoi estremi pensieri: «Dichiaro di morire nella più pura fede cattolica apostolica romana e nella piena sottomissione alla volontà di Dio, offrendo la mia vita in olocausto per la mia Diocesi, per l’Azione Cattolica, per il Papa e per il ritorno della pace nel mondo».
I riconoscimenti civili
La disinteressata e pericolosa attività di Odoardo in favore degli ebrei perseguitati, gli ha meritato svariati riconoscimenti. Anzitutto, la Medaglia d’Oro alla memoria, concessa dall’Unione delle Comunità Israelitiche d’Italia nel 1955, seguita, nel 1969, dal titolo di “Giusto delle Nazioni”, conferito dallo Stato d’Israele. Nel 2007 ha ottenuto la Medaglia d’oro al Merito civile. Inoltre, negli ultimi anni è stato ricordato anche in diversi Giardini dei Giusti in Italia.
La causa di beatificazione
Il 12 febbraio 1996 la Santa Sede ha dato il nulla osta per il processo diocesano, allo scopo d’indagare se la morte di Odoardo Focherini fosse da considerarsi martirio. L’inchiesta, aperta nella diocesi di Carpi il 30 marzo 1996, si è conclusa il 5 giugno 1998 ed è stata convalidata col decreto del 28 maggio 1999.
La sua “Positio super martyrio” è stata consegnata nel 2003 ed è stata in seguito esaminata dai consultori teologi, il 16 ottobre 2007, e dai cardinali e vescovi membri della Congregazione delle Cause dei Santi, il 3 aprile 2012. Infine il 10 maggio 2012, è stato promulgato il decreto che lo riconosceva come martire in odio alla fede.
La beatificazione e il culto
Odoardo Focherini è stato beatificato a Carpi il 15 giugno 2013, nella celebrazione presieduta dal cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, come inviato del Santo Padre. È il primo giornalista italiano elevato agli onori degli altari.
Il giorno della sua nascita al Cielo è stato fissato ufficialmente al 27 dicembre, ma la sua memoria liturgica è stata stabilita al 6 giugno, data del suo compleanno. È inclusa nel calendario della regione ecclesiastica Emilia Romagna, in cui ricade anche la diocesi di Carpi, dove il Beato visse, e in quello della regione ecclesiastica del Trentino, da dove provenivano i suoi genitori e sua moglie.
Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini - http://www.odoardofocherini.it
Matelica, Macerata, 1 marzo 1253 - 28 dicembre 1320
La beata Mattia dei nobili de Nazareni di Matelica, ricusato il matrimonio si ritirò in monastero e professò la regola di santa Chiara. Per la sua grande prudenza e per le sue elette virtù fu per 40 anni Madre Abbadessa, diventando il modello e la madre buona delle sue consorelle. Il suo digiuno fu quasi per perpetuo. Devotissima della passione di Gesù, fu chiamata al gaudio eterno il 28 dicembre del 1320.
Martirologio Romano: A Matelica nelle Marche, beata Mattia Nazzareni, badessa dell’Ordine delle Clarisse.
Il primo marzo 1253, dai coniugi Sibilla e Gualtiero della nobile famiglia Nazzareni di Matelica (MC), nacque la piccola Mattia. Fin dai suoi primi anni il suo cuore si orientò verso Dio, infatti, nonostante le aspirazioni paterne fossero di maritarla con Piero dei Conti Gualtiero, la beata Mattia scelse di rinunciare al matrimonio e al ricco patrimonio familiare per divenire figlia di Santa Chiara. A diciotto anni entrò nel monastero di Santa Maria Maddalena e si presentò alla Badessa pregandola di accettarla fra le Clarisse. La Badessa, temendo le ire del padre di Mattia, la convinse a far ritorno a casa, in attesa del beneplacito paterno. Mattia non si persuase alle ragioni della Badessa e si ritirò nell'oratorio a pregare. Trovata per caso, in un cantuccio una vecchia tonaca la indossò, si recise le bionde trecce e prostratasi dinanzi all'immagine del Crocifisso chiese aiuto al Signore. Quando arrivò nel monastero il padre Gualtiero, rimase colpito dalla determinazione della figlia e desistette dal proposito di riportarla a casa. Iniziò così per Mattia il suo noviziato improntato alla preghiera, al digiuno e alla dedicazione alle opere più umili del monastero, divenendo ben presto modello per le religiose già osservanti della Santa Regola. Il 10 agosto 1271, davanti al notaio fece la rinuncia del suo patrimonio donando parte ai poveri e parte al monastero ed emise la Professione Solenne. Nel 1279, morta la Badessa, la comunità all'unanimità elesse Suor Mattia, per la lodevole condotta, la