Santi & Sposi
NOVEMBRE
Sommario
Sant'Araldo (Aroldo) VI Denteazzurro Re di Danimarca, martire
San Nuno Alvares Pereira Fondatore della Casa di Braganza, carmelitano
San Dingad ab Brychan Re di Selcovia
Beata Margherita di Lorena Vedova.
Santa Silvia Madre di S. Gregorio Magno.
San Giovanni III Duca Imperatore bizantino
Sant'Emerico d’Ungheria Principe
Santi Galazione ed Episteme Sposi e martiri
Beato Gomidas Kaumurdjian (Keumurgian) Sacerdote e martire
Beata Beatrice de Suabia Regina
San Baudino (Baldo) Vescovo di Tours
Santi Melasippo, Cassina (Carina) ed Antonio Genitori e figlio, martiri
Beata Maria del Monte Carmelo del Bambino Gesù Gonzalez-Ramon Garcia-Prieto Fondatrice
Beati Luigi Beltrame Quattrocchi e Maria Corsini Sposi
San Giovanni l'Elemosiniere Vescovo patriarca di Alessandria d’Egitto
San Nilo il Sinaita Confessore
Sant'Esichio di Vienne Vescovo
Beato Giuseppe Raimondo Medes Ferris Laico coniugato, martire
Beata Bianca d’Aragona Regina, mercedaria
San Giustiniano I Imperatore d’Oriente
San Leopoldo III il Pio Margravio d'Austria
Beata Lucia (Broccadelli) da Narni Domenicana
Santa Margherita di Scozia Regina e vedova
Sant'Eucherio di Lione Vescovo
Sant'Elisabetta d'Ungheria Religiosa
Beata Salomea da Cracovia Regina d’Ungheria, badessa
Beato Yoshida Xoum (Giovanni) Laico giapponese, martire
Beati Domenico Jorge e Isabella Fernandes, martiri insieme al figlio: Beato Ignazio
San Narsete (Nerses) I il Parto Katholicos degli Armeni
Sante Quaranta Donne Martiri di Eraclea con Annone diacono Vergini e vedove
Santi Filemone ed Appia Sposi e martiri, discepoli di San Paolo
Santa Cecilia Vergine e martire
Santi Valeriano e LXXX compagni Martiri a Forlì
Santa Cecilia Yu So-sa Vedova e martire
Santa Felicita Martire con i suoi sette figli
Beata Margherita di Savoia Religiosa domenicana
Sant’Enfleda Regina di Bernicia, badessa.
Santi Martiri Vietnamiti (Andrea Dung Lac e 116 compagni)
Beati Luigi Beltrame Quattrocchi e Maria Corsini Sposi
Santa Basilissa (Augusta) Imperatrice
San Giacomo l'Interciso (il Solitario) Martire in Persia 27 novembre
Beato Luigi Campos Gorriz Padre di famiglia, martire
Beati Giorgio Errington, Guglielmo Gibson e Guglielmo Knight Martiri
Santi Tiridate III, Askhen e Khosrovidukht Famiglia reale armena
Santa Maura di Costantinopoli Martire
+ 1° novembre 980
Il sovrano danese Harald VI Blaatant, cioè “Denteazzurro”, era asceso al trono nel 931 o più verosimilmente nel 950, succedendo a suo padre Gorm. Sconfitto da Ottone il Grande, fra il 948 ed il 960 si adoperò per la diffusione del cristianesimo nel suo regno, ma il suo fervore di neofita attirò a lui l’atroce ostilità di tutti i fedeli delle vecchie tradizioni pagane indigene, capeggiati da suo figlio Swein, detto “Barbaforcuta”. Questi, come attesta la testimonianza di Adamo da Brema, citato dal Cardinal Baronio, giudicando il padre ormai vecchio ed inadatto al comando approfittò della prima rivolta di coloro che si erano forzatamente convertiti per essere acclamato re. Dichiararono allora guerra al vecchio re Araldo, ma l’esercito dei suoi fedeli non riuscì a sconfiggere gli avversari ed egli stesso fu ferito mortalmente. Correva l’anno 980, come ci conferma l’epitaffio posto sul sepolcro del sovrano: “Post Natale Dei, dum scripsimus, octuaginta nongentos meruit scandere celsa poli”. Altre fonti pongono invece la morte di Araldo verso il 986. Trovata sepoltura in una chiesa da lui fatta edificare in onore della Santissima Trinità, fu da alcuni considerato martire in quanto vittima di una battaglia combattuta in difesa della fede.
E’ certo il titolo di santo attribuitogli dal Baronio, anche se non è ancora stata attestata l’antichità del suo culto. Giovanni Adolfo Cupreo negli Annales Episcoporum Sleviciensium afferma che gli antichi Danesi fossero soliti commemorare il santo re al 1° novembre, anniversario del suo martirio, nonché il proliferare di miracoli presso la sua tomba, quali in particolare numerose guarigioni di ciechi. Va però ricordato che il Cupreo scriveva nel 1634 e lontano dalla patria, quindi senza poter compiere un’accurata indagine sul culto di Aroldo. Infine i Bollandisti, nel commemorarlo al 1° novembre, si stengono però dall’attribuirgli i titoli di santo e martire.
Resta però un dato di fatto che il cristianesimo in Danimarca abbia trionfato proprio sotto il regno di questo sovrano che si prodigò nell’edificazione di chiese ed incrementò le predicazioni nel nord dell’Europa. Egli stesso fu conscio di potersi considerare il cristianizzatore del suo popolo, come fece incidere sulla celebre pietra di Jelling sulla tomba dei suoi avi.
Autore: Fabio Arduino
Cernache do Bonjardim, Portogallo, 24 luglio 1360 - Lisbona, Portogallo, 1 aprile 1431
Nuno Alvares Pereira, fondatore della casa di Braganza, nacque in Cernache do Bonjardim (Portogallo) il 24 giugno 1360. Connestabile del Regno di Portogallo, fu condottiero invincibile delle armate militari nella guerra d'indipendenza. Le gesta di questo eroe nazionale vennero cantate da L. Camoes nei Lusiadas. Quando morì sua moglie, entrò nel 1423 a Lisbona nel convento da lui fondato per l'Ordine dei Carmelitani. Volle essere un semplice "donato" e prese il nome di fra Nuno di Santa Maria. Morì nello stesso convento la Domenica di Risurrezione del 1431 (1 aprile), avendo dato a tutti durante la sua vita un esempio di preghiera, penitenza, amore verso i poveri e devozione filiale alla Madonna. Il suo culto fu approvato nel 1918. Benedetto XVI lo ha canonizzato il 26 aprile 2009.
Martirologio Romano: A Lisbona in Portogallo, beato Nonio Álvarez Pereira, che fu dapprima comandante generale delle forze armate del regno e poi, accolto come oblato nell’Ordine dei Carmelitani, condusse vita povera e nascosta in Cristo.
Tutte le nazioni europee annoverano tra i santi più venerati almeno un eroe nazionale o un sovrano. Emblematici sono i casi dell'eroina francese Santa Giovanna d'Arco, del sovrano bulgaro San Boris Michele I, del romeno Santo Stefan cel Mare, dello spagnolo Sant’Ermenegildo, del norvegese Sant’Olav II, del russo San Vladimiro di Kiev, del serbo San Simeone Stefano Nemanja, dello svedese Sant’Erik IX, della georgiana Santa Tamara, dell’armeno San Tiridate III, dell’inglese Sant’Etelberto del Kent, ma questi sono solo due fra molteplici esempi simili. Il caso assolutamente meno noto a livello continentale è quello del fondatore della Real Casa di Braganza, che regnò sul Portogallo e sul Brasile.
Si tratta del Beato Nuno Alvares Pereira, la cui vicenda terrena è oggetto di trattazione nella “Cronica do Condestavel”, un classico della letteratura portoghese risalente al XVI secolo. Nacque a Cernache do Bonjardim, nei pressi di Lisbona, il 24 giugno 1360 da don Alvaro Goncalves de Pereira, il quale ricopriva il ruolo di grande maestro di uno dei rami dell'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni in Gerusalemme. All'età di tredici anni si trasferì alla corte del re Ferdinando del Portogallo per avviarsi alla carriera militare. Sin da piccolo aveva apprezzato le leggende di re Artù e come Galahad desiderava restare celibe e porsi al servizio del proprio sovrano. Sposò poi invece, a diciassette anni, Leonora de Alvim, da cui ebbe tre figli. Ne rimase vedovo nel 1387.
Appena ventitreenne fu designato quale generale al comando delle forze armate portoghesi e l'investitura avvenne per mano del grande maestro dei Cavalieri di Aviz, che dopo due anni ascese al trono con il nome di Giovanni I. Godendo di universale rispetto, accompagnò alla vittoria i suoi uomini nella battaglia di Atoleiros combattuta contro l'esercito della Pastiglia. In tal modo il Portogallo ottenne definitivamente l'indipendenza dagli altri regni della penisola iberica.
Nel 1422 avvenne quel grande colpo di scena che lasciò stupita l'intera corte: Nuno fondò un nuovo convento carmelitano a Lisbona e vi si ritirò per il resto dei suoi giorni come fratello laico, assumendo il nome di Nuno de Santa Maria. Il 1° aprile 1431, domenica di Pasqua, mentre era intento a leggere la Passione secondo Giovanni ed aveva appena letto il passo “Ecco tua madre!”, spirò.
Tutta la corte intervenne alle solenni esequie ed alla sepoltura nel convento carmelitano di Lisbona di colui che già era acclamato dal popolo santo ed eroe nazionale. Inoltre, poiché sua figlia Beatrice era andata in sposa al duca di Braganca Alfonso, figlio primogenito del re Joao I, Nuno è a tutti gli effetti considerato il fondatore di questo casato che regnò sul Portogallo sino al 1910 con Emanuele II. Il papa Benedetto XV decise di confermare ufficialmente il culto tributato a Nuno Alvares Pereira, riconoscendogli il titolo di “beato” in data 23 gennaio 1918. Il sommo pontefice Pio XII pensò poi di riavviare la causa di canonizzazione il 28 Maggio 1941 e, in seguito ad un avvenuto miracolo utile a tal scopo, il 13 luglio 2003 fu aperto il processo diocesano per esaminare la condotta di santità del Beato Nuno e dimostrarne le virtù eroiche, attraverso dichiarazioni di santità e raccolta di tutti i documenti che abbiano qualche relazione con la causa. Papa Benedetto XVI lo ha infine canonizzato il 26 aprile 2009.
La data di culto è collocata al 1 novembre. Nel Portogallo, invece, viene festeggiato il 6 novembre.
I Carmelitani Scalzi ne fanno memoria l'1 Aprile.
PREGHIERA
Signore Dio nostro,
che ispirasti il Beato Nuno ad abbandonare la violenza delle armi
e ad abbracciare la vita religiosa nell'Ordine di Maria,
concedici, per sua intercessione,
la grazia dell'abnegazione evangelica
per porci con tutto il cuore al tuo servizio. Amen.
Autore: Fabio Arduino
VI-VII secolo
Due santi gallesi del sec. VI o VII portano questo nome ma è difficile distinguerli l’uno dall’altro. Dingad ab Brychan sembra essere il patrono di Llandovery, nella contea di Carmarthen, e il padre o il fratello di Pasgen e Cyblider. La sua festa sembra si celebrasse il 1° novembre.
Autore: Leonard Boyle Fonte: Enciclopedia dei Santi
1463 - 2 novembre 1521
Moglie del duca di Alençon, Francia. Rimasta vedova, professò in un monastero di Clarisse che lei stessa aveva fatto costruire.
Martirologio Romano: A Mortagne nella Normandia, beata Margherita di Lorena, che, un tempo duchessa di Alençon, rimasta vedova, professò l’obbedienza alla vita regolare nel monastero di Clarisse da lei stessa fatto costruire.
A dieci anni, durante una passeggiata nel bosco, la nipotina del Re Renato di Sicilia, Duca d'Angiò e di Lorena, si nascose con alcune coetanee, destando apprensione tra le persone del seguito. Ritrovata prima di notte, confessò di aver voluto darsi alla vita eremitica.
Non furono molti a stupirsi, sapendo come il nonno facesse leggere alla bambina le Vite dei Padri del deserto e come il buon Sovrano angioino non si mostrasse né sorpreso né contrariato notando questa precoce vocazione all'ascetismo nella sua nipotina prediletta.
Nata nel 1463, Margherita era ancora adolescente quando il nonno morì. Tornata in Lorena, qualche anno dopo sposò il Duca d'Alençon, che si chiamava anch'egli Renato. Ma la vita dei due sposi non fu facile, perché i disastri della Guerra dei Cent'Anni angustiavano il piccolo Ducato. E peggio fu quando Renato d'Alençon morì, nel 1492, lasciando Margherita vedova a 32 anni, con tre figli ancora bambini.
Da allora, la vita della donna forte fu dedicata all'educazione dei tre orfani, che i parenti avrebbero voluto sottrarre alla sua tutela, e che ella invece seppe far crescere tra i più promettenti e ammirati giovani di sangue reale, e finalmente sposare con ottimi matrimoni.
Una volta libera dall'impegno dei figli, Margherita di Lorena volle anche liberarsi dal peso del ducato, portato con scrupolosa abnegazione durante 22 anni di vedovanza. Dei suoi beni personali fece tre parti: una destinata ai poveri, l'altra alla Chiesa, la terza al proprio sostentamento. Poi si ritirò nel castello di Essai, che divenne un vero monastero laico, in stretto contatto con le Clarisse di Alençon.
Il Vescovo della Diocesi dovette invitare la Duchessa a moderare il proprio zelo ascetico, che la portava non solo a trascorrere notti quasi insonni, in preghiera, a indossare cilici, a digiunare a lungo, ma anche a disciplinarsi con estremo rigore per provare, com'ella stessa soleva dire, "qualcosa della Passione di Gesù".
Cedendo alle esortazioni del prelato, Margherita di Lorena accettò di mutare metodo: prese a curare le piaghe degli ammalati, presso un dispensario da lei aperto a Mortagne.
Finalmente, la vocazione religiosa della nipotina del buon Re Renato poté essere coronata nel modo più completo e anche più austero, quando Margherita entrò tra le povere Clarisse di Argentan, accettando di condividere la durissima vita delle figlie di Santa Chiara, che oggi la onorano come una loro Beata.
Dopo due anni, la Duchessa si ammalò. A chi le proponeva un cambiamento d'aria, rispose che era necessario obbedire alla Regola, ma non era necessario vivere. Infatti non visse a lungo, e si preparò alla morte rimettendosi completamente nelle mani della Madre Superiora, perché questa la rimettesse a sua volta nelle mani del Salvatore.
Morì da vera clarissa, la sera del giorno dei defunti, nel 1521. Sul petto le fu trovata una croce di ferro, con tre punte che penetravano nella carne della Duchessa di Lorena, nipotina preferita del Re Renato d'Angiò.
Fonte: Archivio Parrocchia
VI secolo
Silvia è stata la madre di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa del VI secolo. Questi visse a Roma sul Celio in un ambiente cristiano esemplare anche grazie alla santità delle zie (cognate di Silvia) Tersilia ed Emiliana (o Amelia). La famiglia era importante anche dal punto di vista civile: il marito di Silvia, Gordiano, era un integerrimo senatore divenuto anche lui cristiano. Silvia seppe conciliare la guida della famiglia con le esigenze della radicalità evangelica. Dal figlio Gregorio traspare la sua santità. Su di lui, infatti, l'esempio e l'insegnamento della madre deve avere avuto un peso che non si può ignorare. Quando Gregorio non ebbe più bisogno he della sua guida, Silvia abbandonò il mondo e si ritirò a vita claustrale presso la basilica di San Paolo fuori le mura. Morì probabilmente verso il 590. (Avvenire)
Etimologia: Silvia = abitatrice delle selve, donna dei boschi, selvaggia, dal latino
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Silvia, madre del papa san Gregorio Magno, che, secondo quanto lo stesso Pontefice riferì nei suoi scritti, raggiunse il vertice della vita di preghiera e di penitenza e fu per il prossimo un eccelso esempio.
Prima di tutto una mamma: tenera, affettuosa, premurosissima. E non lasciamoci impressionare se da lei ci separano suppergiù 1500 anni, perché certi valori e certe qualità sono eterni e sempre attuali. Silvia nasce intorno al 520, per alcuni a Roma, per altri a Subiaco o addirittura in Sicilia, in una famiglia di condizioni modeste. Verso i 18 anni va sposa ad un tal Gordiano, membro della gens Anicia: un personaggio in vista con rilevanti cariche pubbliche, un patrimonio più che discreto e una villa meravigliosa al Celio. Non è un’altra versione della storia di Cenerentola, ma la storia di un amore vero e di una profonda intesa spirituale che aiutano la coppia a costruire una famiglia veramente cristiana, illuminata anche dall’esempio delle due sorelle di Gordiano, che vivono in casa una vita ritirata e mortificata, quasi monastica, intessuta di preghiere e di penitenza. Non sappiamo quanti figli ebbero, perché la storia ha conservato solo il ricordo di due figli: il primogenito, Gregorio, che sarà destinato a diventare famoso, e un altro figlio di cui però non conosciamo neppure il nome.
Quel matrimonio funziona egregiamente per più di 30 anni, fino alla morte del marito, databile intorno al 573. I due figli hanno seguito le orme del padre, particolarmente Gregorio, che è diventato funzionario dell’impero bizantino, arrivando a ricoprire la carica di Prefetto di Roma. In cuore conserva però una profonda esigenza di vita spirituale e la segreta aspirazione di dedicarsi completamente alla preghiera e alla meditazione. La morte del padre accelera questa scelta definitiva ed egli trasforma la splendida villa paterna al Celio in un monastero, in cui egli entra per primo come semplice monaco, seguito da molti altri giovani romani.