pietà ed lo zelo. Suor Mattia esercitò tale carica per quarant'anni consecutivi, cioè fino alla sua morte. Durante il suo governo Suor Mattia condusse a termine due imprese materiali, assai ardue se si pensa che la comunità viveva in estrema povertà: la chiesa ed il monastero. La chiesa era troppo piccola ed il monastero troppo angusto per accogliere le numerose giovani che, dietro l'esempio e la fama di Mattia, chiedevano di vivere la Regola di Santa Chiara. Suor Mattia era tanto sensibile alle sventure del prossimo da essere chiamata "madre della carità" ed era sempre pronta a consolare gli afflitti con parole che recavano pace e serenità. Dopo 48 anni di incessante preghiera, di penitenze e di dedizione al prossimo, Suor Mattia presagì il giorno e l'ora della sua morte. Era il 28 dicembre 1320, la Beata aveva 67 anni. Era appena spirata, quando Dio manifestava già con nuovi prodigi la gloria della sua sposa fedele. Il corpo della beata emanò una fragranza di Paradiso, da inondare tutto il monastero, avvolto in un fascio di luce da richiamare l'attenzione dei concittadini che corsero a vedere lo straordinario fenomeno. Essi videro in mezzo a tanto splendore una lucentissima stella, che con il suo raggio metteva capo al corpo della Beata, come a testimoniare la sua santità. Il 27 luglio 1765 il papa Clemente XIII approvò il decreto di beatificazione.
I prodigi che la Beata andava operando le crearono una fama, che varcò i confini di Matelica e causarono un continuo accorrere di fedeli. Questo crescente afflusso di pellegrini lungo il corso dei secoli determinò tre traslazioni del venerabile corpo, per meglio destinarle nella sua chiesa un posto di privilegio. Ad ogni traslazione il corpo della Beata e le sue reliquie emanarono un prodigioso Umore Sanguigno, fenomeno che si ripeté anche ad ogni ricognizione cadaverica.
I panni macchiati dall'Umore Sanguigno, divisi in pezzetti, vengono ancora oggi distribuiti fra i molti devoti della Beata come reliquie in segno di protezione.
Autore: Elisabetta Nardi
Davide è il personaggio che dominò la storia di Israele dalla prima metà dal X sec. a.C. Abbatté il gigante Golia, ridiede fiducia alle tribù d’Israele e le raccolse in un unico popolo forte e rispettato. Davide è l’uomo che peccò gravemente davanti al Signore, ma che seppe riconoscere le sue colpe e chiederne perdono. A lui il Signore assicurò una posterità eterna (2 Sam 23,5), perché dalla sua discendenza sarebbe nato il Salvatore, il vero Re che avrebbe portato la salvezza fino ai confini della terra, raccogliendo tutte le genti in un unico Israele. Gesù viene definito “figlio di David” (cfr. Mt 22,41-45), “nato dalla sua stirpe” (Lc 1,27; Rm 1,3). In Davide la promessa del Salvatore si storicizza progressivamente e l’Incarnazione del Verbo acquista tratti sempre più concreti.
Etimologia: Davide = diletto, dall'ebraico
Martirologio Romano: Commemorazione di san Davide, re e profeta, che, figlio di Iesse il Betlemita, trovò grazia presso Dio e fu unto con olio santo dal profeta Samuele, perché regnasse sul popolo d’Israele; trasportò nella città di Gerusalemme l’Arca dell’Alleanza del Signore e il Signore stesso gli giurò che la sua discendenza sarebbe rimasta in eterno, perché da essa sarebbe nato Gesù Cristo secondo la carne.
Davide era il più giovane dei sette figli di Isai, della tribù di Giuda. Era ancora giovanissimo quando Samuele fu mandato da Dio alla casa di suo padre per consacrarlo re in luogo di Saul.
Chiamato dalla montagna dove pascolava il gregge paterno, venne alla presenza di Samuele che, con olio benedetto, lo consacrò re in mezzo ai suoi fratelli.
Da quel giorno lo spirito del Signore si posò in particolar maniera sopra Davide. Al contrario, Saul fu assalito da uno spirito di tristezza e di malinconia che ben spesso lo faceva dare in furore.
Davide suonava l'arpa con grande maestria e cantava bene: fu quindi chiamato alla corte, fatto scudiere e con l'armonia del suono e con la melodia del canto dissipava la tristezza di Saul.
Mentre Davide si trovava alla corte, ci fu guerra fra Israeliti e Filistei. Per evitare spargimento di sangue, un uomo filisteo, alto più di tre metri, chiamato il gigante Golia, avanzava verso gli Israeliti e diceva: “Se c'è qualcuno tra voi che voglia venir a battersi con me avanzi”.
Poi diceva: “Io oggi ho disprezzato le schiere del Dio d'Israele”. E così per 40 giorni.
Davide, uditolo, esclamò: “Chi è questo incirconciso che ardisce insultare il popolo del Signore? Io andrò a combattere contro di lui”. Prese la fionda e il bastone, andò incontro al gigante, e con la fionda scagliò una pietra che colpì Golia in fronte e lo fece stramazzare a terra. Davide gli fu sopra: gli sfoderò la spada e gli troncò il capo. Saul non si rallegrò per la vittoria, anzi, preso da invidia, cercava la morte di Davide, che per sfuggirla andò per i deserti esclamando: “Chi confida nell'Altissimo vive in sicurezza e nulla teme”.
Morto Saul, Davide, con grande zelo, condusse il popolo alla virtù e al timor di Dio. Diede splendore al culto divino; e, innalzato un magnifico padiglione sul monte Sion, vi fece trasportare l'Arca dell'Alleanza.
Peccò anche, ma pianse i suoi peccati, fece penitenza, rimproverato dal profeta Natan, detestò i suoi errori e accettò la punizione di Dio.
Vicino a morte chiamò il figlio Salomone e gli disse: “Mio caro, cammina nelle vie del Signore, osserva i suoi comandamenti ed egli ti concederà un felice successo nelle tue imprese”. Poco dopo finì in pace i suoi giorni.
Altissimo poeta, cantò, nei Salmi immortali il dolore, il pentimento, la speranza, la fede. Profeta, vide nell'alta mente illuminata da Dio il Giusto condannato, ucciso, trionfante, e mille anni prima narrò al mondo la passione e la risurrezione di Cristo.
Autore: Antonio Galuzzi
Martirologio Romano: A Seul in Corea, santi Benedetta Hyon Kyong-nyon, vedova e catechista, e sei compagni, martiri, che, dopo aver sofferto molti supplizi per il nome di Cristo, morirono infine decapitati.
30 novembre 1614 – 29 dicembre 1680
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, beato Guglielmo Howard, martire, che, visconte di Stafford, professò la fede cattolica e, falsamente accusato per questo di cospirazione contro il re Carlo II, morì per Cristo con un colpo di scure.
William Howard era il nipote di San Filippo Howard, già trattato in data 19 ottobre. Nel 1675 fu arrestato ed imprigionato nella celebre Torre di Londra, accusato di aver protetto dei cattolici, ed infine condannato a morte e giustiziato dopo cinque anni.
William diventò visconte di Stafford nel 1637, in seguito al matrimonio con l’ultima erede del casato. Il re inglese Carlo I nominò baroni William e la moglie. Nella guerra civile che scoppiò poco dopo, appoggiò il partito monarchico e perse così tutte le sue proprietà terriere, restituitegli poi nel 1660 con l’ascesa al trono di Carlo II. William si sentì però non sufficientemente compensato per la sua lealtà alla corona e da quel momento iniziò a provare un sentimento di rancore verso il nuovo sovrano. Nel 1678 litigò pubblicamente con il conte di Peterborough nel corso di un dibattito alla Camera dei Lord, episodio che gli guadagnò non pochi nemici.
Nello stesso anno William fu denunciato per sospetta complicità nel “complotto papista” ideato da Tito Oates, accusato di aver progettato l’assassinio del re Carlo II. In tal modo sarebbe succeduto infatti al trono inglese il fratello Giacomo II, di religione cattolica. Il complotto si rivelò però assolutamente fittizio e difficilmente William Howard avrebbe potuto esserne un complice vista la sua età ormai avanzata. Tuttavia, regnando un’atmosfera generale di sospetto ed apprensione, la sua semplice appartenenza alla Chiesa Cattolica fu sufficiente per incriminarlo. Imprigionato nella Torre, fu poi processato dai suoi pari nella Westminster Hall.
Secondo la testimonianza del cronista John Evelyn, persino alcuni suoi parenti votarono contro di lui. Evelyn, che lo conosceva personalmente, escluse a priori che un uomo maturo ed esperto come Howard avesse potuto prendere parte al complotto, dando l’incarico a degli estranei di uccidere il sovrano. Lo colpì l’impressionante compostezza di William, che “parlò molto poco... e si comportò molto umilmente, come al solito” ma fu comunque ritenuto colpevole. Il 29 dicembre 1680, prima di essere decapitato, invocò: “Signore, perdona colore che hanno giurato il falso contro di me”.