La scelta di Gregorio fa capire a Silvia che ormai può considerare esaurita la dimensione domestica della sua vita e quasi in punta di piedi, discretamente, si ritira in una località dell’Aventino per potersi dedicare anche lei liberamente alla meditazione e alla preghiera. Ma non dimentica di essere mamma: pensando alla salute gracile del figlio e alla scarsa mensa monastica, con gesto di premura squisita che solo una mamma sa fare, ogni giorno prepara un piatto di legumi freschi o altra verdura del suo orto.per farla recapitare a Gregorio. Che intanto, per volere del papa, è stato ordinato diacono e sta servendo la Chiesa mettendo a frutto la sua vasta esperienza civile ed ecclesiastica, fino a che nel settembre 590 viene eletto papa.
La storia gli attribuirà il titolo di “magno”, la Chiesa lo canonizzerà e noi oggi lo conosciamo e veneriamo come San Gregorio Magno. Sua mamma fa in tempo a vederlo papa, perché muore un paio d’anni dopo. Il culto di Santa Silvia, che nelle varie fasi della sua vita di sposa, mamma e vedova sempre aveva saputo dare a Dio il primo posto, si è andato pian piano affermando nella Chiesa, che ne celebra la memoria il 3 novembre.
Autore: Gianpiero Pettiti
4 novembre (Chiese Orientali)
Tracia, 1193 - Ninfeo, 1254
Giovanni III Ducas Vatatze fu imperatore romano d'oriente. La sede del suo potere fu Nicea, perché Costantinopoli, a seguito della "crociata dei Veneziani" avvenuta nel 1204 era sede del cosiddetto Impero latino. La sua azione fu sempre rivolta alla riconquista di Costantinopoli, e per con tale obiettivo stabilì un'alleanza con i Bulgari e cercò l'appoggio di Federico II. Oltre che a fermare l'espansione dell'Impero Latino riprese il controllo di vasti territori in Macedonia ed in Epiro. Pur non giungendo al suo obiettivo pose le basi per la restaurazione bizantina a Costantinopoli che verrà realizzata poi da Michele VIII di Bisanzio nel 1261. Per le sue particolari virtù cristiane fu considerato popolarmente santo.
Ungheria, 1007 ca. – Alba Regale (Ungheria), 1031
Il principe Emerico fu figlio di santo Stefano (primo re d'Ungheria, detto «il Santo» (969-1038), promotore della conversione al cristianesimo del popolo magiaro) e di Gisella, sorella dell'imperatore Enrico II. Nacque in un anno imprecisato fra il 1000 e il 1007 e venne educato dal 1015 al 1023 da san Gerardo abate benedettino veneziano, divenuto consigliere del re e precettore del figlio, il quale fu successivamente vescovo di Csanád. Emerico sposò una principessa bizantina, ma secondo una sua biografia redatta fra il 1109 e 1116, egli visse durante il matrimonio in perfetta castità, collaborando con il padre re Stefano alla conversione dei sudditi. In seguito ad un incidente di caccia Emerico morì nel 1031 ad Alba Regale in Ungheria. Due antiche fonti agiografiche ungheresi, composte alla fine del secolo XI, riportano che papa Gregorio VII sancì nel 1083 l'«elevazione del corpo», cioè la ricognizione e sistemazione delle reliquie, di tutti quelli che convertirono alla fede cristiana l'antica Pannonia, fra i quali, appunto, figura anche Emerico. (Fonte: Avvenire)
Emblema: Corona, Scettro, Globo
Martirologio Romano: Ad Székesfehérvár in Pannonia, nell’odierna Ungheria, sant’Emerico o Enrico, figlio di santo Stefano re d’Ungheria, colto da morte prematura.
Il principe Emerico fu figlio di s. Stefano primo re d’Ungheria, detto ‘il Santo’ (969-1038), promotore della conversione al cristianesimo del popolo magiaro e di Gisella sorella dell’imperatore Enrico II il Santo.
Nacque in un anno imprecisato fra il 1000 e il 1007 e venne educato dal 1015 al 1023 da s. Gerardo abate benedettino veneziano, divenuto consigliere del re e precettore del figlio, il quale fu successivamente vescovo di Csanád e morì assassinato dai pagani nel 1046.
Emerico sposò una principessa bizantina, ma secondo una sua biografia redatta fra il 1109 e 1116, egli visse durante il matrimonio in perfetta castità, collaborando con il padre re Stefano alla conversione dei sudditi.
Il suo nome è legato ad uno “speculum regum” intitolato “De institutione morum ad Emericum ducem”, la tradizione vuole che il padre Stefano il Santo l’abbia fatto comporre per lui.
In seguito ad un incidente di caccia Emerico premorì al padre nel 1031 ad Alba Regale in Ungheria, la sua prematura morte a 24 anni, creò una difficile situazione riguardo la successione al trono del giovane regno ungherese.
Due antiche fonti agiografiche ungheresi, composte alla fine del secolo XI, riportano che papa s. Gregorio VII (1073-1085) sancì nel 1083 con una ‘constitutio’ andata persa, l’”elevazione del corpo” cioè la ricognizione e sistemazione delle reliquie, di tutti quelli che convertirono alla fede cristiana l’antica Pannonia (Regione storica dell’Europa nord orientale, divenuta provincia romana nel 9 d.C.; nell’XI secolo fu occupata dagli Ungari).
Nella storiografia ungherese sono nominati i re Stefano I e Ladislao, col vescovo Gerardo e anche il principe Emerico. A seguito di questa ‘constitutio’, si sviluppò in Ungheria una fioritura di testi agiografici, fra i quali la “Vita b. Hemerici”.
La celebrazione della sua festa, riportata dal Martyrologium Romanun è al 4 novembre, mentre in Ungheria dove è chiamato s. Imre è al 5 novembre.
Autore: Antonio Borrelli
Oggi conosciamo una santa coppia di sposi che ha vissuto come religiosi in perfetta castità ed un sacerdote che ha vissuto il matrimonio e la paternità.
+ Emesa, III secolo
I santi coniugi Galazione ed Episteme subirono il martirio presso Emesa nel III secolo per testimoniare la loro fede cristiana.
I santi coniugi Galazione ed Episteme vissero nel III secolo sotto il regno dell’imperatore Decio ed il governatore Secondo nella città di Emesa. I genitori di Galazione, Cleitofone e Leucippa, erano dei ricchi pagani della città, addolorati per la sterilità di lei, nonostante le incessanti preghiere rivolte agli idoli. Un monaco di nome Onofrio, di passaggio nella città per raccogliere elemosine da distribuire ai poveri ed annunciare il Vangelo. Un giorno, a tal scopo bussò anche alla porta di Leucippa e vedendo l’afflizione del suo volto le domandò il motivo di tanta tristezza. Appreso della sterilità della donna, Onofrio replicò che si era semplicemente dinnanzi ad un provvidenziale intervento divino, volto ad impedire l’affidamento ai demoni della sua eventuale progenitura. La donna si impegnò allora con l’aiuto del monaco ad accostarsi ai misteri della fede cristiana ed infine ricevette il battesimo.
Non molto tempo dopo, anche suo marito abbracciò il cristianesimo e ben presto vide così la luce il loro primo figlio, che ricevette il nome di Galazione. Quando il ragazzo ebbe vent’anni, suo padre, ormai vedovo, decise di darlo in sposo ad una giovane fanciulla pagana di nome Episteme. Galazione accettò per obbedienza a suo padre ma, temendo di tradire il battesimo ricevuto, rifiutò qualsiasi rapporto con la ragazza. Persuasa dagli argomenti del suo sposo, anche Episteme decise infine di farsi battezzare. Ciò avvenne per mano di Galazione stesso.
Otto giorni dopo, Episteme ebbe una visione durante la quale vide la gloria riservata in Cielo a coloro che abbiano conservato intatta la loro verginità per dedicarsi interamente a Dio. Fece allora partecipe del sogno anche suo marito ed i due sposi decisero allora di comune accordo di mantenere una vita casta sino alla loro morte. Distribuirono inoltre i loro beni ai più bisognosi, convinti di poter essere poi ricompensati da un tesoro eterno. Partirono poi alla volta del deserto del Sinai, ove trovarono un gruppo di dodici eremiti, che accettarono di accogliere Galazione nella loro comunità ed inviarono Episteme da un gruppo di quattro donne che praticavano l’ascesi in un eremitaggio nelle vicinanze. Galazione entrò subito nel clima adatto, vegliando per notti intere e vigilando contro le distrazioni, raggiungendo così ben presto un alto grado di virtù.
La loro epoca fu contraddistinta da numerose persecuzione contro i cristiani, in particolare quelli che si ritiravano nel deserto. Come una truppa di soldati imperiali si diresse verso l’eremo di Galazione, Episteme ebbe una rivelazione della gloria celeste riservata ai martiri e vide che ella era chiamata a condividerla con il suo sposo. Ottenne allora dalla sua superiora la benedizione per potersi ricongiungere a lui ed offrirsi alla morte per il Cristo insieme a colui che era stato maestro nella fede e suo compagno di vita. I due comparirono allora insieme davanti al governatore Urso: reprimendo le minacce e restando saldi nella fede, furono sottoposti ad orribili torture che si evita di elencare. Morirono infine colpiti da spada, conseguendo così la gloriosa palma del martiro. Galazione aveva allora trent’anni, mentre Episteme solamente sedici. Rifiutatisi di unirsi secondo la carne in questa effimera vita, furono così uniti da Dio per l’eternità.
Autore: Fabio Arduino
Costantinopoli, 1656 circa – Costantinopoli, 5 novembre 1707
Nacque a Costantinopoli nel 1656, figlio di un sacerdote armeno. In quegli anni tra le confessioni cristiane ortodosse andava rinforzandosi la fazione che spingeva per una riunificazione con Roma. Una disputa che suscitò una vera rivolta anticattolica. Sposato, con sette figli, divenne sacerdote e parroco. A 40 anni si convertì con tutta la famiglia al cattolicesimo, aprendo la strada così a molti altri sacerdoti di Costantinopoli. Condannato all'esilio, il suo caso spinse le autorità turche a emanare leggi severe contro i sacerdoti legati a Roma. Nel 1707 venne processato con l'accusa di aver provocato tumulti tra gli armeni. A causa della pressione esercitata dagli armeni il sacerdote rimase in prigione, dove gli venne offerta la libertà in cambio della conversione all'islam. Il rifiuto gli costò la decapitazione: era il 5 novembre. Fu beatificato da Pio XI il 23 giugno 1929. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Costantinopoli, beato Gomidas Keumurdjan (Cosma da Carboniano), sacerdote e martire, che, padre di famiglia, nato e ordinato nella Chiesa armena, patì molto per aver mantenuto e propagato con fermezza la fede cattolica professata dal Concilio di Calcedonia e morì, infine, decapitato mentre recitava il Credo niceno.
Trecento anni fa, di questi giorni, a Costantinopoli si consumava il martirio di un cattolico dallo spirito profondamente “ecumenico”. Gomidas Keumurgian, originario di Costantinopoli dove è nato all’incirca verso il 1656, figlio di un sacerdote armeno, si sposa ad appena 20 anni e, completati gli studi, diventa anch’egli sacerdote della medesima confessione. Nella parrocchia di San Giorgio, che gli viene affidata, cominciano ben presto ad amarlo per l’indiscutibile fascino spirituale che esercita: dal pulpito si fa ascoltare più che volentieri; nella vita di ogni giorno viene ammirato per la sua delicatezza, la sua sensibilità per i più poveri, il suo altruismo. Unione matrimoniale salda e feconda, la sua, allietata da sette figli, sulla quale il sacerdozio si innesta in modo armonico e coerente e nella quale la paternità biologica si estende ad una schiera sempre più vasta di anime che in lui ricercano direzione spirituale e conforto morale. Il suo è un particolare e delicato periodo storico, particolarmente a Costantinopoli, dove serpeggia un movimento di sempre maggiori proporzioni che tende a riunificare con la Chiesa di Roma le varie minoranze ortodosse presenti in città e che trova in questo prete dinamico e zelante un esponente di punta. La sua azione pastorale è tutta indirizzata a questo cammino verso l’unità delle chiese, che non giunge a compimento soltanto perché ancora una volta ostacolato da questioni politiche. Infatti, la mediazione troppo sollecita e fervorosa dell’ambasciatore francese provoca una dura reazione anticattolica, che degenera poi in una vera e propria persecuzione. A 40 anni Gomidas, insieme a tutta la sua famiglia, si converte al cattolicesimo e continua ad esercitare il suo ministero nella stessa parrocchia. Nel giro di qualche anno molti sacerdoti armeni seguono il suo esempio, a testimonianza del prestigio che gode e dell’influenza che esercita sui confratelli. La reazione armena è molto dura, soprattutto nei suoi confronti e principalmente ad opera dei due patriarchi che si succedono nei primi anni del 1700. Gomidas alterna periodi di esilio a brevi permanenze in patria, dove non cessa di sostenere e incoraggiare i cattolici perseguitati e facendo, di conseguenza, aumentare l’odio nei suoi confronti. Il 3 novembre 1707 viene nuovamente arrestato e processato, questa volta con la pesante accusa di aver provocato grossi tumulti nella comunità armena. Paradossalmente, i giudici mussulmani sarebbero favorevoli alla sua liberazione anche in considerazione dell’inconsistenza dell’accusa, ma pesano sul loro giudizio le forti pressioni degli armeni. In questo clima incandescente il suo destino è segnato e il processo si conclude con una scontata sentenza di morte. Gomidas ha il tempo di salutare moglie e figli prima di avviarsi al luogo dell’esecuzione. Qui respinge con forza un’ultima offerta di aver salva la vita in cambio della conversione all’islam, dopo di che viene decapitato. La sua ecumenicità viene sottolineata anche in occasione dei funerali, celebrati dai sacerdoti greco-ortodossi per la persecuzione in atto, che sta facendo terra bruciata attorno ai pochi sacerdoti cattolici rimasti. Come sempre succede, la voce del sangue sparso “in odium fidei” ottiene l’effetto opposto a quello sperato dai persecutori e, in particolare, quello di Gomidas ottiene negli anni successivi un moltiplicarsi delle conversioni al cattolicesimo. E’ stato beatificato da Pio XI il 23 giugno 1929, il più rappresentativo, anche se non unico, esponente del clero uxorato orientale ad essere elevato alla gloria degli altari.
Autore: Gianpiero Pettiti
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Verso la fine del XVII secolo, Costantinopoli, a quel tempo già sotto il dominio islamico, fu un acceso focolaio di lotte ecclesiastiche e secolari. All’interno delle varie minoranze cristiane ortodosse presenti nella città, cresceva notevolmente il movimento che spingeva per la riunificazione con Roma. La fervente attività dell’ambasciatore francese si rivelò però purtroppo ben presto negativa, in quanto diede inizio ad una forte reazione anticattolica che sfociò in una vera e propria persecuzione, in cui rimase vittima anche il beato oggi in questione.
Gomidas Keumurgian nacque nell’ex capitale bizantina all’incirca nel 1656, figlio di un sacerdote armeno, e venne istruito da un sacerdote della medesima confessione cristiana. A soli vent’anni di età si sposò ed ebbe sette figli. Completati poi gli studi, fu finalmente ordinato anch’egli sacerdote ed inviato nella parrocchia di San Giorgio, a sud della città, ove divenne famoso ed amato non solo per la sua grande eloquenza, ma soprattutto per l’autentica spiritualità ed il suo innato altruismo. Divenne presto un esponente di spicco del movimento di riunificazione della Chiesa ed all’età di quarant’anni si convertì al cattolicesimo con l’intera sua famiglia. Continuò a svolgere il suo ministero nella medesima parrocchia, come consuetudine a quel tempo, e nel giro di pochi anni la metà dei sacerdoti armeni presenti a Costantinopoli seguirono le sue orme. Dopo il 1695 la situazione degenerò e Gomidas dovette emigrare in esilio presso il monastero armeno di San Giacomo in Gerusalemme, dove fu convinto sostenitore del partito cattolico, attirando su di sé le ire di un certo Giovanni di Smirne. Alla morte del patriarca armeno persecutore, nel 1702 Gomidas fece ritorno a Gerusalemme, ove però apprese che il novello patriarca aveva designato proprio il suo nemico quale vicario. Dovette allora nascondersi, sino a quando nove mesi dopo il patriarca non venne esiliato per motivi politici. Non passo però troppo tempo che quest’ultimo fece ritorno alla sua sede, accusandolo di essere un “franco” e facendolo perciò deportare a Cipro, prima che l’ambasciatore francese potesse rapirlo per trasferirlo in Francia.