William Howard fu beatificato il 15 dicembre 1929.
Autore: Fabio Arduino
Sueca, Spagna, 22 febbraio 1911 – Picadero de Paterna, Spagna, 29 dicembre 1936
Martirologio Romano: Nel villaggio di Picadero de Paterna sempre nel territorio di Valencia, beati martiri Enrico Giovanni Requena, sacerdote, e Giuseppe Perpiñá Nacher, che portarono a termine la gloriosa prova per Cristo.
José Perpiña Nácher, fedele laico, nacque il 22 febbraio 1911 a Sueca, nei pressi di Valencia in Spagna. Fu battezzato il 25 febbraio 1911 e ricevette la prima comunione nel mese di maggio 1919, sempre nella chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo del suo paese natale. Telegrafista, prestò il suo servizio sulla nave “Buenos Aires”. Laureatosi poi in Giurisprudenza, divenne segretario del Sindacato della Polizia Rurale.
Lavorò molto in favore dei poveri, specialmente quale avvocato di gratuito patrocinio. Aderì all’Azione Cattolica e all’Adorazione Notturna. Uomo molto devoto, era solito ricevere quotidianamente l’Eucaristia e si distinse per il lavoro catechistico ed anche come giornalista. Il 22 aprile 1935 convolò a nozze con Francisca Bosch Pieva nella chiesa parrocchiale della Santissima Vergine di Sales, ma l’idillio durò purtroppo ben poco.
Con lo scoppio della guerra civile e la conseguente feroce persecuzione religiosa che si scatenò, José Perpiña Nácher fu arrestato il 3 settembre 1936 ed il 29 dicembre successivo subì il martirio in odio alla fede cristiana presso Picadero de Paterna. Con lui furono anche uccisi José Aparicio Sanz ed Enrique Juan Requena. Papa Giovanni Paolo II lo ha beatificato l’11 marzo 2001 con altre 232 vittime della medesima persecuzione.
Autore: Fabio Arduino
30 dicembre (celebrazione mobile)
Nazareth, Palestina, I secolo
Martirologio Romano: Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, esempio santissimo per le famiglie cristiane che ne invocano il necessario aiuto.
La festa della Sacra Famiglia nella liturgia cattolica, nel secolo XVII veniva celebrata localmente; papa Leone XIII nel 1895, la fissò alla terza domenica dopo l’Epifania “omnibus potentibus”, ma fu papa Benedetto XV che nel 1921 la estese a tutta la Chiesa, fissandola alla domenica compresa nell’ottava dell’Epifania; papa Giovanni XXIII la spostò alla prima domenica dopo l’Epifania; attualmente è celebrata nella domenica dopo il Natale o, in alternativa, il 30 dicembre negli anni in cui il Natale cade di domenica.
La celebrazione fu istituita per dare un esempio e un impulso all’istituzione della famiglia, cardine del vivere sociale e cristiano, prendendo a riferimento i tre personaggi che la componevano, figure eccezionali sì ma con tutte le caratteristiche di ogni essere umano e con le problematiche di ogni famiglia.
Innanzitutto le tre persone che la componevano: Maria la prescelta fra tutte le creature a diventare la corredentrice dell’umanità, che presuppose comunque il suo assenso con l’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele.
Seguì il suo sposalizio con il giusto Giuseppe, secondo i disegni di Dio e secondo la legge ebraica; e conservando la sua verginità, avvertì i segni della gravidanza con la Visitazione a s. Elisabetta, fino a divenire con la maternità, la madre del Figlio di Dio e madre di tutti gli uomini.
E a lei toccò allevare il Divino Bambino con tutte le premure di una madre normale, ma con nel cuore la grande responsabilità per il compito affidatale da Dio e la pena per quanto le aveva profetizzato il vecchio Simeone durante la presentazione al Tempio: una spada ti trafiggerà il cuore.
Infine prima della vita pubblica di Gesù, la troviamo citata nei Vangeli, che richiama Gesù ormai dodicenne, che si era fermato nel Tempio con i dottori, mentre lei e Giuseppe lo cercavano angosciati da tre giorni.
Giuseppe è l’altro componente della famiglia di Gesù, di lui non si sa molto; i Vangeli raccontano il fidanzamento con Maria, l’avviso dell’angelo per la futura maternità voluta da Dio, con l’invito a non ripudiarla, il matrimonio con lei, il suo trasferirsi con Maria a Betlemme per il censimento, gli episodi connessi alla nascita di Gesù, in cui Giuseppe fu sempre presente.