Questa mossa così insensata contribuì indubbiamente a risvegliare il sentimento anticattolico in Costantinopoli e le autorità turche non esitarono a prendere severi provvedimenti contro tutti quegli ecclesiastici che si dichiaravano fedeli alla Chiesa di Roma. Gomidas, fisicamente imponente ed audace, fu arrestato nella quaresima del 1707 e processato dinnanzi ad Ali Pasha, che le fece imprigionare. I suoi amici gli ottennero poi un breve periodo di libertà, ma il 3 novembre fu nuovamente arrestato e processato con l’accusa di aver provocato forti tumulti nella nazione armena, facente parte dell’impero turco. Di questo spinoso caso fu informato il kadi Mustafa Kamal che, in qualità di canonico mussulmano, sarebbe stato favorevole alla liberazione di Gomidas, ma alla fine dovette cedere alle pressioni esercitate dagli armeni, guidati dal loro patriarca, permettendo loro di imprigionarlo. Dopo aver salutato la moglie ed i figli, pregò l’intera notte ed il giorno seguente fu condotto all’Antico Serraglio di Costantinopoli. Qui, dopo un vano tentativo di persuaderlo alla conversione all’islam, Ali Pasha ne decretò la condanna a morte. Fu allora portato sul luogo dell’esecuzione e, non prima di aver rifiutato un ultima offerta di salvezza, fu brutalmente decapitato. Era il 5 novembre 1707. E’ straordinario notare come la sequenza degli eventi narrati sia in tutto simile a quella della Passione del Cristo. Per ovvi motivi, nessun sacerdote cattolico si offrì per la sua sepoltura e tale compitò fu allora svolto da alcuni sacerdoti greco-ortodossi.
L’enorme coraggio dimostrato dal martire ebbe un profondo effetto sui cristiani armeni, tanto che nel corso di un secolo si moltiplicarono i casi di conversione al cattolicesimo. Gomidas Keumurgian fu infine beatificato dal romano pontefice Pio XI il 23 giugno 1929, quale martire più illustre dal tempo della persecuzione iconoclasta, non unico esponente del clero uxorato orientale ad essere asceso alla gloria degli altari. Il Martyrologium Romanum lo commemora in data odierna, anniversario della morte.
Uno dei suo figli, che portava il nome paterno, entrò al servizio del regno di Napoli ed è noto come Cosimo di Carbognano, nome talvolta erroneamente attribuito a suo padre.
Autore: Fabio Arduino
Germania, 1200 circa – Toro, Zamora (Spagna), 1235 circa
Beatriz, quarta figlia di Filippo di Suabia ed Irene Angelo, nonché nipote dell’imperatore Federico Barbarossa, andò in sposa il 30 novembre 1219 a San Ferdinando III re di Castiglia e Leon. Fu così madre del futuro sovrano Alfonso X e di ben altri nove figli: Fadrique, Fernando, Enrique, Felipe, Sancho, Manuel, Leonor, Berenguela e María. Fece parte dell’Ordine di Santa Maria della Mercede, preferendo dunque ai beni terreni la gloria celeste e fu ricompensata da Dio con una speciale corona, l’aureola della santità. Le sue spoglie riposano nella cattedrale di Siviglia accanto al marito. Le fu attribuito il titolo di “beata” e come tale è festeggiata il 5 novembre.
E’ cosa assai nota come in duemila anni di cristianesimo i santi che hanno sempre goduto di maggiore popolarità siano stati in prevalenza religiosi di ogni ordine e grado e martiri dei primi secoli. In secondo piano sono invece sempre passate purtroppo tutte quelle esemplari figure di coppie di sposi, che nella vita coniugale hanno tentato di attuare la cosiddetta Chiesa domestica, sposa di Cristo Signore.
Buona parte delle coppie di sposi a cui sia stato attribuito un culto pubblico sono sovrani di nazioni europee, ma purtroppo spesso e volentieri solo al marito è toccata una maggiore popolatrità, come nei casi di Carlo Magno ed Ildegarda, Stefano e Gisella d’Ungheria, Etelberto e Berta del Kent.
L’ennesimo caso di santa moglie un pò trascurata è costituito dalla regina Beatriz de Suabia. Poche sono in realtà le notizie certe sulla breve vita terrena di questa nobile donna. Nacque in Germania verso il 1200 dalla grande celebre famiglia degli Hohenstaufen, quarta figlia di Filippo di Svevia (1180-1208), duca di Suabia, e di Irene Angelo di Costantinopoli. Filippo era a sua volta figlio di Federico I Barbarossa (1122-1190), imperatore di Germania. Nelle vene di Beatriz scorreva dunque puro sangue imperiale, tanto da valerle il titolo di “Sua Altezza Imperiale”.
Una delle poche date certe sulla sua vita pare essere il 30 novembre 1219, giorno del matrimonio con il re Ferdinando III di Castiglia e Léon, ben più famoso di lei in quanto la sua memoria è legata alla riconquista della penisola iberica alla cristianità. Da questa felice unione nacquero il futuro sovrano Alfonso X ed altri nove figli: Fadrique, Fernando, Enrique, Felipe, Sancho, Manuel, Leonor, Berenguela e María.
La regina Beatriz fece parte dell’Ordine di Santa Maria della Mercede, fondato in Spagna da San Pietro Nolasco e qui particolarmente diffuso. La sua appartenenza all’ordine fu evidentemente in qualità di terziaria, in quanto donna coniugata. Preferendo dunque ai beni terreni la gloria celeste, fu ricompensata da Dio con una speciale corona, l’aureola della santità. Nel 1235 circa, ancora in età non molto avanzata, Beatriz si spense a Tori, nei pressi di Zamona, e le sue spoglie furono in un primo tempo tumulate a Huelgas Rimasto dunque vedovo, Ferdinando III sposò in seconde nozze Juana de Ponthieu Montreueil che gli diede ancora tre figli: Fernando, Leonor e Luis. Quando il 30 maggio 1252 morì anch’egli e fu sepolto nella cattedrale di Siviglia, anche i resti dell’amata Beatriz furono traslati accanto a lui ed iniziarono ad essere oggetto di venerazione da parte dei fedeli. Le fu popolarmente attribuito il titolo di “beata” e come tale è festeggiata il 5 novembre, anche se purtroppo il suo culto pare essere costantemente rimasto limitato a livello locale ed all’Ordine Mercedario. Mentre il marito fu ufficialmente canonizzato nel 1671, per Beatriz de Suabia si è ancora dunque ancora in attesa almeno di una conferma di culto.
Per quanto riguarda l’iconografia a lei relativa, si segnalano un’immaginetta facente parte di una seria di santi mercedari ed una scultura lapidea del XIII secolo custodita nel chiostro della cattedrale di Siviglia.
Autore: Fabio Arduino
Ricordiamo oggi un Santo sposo che fu anche vescovo.
Sec. X
Emblema: Bastone pastorale
San Demetrio, oggi commemorato, e venerato soprattutto nell'isola di Cipro, dove fu Vescovo. Demetrio è nome greco di chiara origine pagana. Ripete infatti il nome di Demetra, la "madre terra" dei Greci. Ma anche questo nome venne battezzato con il sangue di molti Martiri, sparsi qua e là nei vari calendari. San Demetrio era nato nell'isola di Cipro, mitica patria di Venere, che infatti veniva detta anche Ciprigna. I genitori del futuro Santo, buoni cristiani ma preoccupati della sua umana felicità, lo fecero sposare a soli 15 anni, con una dolce bambina che morì poco dopo il matrimonio.
Allora Demetrio, ancora giovanissimo, si ritirò in un monastero. Con il passare degli anni, inasprì sempre di più la sua vita di quotidiana penitenza, facendosi eremita.
Aveva quarant'anni, e intorno a lui si era creata la fama di prodigioso guaritore di anime e di corpi, quando il Vescovo lo volle suo coadiutore, consacrandolo sacerdote.
Alla morte del Vescovo, Demetrio tornò al monastero, dove venne scelto per abate. Poi, alla morte del nuovo Vescovo, la cattedra di Cipro venne offerta a lui.
Si nascose in una grotta, nota soltanto a un amico. Bisognò frustare quell'amico, per sapere dove Demetrio si fosse celato.
Portato quasi a forza sulla cattedra episcopale, resse per 25 anni il pastorale, con straordinaria pietà e grande saggezza. Morì ottantenne, nel 915. E per quanto, come abbiamo detto, la sua figura non abbia mai raggiunto larga fama ed estesa venerazione, la sua memoria non venne meno nell'isola di Cipro, dove ben quattro località ripetono il nome dell'antico Vescovo santo.
Fonte: Archivio Parrocchia
Ricordiamo oggi un santo vescovo sposato ed una intera famiglia martire per la fede.
† Tours, 552 ca.
Martirologio Romano: A Tours in Neustria, ora in Francia, san Baldo, vescovo, che distribuì in elemosina ai poveri l’oro lasciato dal suo predecessore.
Sedicesimo vescovo di Tours, dopo Ingiurioso e Guntario. Secondo le scarne ma preziose notizie lasciate da s. Gregorio di Tours (538-594) storico francese, Baudino (Baldo, Baudin, Baud), era stato ‘domestico’ e ‘referendario’ del re Clotario I (497-561), ed aveva avuto moglie e figli.
Eletto vescovo nel 546, forse era vedovo, distribuì ai poveri l’oro lasciato dal suo predecessore e istituì la “mensa canonicarum”, per il clero della sua cattedrale di Tours.
Dopo cinque anni e dieci mesi di episcopato, Baldo morì verso il 552 e fu sepolto nella Basilica di San Martino di Tours.
Le sue reliquie, furono in seguito trasferite, una prima volta nell’XI secolo, nella chiesa di Verneuil-sur-Indre, poi una seconda volta a Loches nella Chiesa della Madonna, oggi di Sant’Orso; dove è venerato ed invocato per ottenere la pioggia.
Il Martirologio Romano, lo celebra il 7 novembre con il nome latino di Baldus.
Autore: Antonio Borrelli
+ Ancira, Galazia, IV secolo
Questi santi sono commemorati dai sinassari bizantini con una notizia piuttosto lunga, probabilmente ispirata alla loro “passio” andata poi perduta. Antonio, un ragazzo appena tredicenne, con i genitori Melasippo e Cassina subì il martirio presso Ancira di Galazia al tempo dell’imperatore Giuliano l’Apostata e del governatore della città Agrippino, cioè nella seconda metà del IV secolo. La notizia ci tramanda in stile eccessivamente epico i vari tormenti cui i tre martiri furono sottoposti. Il Cardinal Baronio, venuto a conoscenza di questi martiri dal menologio redatto dal Cardinal Sirleto, li introdusse nel Martyrologium Romanum nell’ordine di Melasippo, Antonio e Cassina, mutando però il nome di ques’ultima in Carina. L’esistenza di questi santi è così avvolta dal mistero che l’ultima edizione del martirologio cattolico ha preferito non più riportare i loro nomi.
Autore: Fabio Arduino
Antequera, Spagna, 30 giugno 1834 – 9 novembre 1899
Maria del Monte Carmelo di Gesù Bambino, al secolo Maria del Carmen Gonzalez-Ramon Garcia-Prieto, fondò la Congregazione delle Suore Terziarie Francescane dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. Dichiarata “venerabile” il 7 aprile 1984, Benedetto XVI l'ha beatificata il 6 maggio 2007.
Maria del Carmen Gonzalez-Ramon Garcia-Prieto nacque ad Antequera, nel territorio della diocesi di Malaga, il 30 giugno 1834, da Salvatore Gonzalez e Giovanna Ramos. Sin dall’infanzia, trascorsa nella casa paterna, dimostrò un temperamento amabile, spontaneo e sensibile. Intraprese i suoi primi studi con l’ausilio di maestri e precettori privati. Nel 1857, nonostante l’opposizione della famiglia, convolò a nozze con Gioacchino Munoz del Cano de Hoyos, ma i ventiquattro anni di vita coniugale si rivelarono per lei un calice assai amaro, che seppe però sopportare sempre con ammirabile fortezza, riuscendo anche con il suo integerrimo esempio a convertire il suo sposo.
Rimasta vedova nel 1881, iniziò a dedicarsi interamente agli esercizi di pietà e, piena di desiderio di poter servire Cristo nella persona degli umili e dei bisognosi, adattò la sua abitazione quale vero e proprio asilo di carità. In cuor suo nacque il desiderio di consacrare a Dio il resto dei suoi giorni e guidata dal suo direttore spirituale, il cappuccino padre Barnaba da Astorga, intraprese la fondazione di un nuovo istituto religioso, la Congregazione delle Suore Terziarie Francescane dei Sacri Cuori di Gesù e Maria. La prima casa fu fondata presso Antequera il 1° maggio 1884. Il 17 settembre seguente, insieme ad otto altre compagne, la fondatrice emise i voti temporanei ed il 20 febbraio 1889 fece la professione perpetua assumendo il nome di Maria del Monte Carmelo di Gesù Bambino.
In tale occasione fu anche eletta prima superiora generale dell’ordine carica che seppe espletare dimostrando sempre grande prudenza, diligenza ed amabile magnanimità. Sotto il suo governo l’istituto crebbe rapidamente, grazie anche alle numerose vocazioni. Nacquero centri per giovani, scuole ed ospedali per la cura dei poveri e dei bisognosi in genere. Nel 1897 lasciò la direzione della congregazione alle nuove leve e due anni dopo, il 9 novembre 1899 morì, già circondata da un’indiscussa fama di santità.
Solo nel 1948 furono istruiti i processi informativi presso la curia di Malaga, per poi introdurre la causa di beatificazione il 19 dicembre 1963 con decreto della Sacra Congregazione dei Riti. Nei due anni seguenti a Malaga si celebrarono i processi apostolici ed il 7 aprile 1984 giunse il decreto sulle virtù eroiche che la dichiarò “Venerabile”. Madre Maria del Monte Carmelo di Gesù Bambino è stata finalmente beatificata il 6 maggio 2007.
Autore: Fabio Arduino
26 agosto e 9 novembre
Ed ecco finalmente una coppia di sposi beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso. Li abbiamo già ricordati la data in cui è partita questa rassegna di santi sposati, il 25 novembre, data del loro matrimonio (e in quella data mi piace ricordarli proprio perché santi insieme e in quanto sposi), ma per completezza del lavoro che sto svolgendo li segnalo anche qui, il 26 agosto, la data in cui è registrata lei nel martirologio romano.
Catania, 12 gennaio 1880 - Roma, 9 novembre 1951
Firenze, 24 giugno 1884 - Serravalle (AR), 26 agosto 1965
Luigi Beltrame nacque a Catania il 12 gennaio 1880; adottato da uno zio senza figli, che gli dà il suo cognome, Quattrocchi, si trasferisce con lui a Roma dove studia Giurisprudenza. Qui conosce Maria Luisa Corsini, figlia unica di genitori fiorentini, di quattro anni più giovane. Le nozze vengono celebrate nella Basilica di S. Maria Maggiore il 25 novembre 1905. L’anno seguente nasce il primo figlio, Filippo, seguito da Stefania (nel 1908), Cesare (1909) ed Enrichetta (1914); crescendo abbracceranno tutti la vita religiosa. Luigi fu avvocato generale dello Stato; Maria, una scrittrice assai feconda di libri di carattere educativo. Il Papa li ha beatificati il 21 ottobre 2001, nel ventesimo anniversario della Familiaris Consortio. In quell’occasione, per la prima volta nella storia della Chiesa abbiamo visto elevata alla gloria degli altari una coppia di sposi, beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso.
Martirologio Romano: 26 agosto: A Roma, beata Maria Beltrame Quattrocchi, che, madre di famiglia, visse con suo marito una vita di profonda e lieta comunione di fede e di carità verso il prossimo, illuminando con la luce di Cristo la famiglia e la società.
9 novembre: A Roma, beato Luigi Beltrame Quattrocchi, che, padre di famiglia, nelle faccende pubbliche come in quelle private osservò i comandamenti di Cristo e li proclamò con diligenza e probità di vita.
Il 12 febbraio 1994, nel dare inizio presso il Tribunale per le Cause dei Santi del Vicariato di Roma alla loro causa di canonizzazione, il Cardinale Vicario Camillo Ruini così li presentava: "I due avevano cristianamente consacrato il loro amore coniugale e la grazia del sacramento nuziale li ha sempre sostenuti mirabilmente nel formare e crescere la loro famiglia…”. Ed il S. Padre si è mostrato particolarmente lieto di questa circostanza perché da tanto tempo desiderava un cammino di santità, da additare al popolo dei fedeli, realizzato da una coppia di sposi.
Non hanno fondato congregazioni. Non sono partiti missionari per terre lontane. Semplicemente hanno vissuto il loro matrimonio come un cammino verso Dio facendosi santi. Il Papa li ha beatificati il 21 ottobre scorso, nel ventesimo anniversario della Familiaris Consortio. In quell’occasione, per la prima volta nella storia della Chiesa abbiamo visto elevata alla gloria degli altari una coppia di sposi, Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso.
La beatificazione dei coniugi Quattrocchi è avvenuta, non a caso, in occasione della giornata della famiglia, segnando una svolta, per così dire “storica”, sul modo comune di concepire la santità: non più soltanto appannaggio di suore, sacerdoti e singoli fedeli, ma un cammino aperto e praticabile da tutti gli sposi cristiani, sulla scia dei neo-beati, una coppia borghese che visse a Roma nella prima metà del Novecento.
Luigi Beltrame era nato a Catania il 12 gennaio 1880; adottato da uno zio senza figli, che gli dà il suo cognome, Quattrocchi, si trasferisce con lui a Roma dove studia Giurisprudenza. Qui conosce Maria Luisa Corsini, figlia unica di genitori fiorentini, di quattro anni più giovane. Una ragazza piena di doti: colta, sensibile e raffinata, amante della letteratura e della musica, a vent’anni aveva già pubblicato un saggio su Dante Gabriele Rossetti e i preraffaelliti.