Fu sempre lui ad essere avvisato in sogno da un angelo, dopo l’adorazione dei Magi, di mettere in salvo il Bambino dalla persecuzione scatenata da Erode il Grande e Giuseppe proteggendo la sua famiglia, li condusse in Egitto al sicuro.
Dopo la morte dello scellerato re, ritornò in Galilea stabilendosi a Nazareth; ancora adempì alla legge ebraica portando Gesù al Tempio per la circoncisione, offrendo per la presentazione alcune tortore e colombe.
La tradizione lo dice falegname, ma il Vangelo lo designa come artigiano; viene ancora menzionato nei testi sacri, che conduce Gesù e Maria a Gerusalemme, e qui con grande apprensione smarrisce Gesù, che aveva dodici anni, ritrovandolo dopo tre giorni che discuteva con i dottori nel Tempio; ritornati a Nazareth, come dice il Vangelo, il Bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la grazia di Dio era sopra di lui. Di lui non si sa altro, nemmeno della sua morte, avvenuta probabilmente prima della vita pubblica di Gesù, cioè prima dei 30 anni.
La terza persona della famiglia è Gesù; con la sua presenza essa diventa la Sacra Famiglia; anche della sua infanzia non si sa praticamente niente; Egli, il Figlio di Dio, vive nel nascondimento della sua famiglia terrena, ubbidiente a sua madre ed a suo padre, collaborando da grandicello nella bottega di Giuseppe, meraviglioso esempio di umiltà. Certamente assisté il padre putativo nella sua vecchiaia e morte, come tutti i buoni figli fanno, ubbidientissimo alla madre, ormai vedova, fino ad operare per sua richiesta, il suo primo miracolo pubblico alle nozze di Cana.
Non sappiamo quanti anni trascorsero con la Sacra Famiglia ridotta senza Giuseppe, il quale, se non fu presente negli anni della vita pubblica di Cristo, né alla sua Passione e morte e negli eventi successivi, la sua figura nella Cristianità, si diffuse in un culto sempre più crescente, in Oriente fin dal V secolo, mentre in Occidente lo fu dal Medioevo, sviluppandosi specie nell’Ottocento; è invocato per avere una buona morte, il nome Giuseppe è tra i più usati nella Cristianità.
Pio IX nel 1870 lo proclamò patrono di tutta la Chiesa; nel 1955 Pio XII istituì al 1° maggio la festa di s. Giuseppe artigiano; dal 1962 il suo nome è inserito nel canone della Messa.
La Sacra Famiglia è stato sempre un soggetto molto ispirato nella fantasia degli artisti, i maggiori pittori di tutti i secoli hanno voluto raffigurarla nelle sue varie espressioni della Natività, Adorazione dei Magi, Fuga in Egitto, nella bottega da artigiano (falegname), ecc.
Il tema iconografico ha largamente ispirato gli artisti del Rinascimento, esso è composto in genere da Maria, Giuseppe e il Bambino oppure da Sant’Anna, la Vergine e il Bambino. Le più note rappresentazioni sono quella di Masaccio con s. Anna e quella di Michelangelo con s. Giuseppe, più conosciuta come Tondo Doni. È da ricordare in campo scultoreo e architettonico la “Sagrada Familia” di Antonio Gaudì a Barcellona.
Numerose Congregazioni religiose sia maschili che femminili, sono intitolate alla Sacra Famiglia, in buona parte fondate nei secoli XIX e XX; come le “Suore della Sacra Famiglia”, fondate a Bordeaux nel 1820 dall’abate P.B. Noailles, dette anche ‘Suore di Loreto’; le “Suore della Sacra Famiglia di Nazareth” fondate nel 1875 a Roma, dalla polacca Siedliska; le “Piccole Suore della Sacra Famiglia” fondate nel 1892, dal beato Nascimbeni a Castelletto di Brenzone (Verona); i “Preti e fratelli della Sacra Famiglia” fondati nel 1856 a Martinengo, dalla beata Paola Elisabetta Cerioli; i “Figli della Sacra Famiglia” fondati nel 1864 in Spagna da José Mananet e tante altre.
Autore: Antonio Borrelli
Santa Melania la Giovane Penitente (sposa di un altro santo, San Piniano, morto martire e festeggiato l'11 maggio)
Etimologia: Melania = nera, scura, dal greco
Martirologio Romano: A Gerusalemme, santa Melania la Giovane, che con suo marito san Piniano andò via da Roma e si recò nella Città Santa, dove abbracciarono la regola, lei tra le donne consacrate a Dio e lui tra i monaci, ed entrambi riposarono in una santa morte.
I nonni a volte sono determinanti nelle decisioni di una famiglia, ma nel secolo V a Roma, lo erano certamente in modo molto influente. Infatti se Melania la Giovane poté vincere tutte le opposizioni aspre dei parenti, per la sua scelta di farsi monaca, lo dovette all’intervento della nonna Melania l’anziana, che anche lei da giovane dovette affrontare e vincere le stesse resistenze.
Figlia di Valerio Publicola della gens Valeria e di Ceionia Albina della gens Ceionia, quindi discendente di gloriose famiglie di Roma; a 14 anni sposò il cugino Piniano anche lui della gens Valeria, che dopo la morte di due loro figli, Melania convinse a praticare una vita penitente e casta.
Influenzata dalla propaganda monastica che nel secolo V era assai fervorosa in Roma, la pia matrona lasciò la città per ritirarsi con tutti i servi in una villa suburbana per vivere una vita monastica.
Qui sorse l’opposizione tenace dei parenti, vinta solo con l’intervento della nonna paterna, che qualche decennio prima, aveva fatta la stessa scelta fra le resistenze della nobile famiglia.
Nel 406 si trasferì a Nola presso s. Paolino, forse suo lontano parente, dopo due anni, nel 408 vista l’invasione dei barbari, si spostò nei suoi possedimenti in Sicilia e ancora nel 410 emigrò in quelli d’Africa, dove conobbe s. Agostino, stringendo con lui una salda amicizia.
Circondata da un centinaio di servi ed ancelle e con la compagnia del marito Piniano e della madre Albina, che la seguivano in questo peregrinare, formando una specie di comunità monastica, decise di recarsi a Gerusalemme, passando prima per l’Egitto, culla del monachesimo orientale, per rendere omaggio ai monaci di cui provava grande ammirazione, cercando di imitarli.
A Gerusalemme volle tenere una vita eremitica più stretta (già la nonna Melania assieme a Rufino, aveva fondato un monastero), facendosi costruire una piccola cella sul Monte degli Ulivi, sede di altri asceti e qui condusse una vita di pesanti penitenze.
Dopo un certo tempo e dopo altri contatti con i monaci egiziani, per apprendere meglio lo spirito ascetico, fondò in una zona molto isolata un monastero femminile e dopo qualche anno, anche uno maschile, con oratori dotati di reliquie di santi martiri.
Il regolamento delle Comunità, disposto da Melania stessa, fu improntato ad una estrema severità, sul modello egiziano, anche se nella liturgia si notava una certa influenza romana ed occidentale.
Fu tanto caritatevole che il suo patrimonio e quello del marito Piniano, morto nel 432, fu lentamente esaurito a favore dei poveri; ebbe una grande fama di santità in tutto l’ambiente di Gerusalemme, dove morì nel 440. Il culto per s. Melania la Giovane fu abbastanza sentito in Oriente, mentre in Occidente cominciò solo nel secolo IX. La commemorazione della grande matrona romana, asceta e monaca a Gerusalemme è al 31 dicembre. Il suo culto fu approvato nel 1908.
Il nome Melania proviene dal greco Melan e significa “scura, nera”; fu un soprannome e poi nome individuale frequentemente attribuito alle donne brune, di origine greca ed orientale.
Autore: Antonio Borrelli
Vita di Santa Melania Juniore di padre Modesto Ivano Giacon
Nascita e fanciullezza
Santa Melania Juniore nacque a Roma verso la fine deI 383. Era figlia di Valerio Publicola della nobilissima stirpe dei Valeri, celebre fin dai tempi della Repubblica Romana per una lunga serie di consoli e di magistrati. La madre di Melania, Albina, discendeva dalla famiglia Celonia ed era cristiana. Il padre di Albina, invece, era pontefice di Vesta.
Melania fu affidata presto ad una istitutrice greca, come era consuetudine presso i Romani. Le fu impartita una educazione degna della nobile famiglia cui apparteneva. Apprese perfettamente il latino ed il greco, che parlava correttamente. Fin da piccola amava Io studio e desiderava molto apprendere.
Fu guidata presto alla pratica religiosa cristiana. Suo padre la iniziò all'amore e allo studio della Bibbia. Si adattava con fatica allo sfarzo e al lusso della casa. Ma il padre la costringeva a vestire gli abiti più ricchi e a portare gli ornamenti più preziosi. La voleva la fanciulla più ammirata e invidiata di Roma.