Le nozze vengono celebrate nella Basilica di S. Maria Maggiore il 25 novembre 1905. L’anno seguente nasce il primo figlio, Filippo, seguito da Stefania (nel 1908), Cesare (1909) ed Enrichetta (1914). Crescendo abbracceranno tutti la vita religiosa: Filippo (don Tarcisio), sarà sacerdote diocesano, Stefania (suor Maria Cecilia), monaca benedettina, Cesare (padre Paolino), monaco trappista, ed Enrichetta, l’ultima nata, consacrata secolare. Ad eccezione di Stefania, scomparsa nel 1993, i fratelli sono ancora viventi e di veneranda età, attivi e lucidissimi nel far memoria della santità dei loro genitori, che furono sposi ed educatori davvero esemplari.
Lui, Luigi, avvocato generale dello Stato, fu professionista stimato e integerrimo; lei, Maria, una scrittrice assai feconda di libri di carattere educativo. Entrambi avevano a cuore i problemi della società e della nazione: animatori dei gruppi del Movimento di Rinascita Cristiana, avevano aderito anche al Movimento “Per un mondo migliore” di P. Lombardi. Luigi fu amico di Don Sturzo e di Alcide De Gasperi; senza mai prendere una tessera di partito, esercitò l’apostolato nella testimonianza cristiana offerta nel proprio ambiente di lavoro, laicista e refrattario alla fede, nella profonda bontà che ebbe nel trattare con tutti, soprattutto i “lontani”, nella sollecitudine costante verso i bisognosi che bussavano quotidianamente alla loro porta di casa, in Via Depretis, sul colle Viminale.
Lei, infermiera volontaria della Croce Rossa, durante le due guerre si prodigò instancabilmente per i soldati feriti; catechista attivissima per le donne del popolo nella parrocchia di S. Vitale, organizzò i corsi per fidanzati, autentica novità pastorale per quei tempi, quando il matrimonio veniva considerato come qualcosa di scontato, che non esigeva approfondimento nè preparazione. Maria svolse anche un’intensa opera di apostolato con la penna, fece parte dell’Azione Cattolica e di altre associazioni, appoggiò inoltre la nascita dell’Università Cattolica del S. Cuore, accanto a P. Agostino Gemelli e Armida Barelli, chiamata a far parte del Consiglio Centrale dell’Unione Femminile Cattolica Italiana come incaricata nazionale per la religione.
Non è certo possibile riassumere in poche righe la straordinaria vicenda umana e spirituale dei coniugi Beltrame Quattrocchi. La loro esistenza di sposi fu un cammino di santità, un andare verso Dio attraverso l’amore del coniuge. Mezzo secolo di vita insieme, senza mai un attimo di noia, di stanchezza, ma conservando sempre il sapore continuo della novità. Il loro segreto? La preghiera.
Ogni mattina a Messa insieme alla Basilica di S. Maria Maggiore, “usciti di chiesa mi dava il “buon-giorno”, come se la giornata soltanto allora avesse il ragionevole inizio. Ed era vero…”, ricorda lei in Radiografia di un matrimonio, il suo libro-capolavoro. La recita serale del S. Rosario, l’adorazione notturna, la consacrazione al Sacro Cuore di Gesù solennemente intronizzato al posto d’onore nella sala da pranzo, e altre pie pratiche. Nel 1917 divennero terziari francescani e nel corso della loro vita non mancarono mai di accompagnare gli ammalati, secondo le loro possibilità, a Loreto e a Lourdes col treno dell’UNITALSI, lui come barelliere, lei come infermiera e dama di compagnia.
Il loro esempio, la loro profonda vita di fede, la pratica quotidiana del pregare in famiglia ebbero di certo i propri effetti sui figli, che si sentirono tutti e quattro chiamati dal Signore alla vita consacrata. Non senza ragione, perché “la famiglia che è aperta ai valori trascendenti, che serve i fratelli nella gioia, che adempie con generosa fedeltà i suoi compiti ed è consapevole della sua quotidiana partecipazione al mistero della Croce gloriosa di Cristo, diventa il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio”, come giustamente ha sostenuto il S. Padre nell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio (n. 53), che consigliamo ai nostri lettori di leggere, specie i padri e madri di famiglia, giacchè il testo costituisce un po’ la magna charta della pastorale familiare della Chiesa del terzo millennio.
Nel progetto di Dio il matrimonio è vocazione alla santità e offre tutti i mezzi per raggiungerla. La santità del terzo millennio che la Chiesa ci addita parla proprio il linguaggio della famiglia. “Si è santi – ha detto infatti P. Giordano Muraro - non perché si vive in chiostri odorosi di incenso, salmodiando o curando infermi: ma perché si ama. E l’amore è possibile a tutti. Anzi: il matrimonio e la famiglia sono naturalmente luoghi di amore… Non si ama un generico “prossimo” ma questa persona che è mio marito, mia moglie, mio figlio, il mio genitore, mio fratello. Non sono io che scelgo il momento e il modo, ma è l’altro che si presenta qui, ora, ogni giorno. Lo sposato può dire a se stesso: Dio mi ha mandato nella vita della persona di cui mi sono innamorato, e chiede di servirsi del mio cuore, del mio affetto, della mia tenerezza, della mia dedizione, del mio amore, per portare in lei, in lui, la Sua vita e la Sua salvezza.
Le loro date di culto per la Chiesa Universale sono separate e cadono nei giorni 26 agosto e 9 novembre, mentre la Diocesi di Roma li commemora il 25 novembre, anniversario del loro matrimonio.
Autore: Maria Di Lorenzo
Un altro Vescovo Santo sposato e anche padre di ben due figli!
Cipro, 556 - Alessandria d’Egitto, 617
San Giovanni Elemosiniere nasce intorno al 556 nell'isola di Cipro, ad Amatonte. Sin dall'infanzia si manifestarono nel piccolo Giovanni i segni della santità. Ma ubbidendo alle volontà dei suoi genitori, venne avviato agli studi e al matrimonio, sebbene egli fosse riluttante. Ebbe due figli che, però, prematuramente morirono insieme alla moglie. Libero da ogni legame terreno, Giovanni si dedicò a Dio e ai poveri, «i miei padroni e signori». Alla morte del Patriarca di Alessandria d'Egitto, Giovanni, per acclamazione del popolo, salì sulla cattedra vescovile, trasformando la città in un centro di studi e di virtù cristiane. (Avvenire)
Patronato: Casarano (LE)
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Ad Limassol nell’isola di Cipro, transito di san Giovanni l’Elemosiniere, vescovo di Alessandria, insigne per la misericordia verso i poveri: pieno di carità verso tutti, fece costruire in gran numero chiese, ospedali e orfanotrofi e si adoperò con somma sollecitudine per alleviare il popolo da ogni miseria, facendo a tal fine uso dei beni della Chiesa ed esortando assiduamente i ricchi alla beneficenza.
1. La vita
San Giovanni Elemosiniere nasce, intorno al 556, nell’isola di Cipro, precisamente nella città di Amatonte, dove il padre Epifanio è il governatore. Sin dall’infanzia si manifestano nel piccolo Giovanni i segni della santità e della pratiche di carità verso i poveri e i diseredati. Ubbidendo alle volontà dei suoi genitori, viene avviato agli studi e ben presto anche al matrimonio, sebbene egli fosse riluttante. Dal matrimonio nascono due figli che, però, prematuramente muoiono insieme alla moglie. Libero da ogni legame terreno, Giovanni si dedica a Dio e ai poveri che egli è solito chiamare “i miei padroni e signori”. La santità della sua vita si diffonde in tutto l’Oriente e alla morte del Patriarca di Alessandria d’Egitto, Giovanni, per acclamazione del popolo, sale sulla cattedra vescovile. Trasforma la città in un centro di studi e di virtù cristiane, istituisce ospedali e case di riposo. Ogni giorno distribuisce l’elemosina a circa 7.000 poveri e da qui l’appellativo di “Elemosiniere”. Muore intorno al 617, ultrasessantenne. La fama della sua santità si diffonde ben presto in tutto il mondo orientale e ben presto arriva anche in Europa, grazie all’espansione militare ed economica di Venezia, che dal 1500 ospita il venerato corpo nella chiesa di San Giovanni Battista in Bragora.
2. Il culto
In Italia, il culto di San Giovanni Elemosiniere è concentrato esclusivamente nelle comunità di Casarano e Morciano di Leuca, nel Salento, e Venezia. Nei primi due centri, il Santo è invocato come patrono principale mentre nella città lagunare, dove riposa il corpo, sorge una chiesa in suo onore. La devozione più importante è, sicuramente, quella presente nella città di Casarano, sviluppatasi intorno all’anno 1000 grazie all’opera dei monaci basiliani, rifugiatisi nel Salento per sfuggire alle persecuzioni iconoclaste. Enorme è stato nel corso dei secoli il culto dei Casaranesi nei confronti del loro Patrono. A lui si additano numerosi miracoli, quello della lacrimazione nel 1715, il prodigioso spegnimento di un disastroso incendio, l’allontanamento di un turbine, questi ultimi avvenuti tra il 1730 e 1750, e il più famoso avvenuto il 31 maggio 1842, quando la città fu risparmiata da incessanti piogge. Nella Chiesa Madre della città, intitolata all’Annunciazione di Maria (ma in alcuni documenti anche a San Giovanni) sono conservati due spettacolari dipinti della vita del Santo, ubicati nel coro, dietro il presbiterio. La statua in legno veneziano, probabilmente del 1600, fa bella mostra di sé in una nicchia posta in “cornu epistolae” dell’altare del Santo, sublime e prezioso esempio del barocco leccese. Altre immagini del Presule abbondano nel tempio. Nella chiesa sono accuratamente conservate, inoltre, alcune reliquie come l’intero dito pollice della mano destra, un dente e un pezzo di costola, il fazzoletto impregnato di sudore, col quale fu asciugato il viso durante il miracolo del 1842 e la tonacella appartenuta al Santo che la utilizzava durante le funzioni liturgiche.
Casarano festeggia San Giovanni Elemosiniere per ben tre volte nel corso dell’anno: il 23 gennaio, giorno della solennità liturgica, la terza settimana di maggio (con un sfarzosa festa civile e religiosa) e il 31 maggio, per la commemorazione del miracolo del 1842. La statua viene ulteriormente portata in processione durante i festeggiamenti della Madonna della Campana, patrona secondaria. La città è piena di immagini del Santo Patrono: tra esse spicca per la bellezza e per l’originalità, la colonna barocca di San Giovanni, simbolo cittadino, che sorge nel centro geografico del paese, con la statua bronzea sul pinnacolo. Molte associazioni cittadine portano il nome del Santo; la più importante è la confraternita, eretta nel 1914 e conta tuttora oltre 800 iscritti fra uomini e donne. In chiesa Madre, sono conservati i testi originali della messa propria con prefazio e dell’ufficio di San Giovanni, concessi nel 1741 dalla Santa Sede. Prima del Concilio Vaticano II, la messa era celebrata in rito duplex di 1a classe con ottava sia per il 23 gennaio che per la terza settimana di maggio; in seguito alla riforma liturgica, oggi la messa è officiata con il grado di solennità per il 23 gennaio, mentre dal 1995 la Sacra Congregazione dei riti, che ha rivisto i testi liturgici del 1974, ha concesso l’indulto per la festa di maggio, istituendo la messa col grado di memoria.
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Nel 1974, la città di Casarano ebbe l’onore di ospitare temporaneamente il venerato corpo di San Giovanni Elemosiniere. L’eccezionale trasferimento fu possibile tramite l’interessamento del Patriarcato di Venezia, in quel tempo guidato dal Cardinale Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I. La teca contenente i sacri resti giunge in città il 19 gennaio e vi rimase fino al 2 giugno dello stesso anno. Per l’occasione, furono organizzati grandiosi festeggiamenti e al termine fu redatto l’atto di gemellaggio fra le comunità di Casarano e Venezia, in duplice originale, di cui uno si conserva nella sagrestia maggiore della Chiesa Madre e l’altro è affisso nel cappellone della Chiesa della Bragora, vicino alla tomba del Santo.
Autore: Gruppo “Amici di San Giovanni Elemosiniere” - Casarano (LE)
Oggi giorno veramente ricco di grandi santi sposi: partiamo da San Nilo, sposato, padre di due figli e discepolo del grande Giovanni Crisostomo; poi il Santo Vescovo Sant'Esichio, padre di due santi anch'essi vesccovi (i santi Apollinare, vescovo di Valence, e Avíto, che gli succedette nella sede di Vienne); conosciamo poi il Beato Giuseppe Raimondo Che morì martire in Spagna per aver ospitato alcuni sacerdoti; infine ricordiamo la Beata Bianca D'Aragona, regina.
IV-V sec. - Ancyra (Galazia), 430 circa
Martirologio Romano: Presso Ankara in Galazia, nell’odierna Turchia, san Nilo, abate, che, ritenuto discepolo di san Giovanni Crisostomo, resse a lungo un monastero e diffuse con i suoi scritti la dottrina ascetica.
Ricordato dal martirologio romano al 12 novembre ed in Oriente al 14 gennaio, secondo i sinassari bizantini sarebbe stato prefetto di Costantinopoli sotto Teodosio il Grande. Sposato e padre di due figli, decise di lasciare tutto ed intraprendere vita ascetica ed eremitica. Per questo, andò a vivere sul Sinai, mentre la moglie ed una figlia ne seguirono l'esempio, recandosi in un romitorio in Egitto.
Molto probabilmente, S. Nilo era discepolo del grande S. Giovanni Crisostomo, e divenne abate di un monastero ad Ancyra, in Galazia, dove morì intorno al 430 d.C.
In suo onore, il Santo di Rossano Calabro, Nicola Malena, assunse, dopo aver preso i voti a S. Nazario, presso Salerno, il nome di Nilo, divenendo appunto S. Nilo di Rossano, fondatore di Grottaferrata.
Autore: Francesco Patrun
Fu elevato dalla dignità di senatore a quella di vescovo di Vienne, Francia. È padre di Sant'Avito e di Sant'Apollinare.
Martirologio Romano: A Vienne in Burgundia, ora in Francia, sant’Esichio, vescovo, che fu elevato dalla dignità senatoria a quella episcopale; i suoi figli, che aveva generato in precedenza, furono i santi Apollinare, vescovo di Valence, e Avíto, che gli succedette nella sede di Vienne.
José Ramón Medes Ferrís, fedele laico, nacque il 13 gennaio 1885 ad Algemesí (Valencia) e fu battezzato il medesimo giorno nella chiesa parrocchiale di San Giacomo di Algemesí. Contadino, appartenente al Sindacato Cattolico agricolo, si sposò il 29 gennaio 1913, con la sig.na Purificación Esteve Martínez. Aderì all’Azione Cattolica e fu un eccellente catechista. All’inizio della Rivoluzione ospitò a casa sua due fratelli carmelitani scalzi e una sorella suora cistercense, i quali furono imprigionati il 7 novembre 1936. Il servo di Dio fu imprigionato il giorno seguente e la notte dall’11 al 12 novembre subì il martirio, insieme ai suoi fratelli, ad Alcudia de Carnet, al grido di: “Viva Cristo Re! Viva il Sacro Cuore di Gesù!”. La sua beatificazione è stata celebrata da Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001.
Martirologio Romano: Nel villaggio di Alcudia de Carlet nel territorio di Valencia in Spagna, beato Giuseppe Medes Ferrís, martire, al quale il Signore diede il premio eterno, nel corso della persecuzione religiosa, per la sua impavida fedeltà.
Moglie di Re Giacomo II° d’Aragona, chiamato il giusto, la Beata Bianca, fu una Regina di estrema carità e pietà. Alla morte del marito vestì l’abito mercedario e visse come una semplice suora fra le altre religiose. Assidua nella preghiera, piena di ogni lode e meriti, morì santamente al Signore.
L’Ordine la festeggia il 12 novembre.
Ricordiamo oggi una bellissima figura di un santo sposo, Sant'Omobono, veramente profetica per il suo tempo protettore dei sarti che potrebbe anche essere proposto come Santo protettore delle coppie senza figli, avendo vissuto con sua moglie l'esperienza di non aver avuto alcun figlio se pur desiderati. Si ricorda poi, sempre oggi, un altro santo martire sposato, Sant'Arcadio.
Cremona, prima metà secolo XII - 13 novembre 1197
Oltre a essere patrono di Cremona, Omobono Tucenghi è protettore di mercanti, lavoratori tessili e sarti. Egli stesso, infatti, fu commerciante di stoffe stimatissimo in città. Era abile negli affari e ricco. Oltretutto viveva solo con la moglie, senza figli. Ma il denaro - nella sua concezione della ricchezza, vista non fine a se stessa - era per i poveri. La sua azione lo portò ad essere un testimone autorevole in tempi di conflitto tra Comuni e Impero (Cremona era con l'imperatore). Quando morì d'improvviso, il 13 novembre del 1197, durante la Messa, subito si diffuse la fama di santità. Innocenzo III lo elevò agli altari già due anni dopo. Riposa nel duomo di Cremona. (Avvenire)
Patronato: Cremona, Mercanti, Lavoratori tessili, Sarti
Martirologio Romano: A Cremona, sant’Omobono, che, negoziante, mosso da carità per i poveri, rifulse nel raccogliere ed educare i ragazzi abbandonati e nel riportare la pace nelle famiglie.