Sposa e madre
Melania, sull'esempio di nobili fanciulle cristiane, desiderava consacrarsi a Dio nella verginità. Ma Publicola, per salvaguardare il ricco patrimonio della casa e per continuare la sua stirpe, la promise in sposa al figlio di un suo cugino. Nel 397, a quattordici anni, Melania si unì in matrimonio a Piniano diciassettenne. La giovinetta, forzata a sposarsi e tristemente impressionata dalla licenziosità delle famiglie romane, chiese alla sposo di vivere in totale continenza. Piniano non acconsentì. Nacque presto una bambina, che morì poco dopo. Melania rinnovò la sua richiesta, ma intervenne il padre, allontanandola dalle persone che, secondo lui, la distraevano dal tenore di vita che egli sognava per lei. La notte di San Lorenzo del 399 Publicola non le permise di celebrare la veglia nella basilica del Santo con tutti i fedeli. Melania fu costretta a rientrare in casa, dove passò l'intera notte in preghiera, inginocchiata sul pavimento. La mattina seguente si recò in basilica per la Messa. Tornata a casa, fu costretta a letto, per un parto prematuro. Diede alla luce un bambino, che morì il giorno appresso. La giovanissima mamma in quei giorni fu tra la vita e la morte. Piniano, che l'amava teneramente, corse alla basilica di San Lorenzo ad impetrarne la guarigione e promise che se fosse guarita avrebbe assecondato il suo desiderio di vivere in perfetta continenza. Ottenne il miracolo e mantenne la promessa.
Il padre di Melania, ambiziosissimo, nonostante la sua pietà, lodata anche da Sant'Agostino e da San Paolino di Nola, costringeva i giovani sposi, con forte riluttanza della figlia, a condurre una vita secondo il rango della nobilissima famiglia. Nel 404 egli venne a morte. Melania poté allora cambiare completamente il tenore della sua esistenza e conformarla a quella di pietà e di rinuncia della sua nonna paterna, Santa Melania Seniore.
Rinuncia alle ricchezze
La madre Albina e lo sposo Piniano vollero seguirla nel suo impegno di maggiore conformità a Cristo, povero e umile. Con lei lasciarono il ricchissimo palazzo di Roma e andarono a vivere in una villa di campagna. La loro casa diventò presto centro di ospitalità, di carità, di vita religiosa. Le sostanze dei Valeri, di cui Melania, dopo la morte del padre, era diventata unica erede, ammontavano ad un valore inestimabile. La giovane matrona, nella sua sensibilità cristiana, si sentiva oppressa da quella immensa ricchezza. D'accordo con Piniano, pensò di vendere gran parte del patrimonio per aiutare le chiese e i poveri. Appena i parenti ebbero sentore di questo progetto, aizzarono contro i due giovani sposi i contadini e i servi. E fu così forte la guerra scatenata soprattutto dal fratello di Piniano, Severo, per impedire la vendita che Melania fu costretta a ricorrere all'imperatore Onorio. Si presentò a Serena, suocera dell'imperatore, che rimase fortemente colpita dall'umile contegno e dall'abito dimesso della giovane matrona e le ottenne subito un rescritto imperiale, che incaricava le autorità delle province, sotto la loro personale responsabilità, a favorire la vendita delle proprietà dei Valeri e a consegnarne direttamente il prezzo a Melania. Con la somma ricavata diede aiuto e soccorso ai poveri, ai malati, agli schiavi, ai pellegrini, alle chiese e ai monasteri in tante parti dell'impero. Lo storico contemporaneo Palladio assicura che i monasteri di Egitto, Siria, Palestina ricevettero forti aiuti da Melania e che in una sola volta liberò ottomila schiavi.
Viaggi in Italia, Africa, Palestina
Nel 406 con Piniano e la madre, Melania si recò a Nola presso San Paolino, vescovo della città e suo lontano parente. Il Santo, in un bellissimo carme latino, ricorda come la generosa patrizia lo aiutò con le sue ricchezze nella costruzione della basilica di San Felice, patrono della città, e dei molteplici edifici annessi. La ringrazia anche perché con il suo sostegno poté realizzare l'acquedotto e incrementare e abbellire Nola. Melania, intimorita dall'invasione dei Goti, che scendevano verso l'Italia meridionale e conquistavano e bruciavano Reggio, dopo una brevissima sosta nella sua villa di Messina, con il marito e la madre si recò in Africa a Tagaste. Incontrò Sant'Agostino, che, in una sua lettera, chiama i tre: “astri luminosi della Chiesa”. Costruì due monasteri, uno maschile e uno femminile. Nel primo si ritirò Piniano con alcuni servi, che l'avevano seguito, e nell'altro Melania con la madre e parecchie donne. Nel 417 lasciò l'Africa per pellegrinare in Palestina. Si sistemò coi suoi a Gerusalemme. Qui incontrò sua cugina Paola, nipote di Santa Eustachio, che la presentò a San Girolamo, guida spirituale di un gruppo di pie matrone, dedite nel paese di Gesù, alla contemplazione e alla penitenza. Fondò anche qui due monasteri. In quello femminile si ritirò con la madre. Scrisse una regola, ricca di umanità e di dolcezza, molto diversa da quelle allora in vigore che prescrivevano un'austera disciplina anche fisica. Si nota in essa chiaramente un'influenza romana e occidentale, in particolare nell'insistenza sulla pratica liturgica con la recita del Salterio e le celebrazioni eucaristiche.