All’alba di un giorno d’autunno, in una chiesa cremonese accade un fatto impressionante. Un cittadino molto popolare e amato, Omobono Tucenghi, è come sempre al suo posto per partecipare alla Messa. Ma a un tratto lo si vede impallidire, afflosciarsi, e chi per primo cerca di soccorrerlo s’accorge che è già morto. D’improvviso, senza un lamento, senza soffrire. La morte serena che ognuno si augura. "E che mastro Omobono si meritava", devono aver aggiunto molti intorno a lui, nella chiesa intitolata a sant’Egidio. Omobono Tucenghi, infatti, è un uomo che, senza privilegi di nascita o prestigio di funzioni, ha saputo diventare nella sua città una “forza” solo per le doti personali e l’esempio della sua vita. E’ un mercante di panni e negli affari è abilissimo. Ormai lo circonda un rispetto universale, anche con qualche cenno di compatimento: lui e sua moglie, infatti, non hanno avuto figli. Sono soli. Con tutti quei soldi che il commercio ha portato loro, in quest’epoca di vitalità straordinaria e turbolenta in tante città italiane ormai passate all’autogoverno.
Ma nel pensiero di questi coniugi, e soprattutto nel loro comportamento, c’è come un profumo di Chiesa primitiva: possiamo dire che anch’essi continuamente "depongono ai piedi degli apostoli" denaro guadagnato col commercio, come avveniva nella piccola comunità di Gerusalemme. Non negli scritti e nemmeno in discorsi che nessuno ci ha tramandato, ma con questi gesti precisi e continui Omobono rivela la sua chiara concezione circa il denaro che guadagna: su di esso hanno precisi diritti i poveri. Le monete sono mezzi d’intervento per il soccorso alla miseria.
In tempi di rissa continua nelle città e fra le città (Cremona, nel conflitto tra Comuni e Impero, è schierata dalla parte imperiale) si ricorre alla sua autorità per arginare la violenza. E Omobono è pronto al servizio fraterno anche così: con la parola contribuisce a rendere più vivibile la città, con la parola inerme ma autorevole, perché è lo specchio di una vita grande.
Ecco perché la sua morte, avvenuta nel momento in cui dall’altare s’intonava il Gloria, ha scosso tutta la città. Non solo. Si sparge una voce insistente: mastro Omobono fa miracoli! Cominciano i pellegrinaggi alla sua tomba, il vescovo Sicardo e una rappresentanza cittadina si rivolgono a papa Innocenzo III. E questi canonizza Omobono già il 13 gennaio 1199, a meno di due anni dalla morte. Un santo laico, un santo imprenditore, un commerciante del ramo tessile posto sugli altari già ottocento anni fa. Proclamato patrono cittadino dal Consiglio generale di Cremona nel 1643, sant’Omobono è venerato anche come protettore dei mercanti e dei sarti. Il suo corpo si conserva in una cripta della cattedrale di Cremona.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
Martirologio Romano: In Africa, commemorazione dei santi martiri spagnoli Arcadio, Pascasio, Probo ed Eutichiano, che, non tollerando in nessun modo di asservirsi all’eresia ariana, furono dapprima defraudati dei loro beni dal re dei Vandali Genserico, poi mandati in esilio e sottoposti ad atroci torture e, infine, trucidati con diversi generi di martirio. Rifulse nella circostanza anche la fermezza del piccolo Paolillo, fratello di Pascasio ed Eutichiano, che per la sua tenace determinazione nel mantenersi nella fede cattolica fu a lungo percosso a colpi di bastone e poi condannato alla più vile schiavitù.
Santi ARCADIO, PASCASIO, PROBO, EUTICHIANO, e PAULILLO, martiri in AFRICA.
Il Chronicon di Prospero celebra il martirio di quattro ufficiali spagnoli e del fratellino di due di essi avvenuto in Africa per ordine di Genserico, re dei Vandali. Floro di Lione, rifacendosi a questa notizia, ha inserito i martiri nel suo Martirologio al 12 novembre. Usuardo, invece, ne ha spostato la festa al 13 novembre, data accolta dal Martirologio Romano; ma entrambe le date sono arbitrarie e noi non conosciamo né il luogo né il giorno della loro morte.
Da una lettera di Antonino Onorato, vescovo di Cirta ad Arcadio in esilio, sappiamo che quest'ultimo era sposato e possedeva una notevole fortuna. Pascasio ed Eutichiano erano fratelli e assieme ad Arcadio e Probo servivano nell'esercito di Genserico quando questi, nel 437, ordinò loro di farsi ariani. Essendosi i quattro rifiutati, Genserico li esiliò, poi li fece arrestare e torturare e, infine, li mise a morte. Paulillo, fratello di Pascasio e di Eutichiano, per la sua intelligenza e bellezza era molto caro a Genserico che, con blandizie prima e minacce poi, tentò di indurlo ad abbandonare il cattolicesimo. Ma neanche le più violente percosse valsero a piegare Paulillo e Genserico, non volendo macchiarsi le mani del sangue di un fanciullo, lo condannò a una durissima schiavitù.
Autore: Tommaso Spidlìk Fonte:Enciclopedia dei Santi
14 novembre (Chiese Orientali)
Tauresio (Macedonia), 482 – Costantinopoli, 14 novembre 565
Le Chiese Orientali hanno avuto la tendenza a considerare santi, i loro governanti che si distinsero nel favorire la Chiesa, costruire basiliche e monasteri, emanarono leggi di ordinamento ecclesiastico, difesero la civiltà e l’ortodossia cristiana dalle invasioni barbariche e musulmane, condannarono gli eretici.
Naturalmente tributarono loro un culto, ricordandoli nei calendari delle varie Chiese Ortodosse; così la Chiesa Bizantina al 14 novembre celebra san Giustiniano I imperatore e nello stesso giorno la sua sposa santa Teodora imperatrice.
Giustiniano nacque nel 482 nel villaggio di Tauresio (Tauresium) nella Valle del Vardar in Macedonia, da una famiglia di origine forse mista, essendo la regione punto d’incontro di tre popoli diversi (greci, illiri, traci), in ogni caso era romanizzata.
Lo zio Giustino, generale della Guardia del Corpo imperiale sotto l’imperatore Anastasio I, essendo privo di cultura, volle con sé a Costantinopoli i nipoti, per dare loro un’istruzione, particolarmente in Diritto e Teologia.
Alla morte di Anastasio I (491-518), Giustino divenne imperatore in modo fortunoso; avviò alla gestione dell’amministrazione pubblica il nipote Giustiniano e nel 527 l’associò al trono, facendone il suo legittimo erede.
Alla morte di Giustino I (450-527), Giustiniano nel 527, si ritrovò a 47 anni a governare da solo l’Impero d’Oriente. Nello stesso anno sposò Teodora donna dalla personalità forte, che ebbe grande influenza nelle scelte dell’imperatore; grazie al suo coraggio e all’abilità del generale Belisario (505-565) la rivolta del “Nika” (Vinci!) contro Giustiniano, ad opera di alcuni parenti del defunto sovrano estromessi dal potere, fu soffocata nel 532 a Costantinopoli.
Quando Giustiniano salì al trono imperiale, l’Impero viveva un periodo difficile a causa delle pressioni esercitate su di esso, dai Barbari in Occidente e dai Persiani in Oriente.
Il suo sogno fu di restaurare nella sua integrità politica e spirituale l’Impero Romano; proclamandosi “legge vivente e rappresentante di Dio in terra”; elaborò un’ideologia monarchica di tipo ‘teocratico’, tendente ad unificare nelle mani dell’imperatore, autorità religiosa e potere politico.
Su questo punto era particolarmente vanitoso; riferisce lo storico bizantino Procopio di Cesarea, che egli ascoltava compiaciuto i cortigiani che gli dicevano: “Abbiamo paura che tu, da un momento all’altro, salga al cielo come Nostro Signore”.
Il suo governo durò ben 38 anni (527-565) e lasciò l’impronta della sua personalità in tutti i secoli successivi dell’Impero Bizantino; per l’attività legislativa, per la promozione dell’edilizia sacra, per la politica ecclesiastica, interna ed estera.
Secondo il famoso mosaico di San Vitale a Ravenna, realizzato nel 547, Giustiniano era di media statura, di viso tondeggiante, rosso di capelli; l’altro grande mosaico di S. Apollinare Nuovo sempre a Ravenna, lo mostra più grasso e di aspetto stanco, ma all’epoca di quel ritratto egli era giù avanti con gli anni.
La sua resistenza al lavoro e alle privazioni divenne proverbiale; viveva come un asceta nel suo splendido palazzo, digiunava spesso per due giorni consecutivi e dormiva pochissimo, tanto da essere soprannominato l’”Insonne”; amava i libri, era molto vicino al popolo già dal periodo di console, costretto ad essere severo, conservava la sua magnanimità anche nei momenti più difficili.
Uomo di grande intelligenza, seppe ascoltare e accogliere i consigli altrui e scelse persone capaci a cui affidare i compiti politici e amministrativi, tra queste persone spiccò la moglie Teodora († 548) la quale pur proveniente da un ceto sociale inferiore, seppe imporre i suoi consigli, sostenne e amò il marito, rendendolo più forte (vedere scheda propria).
In politica estera condusse fortunate campagne militari, in Oriente per respingere Bulgari e Persiani che premevano ai confini dell’Impero e in Occidente per contrastare e controllare i regni barbarici dei Vandali, Visigoti ed Ostrogoti, che si erano costituiti in Africa Settentrionale, Spagna e Italia, sul progressivo disfacimento dell’Impero Romano d’Occidente.
Il comando delle forze armate fu affidato al generale Belisario, che nel 534 con una strepitosa vittoria sui Vandali, riconquistò l’Africa nord-occidentale; mentre in Italia il dominio imperiale fu ristabilito solo dopo una guerra ventennale contro i Goti (534-555) con le battaglie decisive di Napoli e Todino, vinte nel 552, dal generale Narsete (478-569), succeduto a Belisario.
Dalla riconquista dell’Occidente dai popoli barbari, rimasero escluse la Gallia e la maggior parte della Spagna.
Nel 559 un’invasione bulgara arrivò alle porte di Costantinopoli, che fu salvata da Belisario ritornato nei favori della Corte, dopo un periodo di disgrazia e dall’alleanza di Giustiniano con gli àvari, popolo unno-tartarico; una nuova pace fu stipulata nel 562 con i persiani, stabilizzando così la situazione dell’Impero ad Oriente.
Giustiniano fu accusato dagli storici di non avere rafforzato l’economia dell’Impero e di aver trascurato di difendere i confini, invece egli si lanciò in avventure belliche che costarono moltissimo, sia sotto il profilo economico che umano e portarono in definitiva a conquiste provvisorie.
Nel campo delle opere pubbliche e sacre, Giustiniano tese ad una grandiosità, mista a semplicità; fu ricostruita più ampia e bella Costantinopoli, colpita da terremoti e dalla peste; fu edificata dagli architetti Antemio e Isidoro, la grande Basilica di S. Sofia nella capitale, sotto la diretta supervisione dell’imperatore.
Fra i tanti edifici religiosi rimasti sino ad oggi, c’è il Monastero di Santa Caterina sul Sinai, che conserva oggi la memoria dell’antica Bisanzio greca; le splendide basiliche di Ravenna, S. Vitale e S. Apollinare Nuovo, con i loro meravigliosi mosaici, in cui sia Giustiniano che Teodora, sono raffigurati attorniati dalla corte e portano l’aureola dei santi.
Giustiniano I ha lasciato inoltre e soprattutto, un’impronta duratura come riordinatore e rinnovatore del Diritto; la riforma giuridica si era resa indispensabile, perché pur essendo in vigore il sistema legislativo di Roma, i migliori giuristi, le scuole giuridiche e la lingua comune dell’Impero erano greci; anche il cristianesimo ormai stabile ed affermato, richiedeva un adattamento delle leggi esistenti.
Nel 528 Giustiniano incaricò una commissione composta dai migliori avvocati, giuristi e professori dell’epoca, presieduta e coordinata dal “magister officiorum” Triboniano, per compilare un nuovo codice di diritto, che sostituisse i precedenti (gregoriano, ermogeniano e teodosiano).
Con una eccezionale celerità, l’anno successivo, il 7 aprile 529 entrò in vigore il nuovo “Codex Iustinianus”, una raccolta di leggi emanate dall’epoca dell’imperatore Adriano (76-138) fino a Giustiniano compreso.
Il 16 novembre 534 fu presentata in greco e latino, una seconda realizzazione: Il Digesto (in greco Pandette), che era una raccolta organica della giurisprudenza corrente, con le sentenze dei più autorevoli studiosi del diritto; poi seguirono nel 534 le “Institutiones”, un trattato giuridico ad uso degli studenti di legge.
Infine più tardi furono pubblicate le “Novellae” o “Constitutiones”, una raccolta dei nuovi e recenti decreti imperiali, sia in greco che in latino.
A partire dal XII secolo, tutti questi testi, decreti, norme e interpretazioni, costituenti il monumentale corpo del diritto civile, presero il nome riassuntivo di “Corpus iuris civilis”.
Lo Stato Bizantino conservò il “Corpus” di Giustiniano, che ne era stato l’artefice e supervisore, per oltre nove secoli come fondamento giuridico, che teneva conto della grande tradizione di Roma, ma anche del carattere cristiano e greco-orientale della nuova società.
La fede ufficiale della Chiesa cristiana, come il suo culto pubblico, erano i soli ormai ammessi e favoriti dalla legge, mentre si bandivano le manifestazioni pagane o eretiche e si accordava alle comunità ebree uno statuto di tolleranza.Altre particolarità giuridiche scaturirono dall’influsso cristiano, che mitigò l’antica severità romana, così ebbero riconoscimento le funzioni ‘sociali’ dell’assistenza ai più deboli e poveri, con contributi ed esenzioni alle istituzioni che se ne interessavano; una rivalutazione della donna nella legislazione matrimoniale e un riconoscimento della dignità umana dello schiavo, non più ‘cosa’ ma ‘persona’; ucciderne uno non era più un diritto del padrone, ma un omicidio.
Nella politica ecclesiastica, Giustiniano fu il primo imperatore ad introdurre la teologia sul trono imperiale attraverso di lui; come quattro secoli prima con Marco Aurelio (121-180) vi era salita la filosofia.
Egli non voleva essere un conciliatore tra le varie opinioni ma un regolatore, prendendo parte egli stesso alle discussioni dogmatiche e senza difficoltà ne dava le interpretazioni, assumendo decisioni corrispondenti, dopo essersi consultato con le autorità ecclesiastiche.
Impose un regime di coordinazione tra Stato e Chiesa, con una chiara predominanza del primo, cosa che si conservò fino alla fine dell’Impero Bizantino.
Ben novanta delle sue “Novellae” si riferiscono alla regolazione di questioni ecclesiastiche. Decretò il sorgere dell’arcivescovado di Giustiniana nella sua terra natale; perseguì con leggi vessatorie, il residuo di paganesimo e i seguaci delle antiche eresie (manichei, ariani, montanisti, samaritani) spingendoli ad accettare l’ortodossia.
Fedele figlio della Chiesa, considerava la vera fede cristiana come il bene più prezioso per gli uomini; fronteggiò il monofisismo dal punto di vista teologico, pur tuttavia non attuò metodi di sradicamento per vari motivi.
Convocò alcuni Concili, accolse i papi che si recavano in Oriente per cercare di dirimere, come soprattutto fece Giustiniano, le dispute teologiche sulla natura umana e divina di Cristo, che suscitò tante divisioni eretiche, con conseguenti condanne.
Giustiniano fu autore di inni liturgici e trattati teologici, che attestano una serietà di studio e di ricerca, che permetteva formulazioni precise e convincenti; i testi rimasti fino a noi sono quasi tutti contro gli eretici, ne sono almeno undici, tutti in lingua greca che è qui complesso elencare.
In definitiva gli sforzi di unificazione religiosa e di lotta alle eresie da parte di Giustiniano, non ebbero successo, le sue intromissioni nel campo della teologia, aggravarono anzi le lacerazioni interne al mondo cristiano, come pure gli interventi diretti sul papato di Roma, ricorrendo anche alla forza militare, provocarono la diffidenza della Chiesa Latina, che si trasformò in tempi successivi in aperta frattura; comunque il suo Impero segnò il momento culminante del potere imperiale su quello della Chiesa (“cesaropapismo”).
Sopravvissuto alla moglie Teodora, che sebbene più giovane di lui di diciotto anni, era morta nel 548; Giustiniano morì il 14 novembre 565 ad 83 anni.
Ben presto la sua memoria fu stabilita nel giorno anniversario della sua morte o in prossimità di essa; così il 14 novembre si ricorda “la memoria di Giustiniano e di Teodora, imperatori piissimi”.
Nel “Sinassario di Costantinopoli”, a questa data è motivata così l’iscrizione di Giustiniano nell’elenco dei santi: “Fu promotore delle fede ortodossa, emanò nuove norme in favore della Chiesa, realizzò opere filantropiche, fece edificare Santa Sofia e altri luoghi di culto in Oriente, nel Mezzogiorno e in Occidente e stabilì la festività dell’Ipapante (Presentazione di Gesù al Tempio) al 2 febbraio”.
Oggi ricordiamo San Leopoldo III, sposo e padre di ben 18 figli!!!
Con la moglie Leopoldo visse una vita di fede profonda, e i suoi diciotto figli, vissuti in un'atmosfera ascetica, scelsero poi chi il convento, chi il monastero, chi il vescovado.
Ricordiamo poi la beata Lucia, sposa per forza e suora per vocazione... ricevette anche le stimmate.
Melk, Austria, 1073 - Klosterneuburg, Austria, 1136
Nato a Melk, nel 1073 venne educato dal monaco Altmanno, santo vescovo di Passau. Succedendo sul trono al padre, che era margravio della Marca d'Austria, la sua prima preoccupazione fu quella di promuovere la riforma ecclesiastica. Alleato dell'imperatore di Germania Enrico V, ne sposò la sorella, vedova di Federico di Hohenstaufen. Un matrimonio benedetto con 18 figli. I 40 anni del suo regno furono giusti e prosperosi, per quanto dovesse guerreggiare contro gli Ungheresi, che finalmente sconfisse. Il popolo lo chiamò Leopoldo il Pio e «Padre dei poveri». Alla morte di Enrico V venne proposto come imperatore di Germania, ma rinunciò. Fondò diversi monasteri e si adoperò in maniera particolare per il monastero di Melk, sua città natale. Fondò anche quello di Neuburg, dove venne sepolto. Ma alla sua memoria è legato Mariazell, nato prima come semplice cappella, o «cella», dedicata alla Vergine, e poi, sotto la guida dei monaci benedettini, diventato il più antico e il più importante santuario mariano di tutta l'Austria. Leopoldo morì nel 1136. (Avvenire)
Patronato: Austria
Etimologia: Leopoldo = che si distingue, dal tedesco
Martirologio Romano: Nel cenobio di Klosterneuburg in Austria, deposizione di san Leopoldo, che, margravio di questo territorio, chiamato Pio già da vivo, fu promotore di pace e amico dei poveri e del clero.
Leopoldo III (o "Il Pio" o "Padre dei poveri", come lo chiamava il popolo), Margravio della Marca d'Austria, nacque a Melk nel 1073 e venne educato alla fede cristiana dal santo vescovo di Passau. Salito sul trono nel 1095, fino alla sua morte avvenuta nel 1136, il santo marchese governò con grande energia e avvedutezza, prodigandosi per la Chiesa, proteggendo i suoi diritti e promuovendo un'azione di riforma atta a rinnovare lo spirito ed i costumi ecclesiastici, elargendo cospicue elemosine, aiutando il monastero della sua città natale e fondando quello di Neuburg, dove poi sarà sepolto.
Nonostante la sua grande religiosità non potè evitare di essere coinvolto nelle lotte per le investiture e rimase fedele all'alleanza con l'imperatore di Germania, Enrico IV, di cui aveva sposato la figlia, sino a quando questi non venne scomunicato dal Papa. Leopoldo si allontanò da lui, seguendone il figlio, Enrico V, che sembrava condividere il suo pensiero ed essere favorevole a Roma, tanto che si era ribellato al padre.
Con la moglie, già vedova di Federico di Hohenstaufen, Leopoldo visse una vita di fede profonda, mettendo al mondo ben diciotto figli che, vissuti in un'atmosfera ascetica, scelsero poi chi il convento, chi il monastero, chi il vescovado.
Regnò per quarant'anni con giustizia, dando al suo regno un periodo di fecondità e di parziale pace, poichè dovette combattere contro il popolo Magiaro che sconfisse. Morto Enrico V gli venne offerto di diventare Imperatore della Germania, ma egli vi rinunciò, preferendo l'Italia, accanto all'Imperatore Lotario III. Morì nel 1136 lungamente compianto e venne canonizzato nel 1485, divenendo Patrono dell'Austria cattolica, della dinastia degli Asburgo, poi Asburgo-Lorena.
Il suo nome è soprattutto legato alla fondazione di quella che, dapprima semplice cappella dedicata alla Vergine, dove c'era una immagine miracolosa della Madonna, divenne poi il Santuario mariano più antico ed importante della Stiria (Austria), conosciuto in tutto il mondo col nome di Mariazell.
Gli Imperatori d'Asburgo e i Granduchi di Lorena che successivamente portarono il nome di Leopoldo, ma ovviamente anche gli altri, ritenevano un onore ed un dovere essere considerati protettori pii e generosi del Santuario; prima di tutto si recavano ad onorare la Madonna in qualità di pellegrini per la sua protezione e poi, come mecenati, consentirono la realizzazione di varie opere atte a migliorare l'accesso a Mariazell, quali vie di comunicazione, edificazione di chiese, conventi, immagini, nonché la creazione di biblioteche, opere d'arte ed altro.
Viene spesso raffigurato con un edifico religioso in mano a ricordo delle numerose chiese e dei monasteri da lui fondati. Nella diocesi di Massa Marittima-Piombino il suo culto venne introdotto con la costruzione della chiesa parrocchiale d Follonica, per gli operai delle ferriere del Granduca Leopoldo II che la dedicò appunto al suo santo patrono. La costruzione, in muratura e ghisa è un capolavoro...
Autore: Patrizia Fontana Roca Fonte: www.cartantica.it
Narni, 1476 - Ferrara, 1544
Della famiglia Broccadelli, già a 12 anni si consacrò a Dio con voto di verginità. Suo malgrado, fu costretta dai familiari a sposarsi. Dopo un breve ma penoso periodo di vita matrimoniale, si separò dal marito, il quale più tardi diventerà frate francescano. Nel 1494 entrò nel Terz'Ordine domenicano a Narni. Fu a Roma e poi a Viterbo dove il 25 febbraio 1496 ricevette le stimmate, verificate dallo stesso papa, da medici e da teologi. Il duca di Ferrara Ercole I, conosciuta la santità di Lucia, le chiese di diventare sua consigliera e le costruì il monastero di s. Caterina da Siena per l'educazione delle giovani ferraresi. Negli ultimi anni di vita conobbe il disprezzo e l'umiliazione, che accettò con imperturbabile serenità.
Martirologio Romano: A Ferrara, beata Lucia Broccadelli, religiosa, che tanto nella vita matrimoniale quanto nel monastero del Terz’Ordine di San Domenico sopportò con pazienza molte sofferenze e umiliazioni.
Lucia da Narni, nata il 13 novembre 1476, fin dalla nascita fu favorita di grazie celesti. A quattro anni tutta la sua gioia era di intrattenersi con una graziosa immagine del Bambino Gesù che chiamava il suo “Cristarello”. Allietato da superne visioni, il suo cuore si staccò sempre più dalla terra, e a dodici anni fece voto di perpetua verginità. L’angelica purità di Lucia dava ancor più risalto alla sua naturale bellezza e i suoi nobili parenti vagheggiavano per lei le più ricche nozze. Lucia si scherniva con forza, ma essi giunsero fino alla violenza per piegare la sua volontà. Allora, per comando della Madonna, e dietro il consiglio del suo confessore, accettò di sposare un nobile giovane, il quale, per l’amore che le portava, s’impegnò di rispettare il voto di Lucia, sebbene in seguito mettesse a dura prova la sua virtù. Per cinque anni Lucia visse nella casa coniugale fra lacrime, preghiere e penitenze, per mantenere intatto il fiore del suo candore, finché ottenne di dividersi dal marito, che a sua volta, si fece Francescano, potendo cosi vestire l’Abito del Terz’Ordine di San Domenico. Fu allora dai superiori mandata nel Monastero di Viterbo dove, la notte del 25 febbraio 1496, ricevette le sacre Stimmate. Per volontà del Duca di Ferrara, che la venerava come santa, e per ordine del Pontefice, si recò a Ferrara per fondarvi un Monastero del Terz’Ordine, del quale fu la prima Priora. Morto il Duca, alcune suore, mosse dalla gelosia, ottennero che a Lucia fosse tolto ogni privilegio e messa all’ultimo posto, dove così umiliata passò i trentanove anni di vita che le restavano, consumandosi come un puro olocausto. Morì il 15 novembre 1544 a Ferrara. Le sue reliquie sono in una teca posta sull'altare di s. Lorenzo, nella cattedrale. Papa Clemente XI il 1 marzo 1710 ha confermato il culto.
Autore: Franco Marian
Ungheria, circa 1046 - Edimburgo, Scozia, 16 novembre 1093
Figlia di Edoardo, re inglese in esilio per sfuggire all'usurpatore Canuto, Margherita nacque in Ungheria intorno al 1046. Sua madre, Agata, discendeva dal santo re magiaro Stefano. Quando aveva nove anni suo padre potè tornare sul trono; ma presto dovette fuggire ancora, questa volta in Scozia. E qui Margherita a 24 anni fu sposa del re Malcom III, da cui ebbe sei figli maschi e due femmine. Il Messale romano la descrive come «modello di madre e di regina per bontà e saggezza». Si racconta che il re non sapesse leggere e avesse un grande rispetto per questa moglie istruita: baciava i libri di preghiera che la vedeva leggere con devozione. Caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, li assisteva personalmente e invitava Malcom III a fare altrettanto. Già gravemente ammalata ricevette la notizia dell'uccisione del marito e del figlio maggiore nella battaglia di Alnwick: disse di offrire questa sofferenza come riparazione dei propri peccati. Morì a Edimburgo il 16 novembre 1093. (Avvenire)
Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino
Martirologio Romano: Santa Margherita, che, nata in Ungheria e sposata con Malcolm III re di Scozia, diede al mondo otto figli e si adoperò molto per il bene del suo regno e della Chiesa, unendo alla preghiera e ai digiuni la generosità verso i poveri e offrendo, così, un fulgido esempio di ottima moglie, madre e regina.
Nel suo celebre quadro, rappresentante il Paradiso, il Beato Angelico pose fra molti frati, anche un Re e una Regina, volendo significare che la corona reale può unirsi felicemente all'aureola della santità.
La Santa di oggi fu infatti Regina di Scozia, e Regina abbastanza fortunata, fatto insolito questo, perché le altre coronate, si santificarono quasi sempre attraverso la disgrazia, l'umiliazione e l'infelicità.
Molte sono le Margherite di sangue reale iscritte nel Calendario cristiano: Margherita figlia del Re di Lorena, benedettina del XIII secolo; Margherita figlia del Re d'Ungheria, domenicana dello stesso secolo; Margherita figlia del Re di Baviera, vedova del XIV secolo; Margherita di Lorena, allevata come figlia del Re Renato d'Angiò; alle quali si potrebbero aggiungere Margherita dei Duchi di Savoia e Margherita dei Conti Colonna.
Quella di oggi nacque nel 1046, nipote di Edmondo II, detto Fianchi di Ferro, e figlia di Edoardo, rifugiatosi in terra straniera per sfuggire a Canuto, usurpatore del trono d'Inghilterra.
Sua madre, Agata, sorella della Regina d'Ungheria, discendeva dal Re Santo Stefano. Morto l'usurpatore Canuto, Edoardo poteva tornare in Inghilterra, quando Margherita non aveva che 9 anni, ma dopo qualche tempo, la famiglia reale dovette fuggire ancora, in Scozia, dove il Re Malcom III chiese la mano di Margherita, che a ventiquattro anni s'assideva così sul trono di Scozia.
Ebbe sei figli maschi e due femmine, che educò amorosamente e che non le diedero mai nessun dolore. Suo marito non era né malvagio né violento, soltanto un po' rude e ignorante. Non sapeva leggere, ed aveva un grande rispetto per la moglie istruita. Baciava i libri di preghiera che le vedeva leggere con devozione; chiedeva costantemente il suo consiglio.
Ella non insuperbì per questo. Si mantenne discreta, rispettosa e modesta. E caritatevole verso i poveri, gli orfani, i malati, che assisteva e faceva assistere al Re. Per la Scozia non corsero mai anni migliori di quelli passati sotto il governo veramente cristiano di Malcom III e di Margherita, la quale, benvoluta dai sudditi, amata dal marito, venerata dai figli, dedicava tutta la sua vita al bene della sua anima e al benessere degli altri.
Non avendo dolori propri, cercò di lenire quelli degli altri; non avendo disgrazie familiari o dinastiche, cercò di soccorrere gli altri disgraziati, non conoscendo né, miseria né mortificazioni, cercò di consolare i miseri e gli umiliati. E accolse con animo lieto l'unica brutta notizia, che le giunse sul letto di morte. Il marito ed un figlio erano caduti combattendo in una spedizione contro Guglielmo detto il Rosso. A chi, con cautela, cercava di attenuare la crudeltà della notizia, Margherita fece capire di averla già avuta. E ringraziò Dio di quel dolore che le sarebbe servito a scuotere, nelle ultime ore, i peccati di tutta la vita.
Ciò non significava disamore e insensibilità verso il marito e il figlio morti. Ella sperava, anzi ne era certa, di riunirsi a loro, dopo quel doloroso passo, oltre la porta della morte, nella luce della Redenzione.
Fonte: Archivio Parrocchia
Martirologio Romano: A Lione sempre in Francia, sant’Eucherio, che, senatore anch’egli, insieme alla sua famiglia si diede dapprima alla vita ascetica nella vicina isola di Lérins e poi, eletto vescovo di Lione, scrisse numerose Passioni di santi martiri.
Nacque in una famiglia abbiente dell'aristocrazia gallo-romana, che probabilmente già professava il Cristianesimo.
Alcune fonti attestano che divenne senatore, ma, dopo essersi sposato con una donna di nome Galla (o Gallia) da cui ebbe quattro figli, due femmine Consortia e Tullia e due maschi Salonio e Verano: tra questi, il primo sarebbe poi divenuto vescovo di Ginevra, mentre il secondo sarebbe stato il futuro vescovo di Vence, ed entrambi sarebbero divenuti santi. Abbandonata la vita pubblica si ritirò con il figlio Verano presso la comunità monastica dell'isola di Lérins allora retta dall'abate Sant'Ilario di Arles, quando questi nel 426 fu nominato vescovo della città provenzale, Eucherio e suo figlio, in un primo momento avevano pensato di partire per l'Egitto, presso i monaci della Tebaide, ma poi decisero di rientrare in famiglia.
Qui rimasero poco tempo e dopo aver portato l'ultimo nato Salonio a Lérins, dove fu affidato, per la sua crescita spirituale, ai monaci Vincente e Salviano, il padre e il fratello si divisero, mentre il figlio fondò un monastero nella valle del Lupo, il padre si ritirò in una grotta nei suoi possedimenti. Nel 435 Eucherio fu eletto vescovo di Lione, avendo lasciato il suo eremo chiese alla figlia Tullia di prendere il suo posto nella grotta, anche la figlia dopo anni di vita di reclusa morì in odore di santità.
Eucherio diresse nel 441, assieme al suo maestro Ilario vescovo di Arles, il Primo Concilio di Orange, sinodo a cui partecipò anche il figlio Verano.
Fu autore di numerosi testi, tra cui quello della Passio Acaunensium martyrum: redatto in base alle informazioni fornitegli dal vescovo di Sion, Teodoro, e dal vescovo di Ginevra, Isaac, è il più antico documento sul martirio della Legione Tebea guidata da San Maurizio. Compose inoltre degli opuscoli, fra cui Lode all'eremo e Sul disprezzo del mondo, e scrisse anche alcune Regole per il senso spirituale, le Istituzioni a Salonio (uno dei suoi figli) e una Lettera al vescovo Salvio.
Secondo Claudiano Mamerto, il noto sacerdote di Vienne che lo conobbe personalmente, Eucherio «fu senza ombra di dubbio il più grande fra tutti i grandi vescovi del suo tempo».
Eucherio morì il 16 novembre del 450.
Fonte: http://it.cathopedia.org
Martirologio Romano: A Capua in Campania, santi Agostino e Felicita, martiri, che si tramanda abbiano subito il martirio sotto l’imperatore Decio.
Sebbene non si conoscano notizie dettagliate e sicure sul loro martirio, tuttavia la storicità di esso è attestata e garantita da numerose fonti. Parecchi codici del Martirologio Geronimiano li ricordano il 16 o il 17 novembre; i loro ritratti comparivano nella serie musiva di santi che adornava anticamente la chiesa di San Prisco a Capua; un cimitero cristiano (forse del sec. IV) lungo la via Appia nei pressi di Capua, era denominato da Agostino. Il tempo del loro martirio, se è attendibile la notizia della Cronachetta del 395, sarebbe da porsi verso la metà del sec. III, poiché in tale testo si dice che san Cipriano avrebbe loro scritto una lettera e che i due martiri sarebbero periti al tempo di Decio, anche se poi vi si specifica l'anno 260, nel quale già regnava Gallieno. In documenti dei secc. VIII-IX (Sacramentari e Calendari) si dice che Agostino sarebbe stato vescovo della città e Felicita sua madre, e si aggiunge che i loro corpi furono trasferiti a Benevento. Nelle fonti antiche però non è specificata la dignità di Agostino, né la sua parentela con Felicita. In conclusione si può con certezza ritenere che Agostino e Felicita sono due martiri autentici di Capua, anche se poco conosciuti.
Autore: Jaroslav Polc Fonte: Enciclopedia dei Santi
Martirologio Romano: A Dol nel territorio di Bourges in Francia, commemorazione dei santi Leucádio e Lusóre: il primo, senatore delle Gallie, ancora pagano, accolse i primi predicatori della fede cristiana a Bourges e fece in questo villaggio della sua casa una chiesa; Lusòre, suo figlio, si dice abbia lasciato questo mondo indossando la veste bianca dei neofiti.
Due sante entrambe regnanti, la prima, Santa Elisabetta, impressionante per la sua scelta di totale povertà!