Claustrale a Gerusalemme
Santa Melania passava le giornate, oltre che nella prolungata preghiera, nello studio e nella meditazione della Sacra Scrittura e nella trascrizione in latino e in greco dei libri sacri, che distribuiva ai vari monasteri. Duecento anni dopo la sua morte circolavano ancora manoscritti attribuiti a lei. Leggeva l'intera Bibbia quattro volte l'anno. La conosceva così bene che il suo biografo asserisce che s'era trasformata in succo e sangue suo e che l'abituale parlare rifletteva il linguaggio biblico. Cercava con avidità i commenti dei Padri e degli scrittori ecclesiastici, che leggeva assiduamente con grande profitto. Le varie comunità di vergini avevano in lei non solo una madre tenerissima, ma anche un'impareggiabile e colta maestra di spirito. Nel 431, dopo quattordici anni di vita in Palestina insieme con la figlia, morì santamente la madre di Melania, Albina, e l'anno dopo anche Piniano. Il Martirologio Romano lo annovera nel catalogo dei Santi. Melania seppellì i suoi cari uno accanto all'altro, sul Monte degli Ulivi. Vicino costruì per sé una piccola cella ed in seguito un monastero, nel quale si ritirò.
Conversione dello zio
Cinque anni dopo la morte dello sposo, venne a sapere che lo zio Volusiano, già prefetto di Roma, era giunto a Costantinopoli con un'ambasciata presso l'imperatore. Nonostante i tentativi di Sant'Agostino e di San Paolino di Nola, egli era rimasto pagano, non tanto per convinzione quanto perché i molti suoi amici lo dissuadevano dal convertirsi al cristianesimo, soprattutto ricordandogli i precetti morali che la legge evangelica imponeva. Melania, fiduciosa in Dio e nella potenza della preghiera, lasciò Gerusalemme e si recò dallo zio. In quel tempo egli cadde malato. La dolcezza, la pietà, la viva e luminosa testimonianza cristiana della nipote scossero il cuore di Volusiano, che chiese il battesimo. Gli fu amministrato la vigilia dell'Epifania del 437 da San Proclo di Costantinopoli. Morì il giorno dopo.
Morte di Santa Melania
Tornata a Gerusalemme, Melania continuò la sua vita di sempre nel monastero, dedita alle lunghe ore di preghiera e di contemplazione, alle celebrazioni liturgiche, allo studio e all'esercizio della penitenza.
Il Natale del 439 volle passarlo a Betlemme, presso la grotta della Natività. Alla cugina Paola manifestò che si sentiva venir meno e che prevedeva la morte ormai vicina. La festa di Santo Stefano, dopo aver partecipato alla Messa nella basilica a lui dedicata, lesse alle sorelle il racconto del martirio del Santo diacono nella pagina degli Atti degli Apostoli. Volle fare una visita di congedo ai monaci e, di ritorno alla sua cella, si sentì mancare. Alle sorelle, radunate attorno al suo giaciglio, disse con commozione:
“Il Signore conosce la mia indegnità e che non ardirei paragonarmi a nessuna donna, nemmeno a quelle che vivono nel mondo. Tuttavia penso che neanche il nemico nel giudizio finale potrà accusarmi d'essere andata a dormire anche una sola volta con animosità e rancore nel cuore verso qualcuno”. La mattina della domenica deI 31 dicembre il confessore Geronzio celebrò la Messa. La sua voce era tremante per la commozione e Melania gli fece sapere che non riusciva a sentire le sue parole. Durante il giorno andarono molte persone a visitarla. Verso sera si sentì molto stanca e chiese che la lasciassero riposare. Nella notte sopraggiunse la morte. Si spense, ripetendo le parole di Giobbe: “Quel che il Signore vuole; sia fatta la sua volontà!”. Aveva cinquantasei anni. Nella chiesa bizantina fu presto onorata come Santa.
In Occidente fu iscritto il suo nome nel Martirologio Romano insieme con quello di Piniano, ma non le fu mai tributato un culto particolare. Solo nel 1908 San Pio X approvò la sua festa al 31 dicembre.
Autore: padre Modesto Ivano Giacon