Presburgo, Bratislava, 1207 - Marburgo, Germania, 17 novembre 1231
Figlia di Andrea, re d'Ungheria e di Gertrude, nobildonna di Merano, ebbe una vita breve. Nata nel 1207, fu promessa in moglie a Ludovico figlio ed erede del sovrano di Turingia. Sposa a quattordici anni, madre a quindici, restò vedova a 20. Il marito, Ludovico IV morì ad Otranto in attesa di imbarcarsi con Federico II per la crociata in Terra Santa. Elisabetta aveva tre figli. Dopo il primogenito Ermanno vennero al mondo due bambine: Sofia e Gertrude, quest'ultima data alla luce già orfana di padre. Alla morte del marito, Elisabetta si ritirò a Eisenach, poi nel castello di Pottenstein per scegliere infine come dimora una modesta casa di Marburgo dove fece edificare a proprie spese un ospedale, riducendosi in povertà. Iscrittasi al terz'ordine francescano, offrì tutta se stessa agli ultimi, visitando gli ammalati due volte al giorno, facendosi mendicante e attribuendosi sempre le mansioni più umili. La sua scelta di povertà scatenò la rabbia dei cognati che arrivarono a privarla dei figli. Morì a Marburgo, in Germania il 17 novembre 1231. È stata canonizzata da papa Gregorio IX nel 1235. (Avvenire)
Patronato: Infermieri, Società caritatevoli, Fornai, Ordine Francescano Secolare
Etimologia: Elisabetta = Dio è il mio giuramento, dall'ebraico
Emblema: Cesto di pane
Martirologio Romano: Memoria di santa Elisabetta di Ungheria, che, ancora fanciulla, fu data in sposa a Ludovico, conte di Turingia, al quale diede tre figli; rimasta vedova, dopo aver sostenuto con fortezza d’animo gravi tribolazioni, dedita già da tempo alla meditazione delle realtà celesti, si ritirò a Marburg in Germania in un ospedale da lei fondato, abbracciando la povertà e adoperandosi nella cura degli infermi e dei poveri fino all’ultimo respiro esalato all’età di venticinque anni.
A quattro anni di età è già fidanzata. Suo padre, il re Andrea II d’Ungheria e la regina Gertrude sua madre l’hanno promessa in sposa a Ludovico, figlio ed erede del sovrano di Turingia (all’epoca, questa regione tedesca è una signoria indipendente, il cui sovrano ha il titolo di Landgraf, langravio). E subito viene condotta nel regno del futuro marito, per vivere e crescere lì, tra la città di Marburgo e Wartburg il castello presso Eisenach.
Nel 1217 muore il langravio di Turingia, Ermanno I. Muore scomunicato per i contrasti politici con l’arcivescovo di Magonza, che è anche signore laico, principe dell’Impero. Gli succede il figlio Ludovico, che nel 1221 sposa solennemente la quattordicenne Elisabetta. Ora i sovrani sono loro due. Lei viene chiamata “Elisabetta di Turingia”. Nel 1222 nasce il loro primo figlio, Ermanno. Seguono due bambine: nel 1224 Sofia e nel 1227 Gertrude. Ma quest’ultima viene al mondo già orfana di padre.
Ludovico di Turingia si è adoperato per organizzare la sesta crociata in Terrasanta, perché papa Onorio III gli ha promesso di liberarlo dalle intromissioni dell’arcivescovo di Magonza. Parte al comando dell’imperatore Federico II. Ma non vedrà la Palestina: lo uccide un male contagioso a Otranto.
Vedova a vent’anni con tre figli, Elisabetta riceve indietro la dote, e c’è chi fa progetti per lei: può risposarsi, a quell’età, oppure entrare in un monastero come altre regine, per viverci da regina, o anche da penitente in preghiera, a scelta. Questo le suggerisce il confessore. Ma lei dà retta a voci francescane che si fanno sentire in Turingia, per dire da che parte si può trovare la “perfetta letizia”. E per i poveri offre il denaro della sua dote (si costruirà un ospedale). Ma soprattutto ai poveri offre l’intera sua vita. Questo per lei è realizzarsi: facendosi come loro. Visita gli ammalati due volte al giorno, e poi raccoglie aiuti facendosi mendicante. E tutto questo rimanendo nella sua condizione di vedova, di laica.
Dopo la sua morte, il confessore rivelerà che, ancora vivente il marito, lei si dedicava ai malati, anche a quelli ripugnanti: "Nutrì alcuni, ad altri procurò un letto, altri portò sulle proprie spalle, prodigandosi sempre, senza mettersi tuttavia in contrasto con suo marito". Collocava la sua dedizione in una cornice di normalità, che includeva anche piccoli gesti “esteriori”, ispirati non a semplice benevolenza, ma a rispetto vero per gli “inferiori”: come il farsi dare del tu dalle donne di servizio. Ed era poi attenta a non eccedere con le penitenze personali, che potessero indebolirla e renderla meno pronta all’aiuto. Vive da povera e da povera si ammala, rinunciando pure al ritorno in Ungheria, come vorrebbero i suoi genitori, re e regina.
Muore in Marburgo a 24 anni, subito “gridata santa” da molte voci, che inducono papa Gregorio IX a ordinare l’inchiesta "sui prodigi che le si attribuiscono". Un lavoro reso difficile da complicazioni anche tragiche: muore assassinato il confessore di lei; l’arcivescovo di Magonza cerca di sabotare le indagini. Ma Roma le fa riprendere. E si arriva alla canonizzazione nel 1235 sempre a opera di papa Gregorio. I suoi resti, trafugati da Marburgo durante i conflitti al tempo della Riforma protestante, sono ora custoditi in parte a Vienna. E’ compatrona dell’Ordine Francescano secolare assieme a S. Ludovico.
Autore: Domenico Agasso
Fonte:Famiglia Cristiana
Cracovia, Polonia, 1211 circa – Sandomierz, Polonia, 17 novembre 1268
Ancor giovinetta, Salomea fu data in sposa a Colomanno, figlio di Andrea II, e divenne poi così regina d’Ungheria. I due sposi vissero in illibata castità. Alla morte del marito, Salomea volle indossare l’abito francescano fra le Clarisse di Cracovia. Nel monastero, del quale divenne anche badessa, diede eccellenti esempi di umiltà e di obbedienza. Papa Clemente X nel 1672 ne confermò il culto quale beata.
Martirologio Romano: Presso Cracovia in Polonia, beata Saloméa, che, regina di Halicz, dopo la morte del marito, il re Colomanno, professò la regola delle Clarisse e svolse santamente l’ufficio di badessa nel monastero da lei fondato.
Salomea nacque verso il 1211 da Leszek il Buono, principe di Cracovia. E’ purtroppo assai difficile datare i primi eventi della sua vita, in quanto le fonti sul suo conto differiscono assai considerevolmente.
Pare comunque certo che all’età di soli tre anni venne affidata al vescovo di Cracovia, il Beato Vincenzo Kadlubek, affinché la conducesse alla corte del sovrano ungherese Andrea II. Leszek aveva infatti organizzato il matrimonio tra Salomea e Kálmán (nome solitamente italianizzato come Colomanno), figlio di Andrea, che a quel tempo aveva solamente sei anni. I matrimoni concordati di questo genere non erano insoliti a quel tempo e la ragazza spesso sin da piccola viveva a corte del futuro suocero.
I due bambini furono incoronati e “governarono” Halicz per circa tre anni, finché la città non fu occupata da un principe della Rutenia, Mstislav, che li imprigionò. Durante la prigionia, Salomea, che aveva circa nove anni, pronunciò con il suo fidanzato un voto congiunto di castità.
Quando gli ungheresi riconquistarono Halicz i due furono liberati ed infine fu celebrato solennemente il matrimonio. Pare che dopo la cerimonia Salomea abbia iniziato a condurre una vita ascetica, divenendo terziaria francescana ed impegnandosi affinché la corte diventasse un modello di vita cristiana.
Kálmán governò la Dalmazia e la Slovenia sino alla sua morte, avvenuta nel 1241 combattendo contro i Tartari. Per circa un anno la vedova rimase a corte intenta a compiere opere buone, ma nel 1242 preferì far ritorno in patria. Divenne così generosa benefattrice dei frati minori e, con il sostegno del fratello Boleslao, intraprese nel 1245 la fondazione di un nuovo convento di Clarisse Povere presso Sandomierz. Salomea indosso poi ella stessa l’abito francescano e divenne anche badessa del monastero. Nella vita comune con le consorelle diede eccellenti esempi di umiltà e di obbedienza. Morì il 17 novembre 1268 e le sue spoglie mortali furono poi traslate nella chiesa francescana di Cracovia. Papa Clemente X nel 1672 ne approvò il culto quale beata ed il Martirologium Romanum la commemora ancora oggi nell’anniversario della nascita al cielo.
Autore: Fabio Arduino
Desterà forse un po’ di sorpresa il fatto che il santo oggi in questione non solo non sia cristiano, ma neppure ebreo come i patriarchi ed i profeti biblici. Analogo caso è però costituito dal re-sacerdote San Melchisedech.
Il patriarca Noè è infatti una figura nota, seppur sotto diversi nomi, ad altri popoli mesopotamici e la storia del diluvio a lui connessa è narrata anche da vari antichissimi testi babilonesi, quali per esempio l’Epopea di Ghilgamesh ed il Poema di Atrakhasis. Il fatto storico che probabilmente ispirò questo racconto leggendario sta in un catastrofico evento verificatosi forse nell’area dei due maestosi fiumi Tigri ed Eufrate, le cui inondazioni opportunamente incanalate si rivelarono sempre fonti di benessere, ma con le loro piene eccessive furono talvolta causa di devastazioni. La figura di Noè è così nota da rendere incompleto ogni possibile tentativo di riproporre così in breve la sua vicenda, narrata per esteso nei capitoli 6-9 del libro della Genesi, pur con qualche incongruenza, dovuta all’intrecciarsi di due differenti tradizioni. L’arca tratteggiata nel racconto biblico con misure esorbitanti, lunga 156 metri, alto 30, larga 26, con la capacità di 65/70.000 metri cubi, desta da secoli lo stupore degli artisti, che cercano di raffigurarla, e degli archeologi, che invano tentano di scovarne eventuali resti, nonostante le discordanze sulla suo possibile collocazione. Noè costituisce comunque un emblema dei giusti presenti indubbiamente anche nel mondo pagano: Abramo verrà infatti parecchi secoli dopo. Dio stabilì già con Noè un’alleanza anticipatrice di quella che stipulò poi con Israele sul monte Sinai. Questo è dunque l’atto culminante del racconto del diluvio, cioè il Signore che nella sua giustizia irrompe per colpire il male dilagante con le acque impetuose, simbolo per l’antico Vicino Oriente del nulla e del caos. Ma Dio si fa portatore di salvezza nei confronti di tutti i giusti, incarnati in Noè, “uomo giusto e integro” in una “terra corrotta e piena di violenza” (Gn 6,9.11). L’arcobaleno sfolgorante nel cielo divenne segno non solo del giudizio divino ormai ottemperato, ma anche della nuova alleanza cosmica intercorsa tra Dio e l’intera creazione. Tuttavia il male non fu così del tutto estirpato, riaffiorando infatti nel finale del racconto della storia di Noè, più precisamente nella mancanza di rispetto che Cam, uno dei tre figli di Noè, ebbe nei confronti di suo padre, qualora “vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli” (Gn 9,22).
Fu così evidente che purtroppo, anche nell’umanità appena rinnovata, il germe del male era già pronto a risorgere tra gli uomini e trovare nuovo vigore.
Autore: Fabio Arduino
Meaco (Giappone) – Nagasaki, 18 novembre 1619
Martirologio Romano: A Nagasaki in Giappone, beati martiri Leonardo Kimura, religioso della Compagnia di Gesù, Andrea Murayama Tokuan, Cosma Takeya, Giovanni Yoshida Xhoun, Domenico Jorge, arsi nel fuoco in quanto cristiani.
L’evangelizzazione del Giappone, iniziata con il gesuita s. Francesco Xavier e con i suoi confratelli, e sviluppata notevolmente nei decenni successivi al 1549, ebbe nella sua sofferta evoluzione due periodi di persecuzione efferata, a conferma che ogni opera missionaria ha versato sempre il suo tributo di sangue, quale seme fecondo di nuovi cristiani.
La prima iniziata il 9 dicembre 1596 ad opera dello ‘shogun’ Hideyoshi, portò al martirio i primi 26 cattolici fra cui tre gesuiti giapponesi e sei francescani, crocifissi e trafitti il 5 febbraio 1597, nella zona di Nagasaki sulla ‘santa collina’; i martiri furono proclamati santi da papa Pio IX nel 1862.
La seconda persecuzione, dopo un proficuo periodo di pace che vide l’arrivo di altri missionari, non solo gesuiti e francescani, ma anche domenicani ed agostiniani, si scatenò ad opera dello ‘shogun’ Ieyasu, dal 1614 e con i suoi successori fino al 1632; una furiosa carneficina che colpì missionari, catechisti, laici di ogni condizione sociale, perfino bambini e intere famiglie; uccisi secondo lo stile orientale, fra vari e raffinati supplizi.
La maggior parte dei martiri, che furono migliaia, morirono legati ad un palo e bruciati a fuoco lento, cosicché la ‘santa collina’ di Nagasaki, già teatro della prima persecuzione, fu sinistramente illuminata dalla fila di torce umane per parecchie sere e notti; altri martiri furono decapitati o tagliati membro per membro.
Di questa seconda, più lunga e numerosa persecuzione, raccogliendo testimonianze, la Chiesa ha potuto riconoscere, fra le varie migliaia di vittime, la validità storica del martirio per almeno 205 di esse, che papa Pio IX, il 7 luglio 1867 proclamò Beati.
Fra essi si annovera il beato Yochida Xoum e sua moglie Maria; nato a Meaco, si trasferì da giovane a Nagasaki dove incontrò i padri della Compagnia di Gesù, ricevendo l’educazione cristiana e il battesimo con il nome di Giovanni.
Dopo il matrimonio con Maria anche lei cattolica e dal quale nacquero dei figli, continuò a dare aiuto valido ai Gesuiti nella diffusione del Vangelo.
Quando nel 1614, scoppiò con ferocia la persecuzione contro i missionari cristiani stranieri, che vennero espulsi dal Giappone, Yochida Xoum ne ospitò di nascosto alcuni, ben sapendo il rischio a cui andava incontro, giacché chi veniva sorpreso in quest’opera di ospitalità, veniva punito con la morte.
Fra i missionari ospitati, vi fu anche il beato martire gesuita Alfonso de Mena († 1622), che venne scoperto nella sua casa il 15 marzo 1619 e imprigionato; anche Giovanni Yochida fu arrestato e rinchiuso nelle carceri di Nagasaki. Il 17 novembre 1619 fu interrogato dal governatore Gonrocu che tentò invano di fargli rinnegare la fede cristiana.
Il 18 novembre con altri quattro compagni (Leonardo Kimura gesuita, Murayama Tokuan Andrea, Takeya Cosma, Jorge Domenico), fu arso vivo sulla collina di Nagasaki. Le ossa dei cinque martiri furono spezzate e gettate in mare, i cristiani riuscirono a recuperarne alcune.
La moglie Maria, sopravvissuta allora, subì poi il martirio tre anni dopo, venendo decapitata il 10 settembre 1622 e ricordata appunto in tale giorno.
Il beato Yochida Xaum (Giovanni), è ricordato nel martirologio Romano il 18 novembre.
Autore: Antonio Borrelli
Dati nella scheda precedente del BEATO YOSHIDA XOUM.
IV secolo
San Narses I il Grande fu un Catholicos armeno (o Patriarca) che visse nel IV secolo. Fu padre di un altro catholicos, San Sahak I. Appartenente alla stirpe reale che aveva visto tra i suoi componenti San Gregorio Illuminatore, trascorse la sua gioventù a Cesarea dove sposò Sanducht, una principessa mamiconianea. Dopo la morte della moglie fu nominato cavaliere da Re Arshak II e, pochi anni più tardi, entrò nella gerarchia ecclesiastica. Fu eletto catholicos nel 353. Il suo patriarcato segnò una nuova era nella storia dell'Armenia. Fino ad allora infatti la Chiesa era stata identificata con la famiglia reale e la nobiltà; Narses la portò a un più stretto contatto con le credenze e gli usi del popolo armeno. Durante il Concilio di Ashtishat (354) promulgò infatti numerose leggi riguardanti il matrimonio, i giorni di festa e il culto divino. Costruì inoltre scuole e ospedali, inviando monaci per tutto il paese a predicare il Vangelo a quella parte di popolazione più indigente. Alcune di queste riforme, per il loro carattere "popolare", provocarono la reazione del Re che decise di esiliarlo a Edessa. Nonostante l'allontanamento forzato continuò ad intrattenere rapporti con il Regno armeno, tanto che si suppone abbia svolto il ruolo di ambasciatore a Costantinopoli per assicurare all'imperatore l'appoggio dello Stato Armeno nella guerra contro i Persiani. A seguito della salita al trono del nuovo Re, l'ariano Pap (369), Narses tornò al proprio trono patriarcale. A causa dei comportamenti del nuovo Re, considerati dal patriarca dissoluti e indegni, Narses proibì lui l'entrata in chiesa. Con il pretesto di una riconciliazione, nel 373, Pap invitò il patriarca al suo tavolo, avvelenandolo. Viene venerato come santo dalla Chiesa ortodossa armena e da quella cattolica, che lo venera il 19 novembre.
Discendente dalla famiglia di s. Gregorio Illuminatore e nipote di s. Iusik, Narsete nacque ca. l'a. 330 da Athanagines, figlio di Iusik e da Bambish, figlia del re armeno Tiran. Dopo avere ricevuto un'educazione corrispondente al suo stato principesco, frequentò le scuole elleniche di Cesarea. Sposato con la figlia del principe Vardan Mamikonian, Sahaktucht, ebbe un figlio che chiamò Sahak, il futuro grande Katholicos santo. Dopo tre anni, mortagli la moglie, Narsete ritornò in patria dove fu assunto dal re come suo camerlengo.
Nel 350 Arshak, figlio di Tiran, succedeva al padre sul trono del regno armeno, e cominciava a ristabilire l'ordine fra i principi, affidando a ciascuno il proprio ufficio ed il posto che gli competeva per successione; Tiran, infatti, aveva usurpato tutti i loro diritti. In questa occasione anche i principi chiesero al re di ristabilire alla sede katholicossale, com'era consuetudine, un discendente della famiglia di s. Gregorio. Il re acconsenti alla proposta e, d'accordo con i principi e con il popolo, scelse il camerlengo reale, il giovane Narsete che Fausto (Storia, IV, 3) descrive: «Di statura alta e di una bellezza eccezionale, ma nel medesimo tempo timoroso di Dio ed osservante dei precetti divini, sapiente e modesto, caritatevole e misericordioso, casto e sobrio nella vita coniugale, ed esemplare nel servizio militare». Saputo dell'acclamazione popolare e del beneplacito del re, Narsete rifiutò l'elezione e per convincerli, cominciò ad accusarsi di peccati che non aveva mai commesso. Il popolo, incredulo, si assunse tutta la responsabilità di quei peccati, mentre il re, per troncare la questione, prese la spada dalle sue mani e gli tagliò la chioma. Quindi i vescovi armeni, su invito del re, si radunarono in un sinodo per eleggerlo canonicamente Katholicos dell'Armenia; poi lo inviarono a Cesarea per l'ordinazione sacerdotale e la consacrazione episcopale, accompagnato da otto principi e da una parata militare, come era consuetudine dai tempi di s. Gregorio.
Fausto afferma che a Cesarea Narsete fu consacrato dal metropolita Eusebio, e la data di tale consacrazione, come risulta dall'analisi dei dati storici, sarebbe il 353. A quest'epoca, però, secondo la Series Episcoporum pubblicata dal Gams, il metropolita di Cesarea era Dianeo (341-362); tuttavia in un documento armeno antico, che riporta la serie dei vescovi di Cesarea dall'inizio fino ai tempi di Elladio, troviamo notato per Eusebio: «Questi consacrò Nerses e rimase sulla sede per anni 19». Quindi essendo nota la data della morte di Eusebio (370), quella dell'inizio della sua carriera, secondo il documento, dovrebbe essere l'anno 352; tutto ciò, unito ad altri dati, confermerebbe come data di consacrazione di Narsete l'anno 353.
Dopo il ritorno alla sua sede episcopale, Narsete convocò un sinodo i cui Atti non ci sono pervenuti, ma di cui Fausto ha conservato un riassunto: Narsete ordinò la costruzione di ospedali e di ospizi per i lebbrosi e per tutti i poveri della città che dovevano essere ricoverati in questi luoghi e mantenuti dalla carità dei fedeli; vietò sotto severe pene l'usanza superstiziosa di piangere i morti secondo i riti pagani; decretò leggi per regolare il matrimonio cristiano e la vita coniugale; inflisse pene contro tutti i vizi e i delitti. Esortò inoltre il re, i principi e tutti coloro che esercitavano l'autorità, ad essere miti verso i propri sudditi, e a non gravarli di tasse eccessive. Ai sudditi ordinò di rendere perfetta obbedienza e fedeltà alle autorità. Infine istituì in diversi luoghi scuole di lingua greca e siriaca, per l'educazione della gioventù ed in particolare degli ecclesiastici.
Fausto loda l'ordine e la prosperità della Chiesa armena ai tempi di Narsete e scrive: «Ai suoi tempi le chiese godevano della pace e tutti i vescovi erano circondati di rispetto in tutta l'Armenia; le chiese erano colme di pompa e di magnificenza; il clero aumentava di numero, ed egli costruiva in tutto il paese nuove chiese e monasteri per i monaci. Egli stesso liberò molti dalla schiavitù; aiutava le vedove e gli orfani, ed ogni giorno ospitava molti poveri alla sua tavola. Benché avesse istituito ospizi per i poveri e gli indigenti, accettava nel suo palazzo chiunque venisse a chiedere aiuto, ed egli stesso li lavava, li ungeva e distribuiva loro il cibo» (Storia, IV, 4). Con l'istituzione degli ospizi e dei lebbrosari iniziò nell'Armenia quell'opera sociale che doveva continuare nei secoli seguenti a cura della Chiesa armena. Tutti i fedeli erano invitati ad aiutare queste opere; anzi, furono emanati anche canoni penali, che infliggevano come pena l'aiuto in denaro o in lavoro a questi ospizi. L'organizzazione fondata da Narsete è quindi una delle prime del genere che s'incontrano nella storia.
Come capo della Chiesa armena, aveva anche compiti nella vita civile e politica del regno; infatti a lui era affidato il tribunale. Il re stesso lo mandò alla corte di Bisanzio per trattare con l'imperatore. La sua prima missione fu, nel 354, presso l'imperatore Costanzo II, con il quale stipulò un trattato di alleanza. Ritornò in patria riportando con sé i due nipoti del re Arshak, trattenuti presso l'imperatore come ostaggi, e la figlia di un prefetto dei pretoriani, Olimpia, come moglie per il re.
Ma la collaborazione tra Narsete e Arshak non durò a lungo, poiché quest'ultimo seguiva nella vita privata e sociale soltanto i propri interessi, non dando ascolto alle ammonizioni del vescovo. Il motivo fondamentale e decisivo della rottura tra i due fu l'uccisione di Gnel, nipote dello stesso re, avvenuta nel 359. Narsete esortò il sovrano a desistere dal suo delitto, ma questi, non solo non ritirò l'ordine dell'uccisione, ma prese anche la moglie della vittima. Il vescovo allora lo scomunicò, ritirandosi dal suo ufficio. Arshak elesse al suo posto Ciunak invitando i vescovi armeni a consacrarlo, ma, ad eccezione di due, nessuno accettò l'invito. Ciunak, che non ebbe alcuna giurisdizione ecclesiastica e si accontentò di accompagnare il re, non fu preso in considerazione dai vescovi armeni i quali affidarono l'ufficio di Narsete a Iussik che rappresentò la Chiesa armena nel sinodo di Antiochia (364), come si legge tra i firmatari della lettera sinodale indirizzata all'imperatore Gioviano (cf. Socrate, Hist. Eccl, III, 25).
Il ritiro di Narsete nei suoi possedimenti ad Ashtishat durò per tutto il periodo del regno di Arshak, ma quando questi fu fatto prigioniero dal re sassanide Shapuh, su invito dei principi armeni, che resistevano all'invasione persiana, verso il 367 accettò di nuovo l'incarico. Tornò allora a Costantinopoli per stringere amicizia coll'imperatore Valentiniano I (364-375) e far incoronare il figlio di Arshak, Pap, re d'Armenia. L'imperatore accettò la proposta impegnandosi ad aiutare il nuovo re. Tornato in patria dopo il felice esito della missione, portò anche aiuti militari e poté assistere alla battaglia di Zirav in cui gli armeni riportarono la vittoria ed il re Pap poté stabilirsi sul suo trono.
Riprendendo il suo ufficio Narsete si dedicò interamente alla cura pastorale del popolo. Partecipò anche ai sinodi provinciali di Cesarea: nel 372 troviamo infatti il suo nome, con quello di altri due vescovi armeni, nella lettera del sinodo di Cesarea, al quale presiedette s. Basilio (Basilio, Ep. 92).
Ma anche il re Pap, come suo padre, non voleva ascoltare le ammonizioni di Narsete, anzi, risentito dei suoi rimproveri, lo fece avvelenare durante una festa, alla quale lo aveva invitato col pretesto di voler riappacificarsi. Il santo vescovo mori, nel 373, dopo essere ritornato al suo palazzo, circondato dai suoi amici e dai suoi discepoli.
Gli storiografi moderni non concordano circa l'uccisione da parte del re armeno, mentre il con-temporaneo Fausto lo asserisce apertamente, né vi sono motivi seri per negarlo. Non sono invece accettati l'esilio di Narsete da parte dell'imperatore Valentiniano, con il quale avrebbe avuto una discussione teologica circa l'arianesimo, e la sua partecipazione al concilio di Costantinopoli nel 381, in quanto la sua morte è fissata al 373.
Narsete fu sepolto a Thil, nella chiesa del villaggio di Erzerum, ove erano già stati sepolti tutti i suoi santi antenati e la tomba fu meta di pellegrinaggio fino all'invasione araba (sec. VII). In questo periodo la chiesa fu distrutta e non ci si curò più della tomba del santo fino al sec. XIII. Nel 1272, in seguito ad una visione, furono trovate le sue reliquie e il vescovo della diocesi, Sarkis, ordinò di costruire sul posto una chiesa a lui dedicata. Questa chiesa fu anche, da allora in poi, la cattedrale della sede vescovile.
La Chiesa armena celebra la festa di Narsete nella settimana della quarta domenica dopo Pentecoste.
Autore: Paolo Ananian Fonte: Enciclopedia dei Santi
† Eraclea (Tracia), 312 ca.
Nella città di Eraclea, in Tracia, subirono il martirio in odio alla fede cristiana ben 40 sante donne, vergini e vedove, che la tradizione orientale è solita raffigurare in un’unica grande icona sinattica. Il Martyrologium Romanum ricorda questo gruppo di martiri in data odierna.
Martirologio Romano: A Marmara Ereglisi in Tracia, nell’odierna Turchia, sante quaranta donne, vergini e vedove, martiri.
Nonostante che il racconto dei loro tormenti e del loro martirio, abbia tutti i segni della leggenda e dell’agiografia fantastica, sembra non ci siano dubbi sulla loro esistenza e sulla loro testimonianza di fede.
Le quaranta donne sono ricordate dal calendario gotico, che le commemora il 19 novembre come martiri a Berea vicino Eraclea; lo stesso gruppo nei sinassari e menologi greci, viene ricordato però il 1° settembre.
Il Martirologio Geronimiano le ricorda sempre il 19 novembre, ponendo il martirio delle 40 donne e vedove ad Heraclea (Tracia); su ciò si basa l’ipotesi di Niceforo Callisto, che considera queste donne, come le mogli dei 40 martiri di Sebaste (9 marzo), ma ciò non è possibile documentarlo.
Il racconto del loro martirio è stato riportato sin dal primo ‘Martirologio Romano’ e dal Sinassario orientale di Costantinopoli, e la loro vicenda è stata ritenuta degna di fede da tutte le antiche fonti, come il ‘Menologio’ di Basilio Porfirogenito.
La ‘Passio’ riporta come capo del numeroso gruppo di donne, il diacono Ammone, maestro e promotore della loro conversione al Cristianesimo.
Al tempo dell’imperatore Costantino (280-337), era associato nella guida dell’Impero in Oriente Licinio Valerio Liciniano (250-325) e la persecuzione contro i cristiani, cessata definitivamente con l’editto di Milano del 313 e firmato dai due imperatori, era ancora sporadicamente in atto; Licinio mandò come funzionario a Berea il suo messo Baudo, il quale appena giunto, ricevé una denunzia contro Celsina priora e le quaranta vergini e vedove riunite con lei in comunità monastica.
Celsina dopo un interrogatorio in cui finse di assoggettarsi ai voleri del funzionario pagano, si ritirò in preghiera, esortata a perseverare dal diacono Ammone loro guida spirituale.
Durante il secondo interrogatorio e presente tutta la comunità delle monache, gli idoli si sbriciolarono e il sacerdote di Zeus, fu sollevato in aria da angeli di fuoco e mentre Annone e le 40 donne cristiane si ritiravano, egli precipitò sfracellandosi al suolo.
Baudo infuriato, fece arroventare un elmo di bronzo e lo fece porre sul capo di Ammone, appeso alle macchine per la tortura; ma l’elmo volò via finendo sulla testa dello stesso Baudo, che fu prodigiosamente sollevato in aria, finché non chiese perdono ai martiri; poi se ne liberò inviando tutto il gruppo a Licinio in Eraclea, dove le vergini venerarono le reliquie di santa Gliceria martire, poi patrona della città.
L’imperatore ordinò che venissero gettate tutte in pasto alle belve, ma gli animali non vollero toccarle e allora Licinio fece uccidere il diacono Ammone, le vergini capeggiate da Celsina e le vedove capeggiate dalla diaconessa Lorenza, massacrandoli a gruppi con raccapriccianti supplizi, pratica che si industriavano ad inventare i potenti e prepotenti di allora e che omettiamo di descrivere, per non fare una galleria degli orrori.
La data del martirio, tenuto conto degli anni di governo degli imperatori Costantino e Licinio e dell’editto del 313, che metteva fine alla persecuzione, si può ritenere che sia avvenuto nel 312 o primi giorni del 313 stesso.
Autore: Antonio Borrelli
Oggi ricordiamo una coppia di Santi che addirittura hanno meritato una Lettera di San Paolo: la lettera a Filemone, sposo di Santa Appia!
Conosciamo poi il martire Santo Valeriano, sposo di Santa Ceciclia.
Sec. I
Nella lettera a lui destinata, l'Apostolo delle Genti elogia la sua Fede e il suo amore a Cristo.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: Commemorazione di san Filemone di Colossi, della cui carità per Cristo Gesù si rallegrò san Paolo Apostolo; è venerato insieme a sua moglie santa Affia.
Filemone di Colosse in Frigia, fu discepolo di s. Paolo. A lui l'Apostolo scrisse la più breve delle sue epistole, una delle quattro che spedì dalla prigionia romana (Efesini, Filippesi, Colossesi, Filemone).
Il suo nome era diffuso nell'Asia Minore (per es. il commediografo greco Filemone, cilicio, 361-262 a.C.) e soprattutto nella Frigia, come attestano, con molte iscrizioni, Aristofane (Aves, 762) e Ovidio (Metamorph., VIII, 631: il bel mito di Filemone e Bauci). Era un facoltoso colossese, proprietario di fabbricati e schiavi. Poiché s. Paolo non era stato a Colosso, Filemone deve averlo conosciuto ad Efeso (cf. Atti 19, 10-11), oppure durante un giro attraverso l'interno della provincia d'Asia (Atti 19, 26; I Cor. 16, 19). Fu convertito e battezzato da Paolo insieme ai suoi (Filemone 19: «devi a me anche te stesso »), probabilmente durante il suo lungo ministero efesino tra il 54 e il 57. Filemone si distingueva per la sua generosità nel soccorrere e nell'ospitare «i santi» (ibid. 5-7, 22) e la «chiesa» o comunità colossese, si radunava nella sua «casa» (ibid. 2). Aveva almeno cinquant'anni quando (nel 63) Paolo gli scrisse da Roma, presentandoglisi come «vecchio» (ibid. 9); se Archippo, che doveva averne almeno trenta poiché godeva di autorità nella chiesa colossese (Col. 4, 17), era suo figlio, Filemone era più giovane di s. Paolo di dieci o quindici anni, non più.
S. Paolo chiama Filemone (ibid. 1) suo «collaboratore»; egli aveva infatti impiantato e diffuso l'Evangelo a Colosse, insieme ad Archippo il quale è considerato da Paolo suo «commilitone» (ibid. 2) e in Col. 4, 17 è menzionato come investito d'importante ministero nella chiesa colossese; perciò parecchi ritennero fosse vescovo di Colosse, forse sotto l'alto controllo e la direzione di Filemone (preposto alle varie chiese della valle del Lieo, Laodicea compresa?). Il termine greco con cui Paolo qualifica Archippo, è classico (Senofonte, Platone, Aristotele), ma infrequente nei papiri (5-6 volte) e raro nel sec. I: solo un'altra volta nel N. T. (Phil. 2, 25) e una volta in Flavio Giuseppe al femminile (Bell. Iud. VI, 9, 1).
Non sorprende quindi se le Constitutiones Apostolicae (sec. IV), VII, 46, 12 (ed. Funck, Paderborn 1905, pp. 454 sg.) dicono Filemone vescovo di Colosse e Archippo vescovo di Laodicea (l'assegnazione di quest'ultimo a Laodicea è dovuta al fatto che in Col. 4, 17 sembra incluso nella «chiesa» di Laodicea). Che Filemone fosse capo della Chiesa di Colosse può dedursi anche dalla sua forte e operosa amicizia con s. Paolo (Filemone 13, 17, 22), che lo pone alla pari degli altri suoi noti «collaboratori»; per mezzo suo l'Apostolo si rivolge alla «chiesa» colossese (ibid. 2, 25), le cui assemblee dovevano essere presiedute da lui «nella casa» sua.
Per uno strano equivoco, il colossese Filemone venne creduto di Rodi da vari bizantini (Suida, G. Ce-dreno, ecc.) che identificavano i Colossesi con i Rodioti, la cui isola era caratterizzata dal famosissimo «colosso». Questa curiosa opinione riappare ancora in s. Francesco di Sales (Traité de l'Amour de Dieu, 1. VII, c. 6).
Se, come è probabile, Filemone era capo della comunità colossese, è da ritenersi uno «spirituale» eccezionalmente «perfetto» (cf. I Cor. 2, 6, 10-16), poiché l'Apostolo gli inviò, insieme alla breve lettera a lui intestata, la sublime sintesi dell'Epistola ai Colossesi. Al tempo di Teodoreto (sec. V) si mostrava ancora in Colosse la casa di Filemone (In epist. ad Philem., Prooem., in PG, XXVI, col. 601).
Appia, o meglio Affia o Apphia, fin dall'inizio della lettera, è posta da s. Paolo a fianco di Filemone «fratello diletto» e salutata come «sorella diletta» (questo aggettivo manca nella maggioranza dei codici e nelle edizioni critiche, ma si ha nella Volgata, nella Peshitta e in parecchi codd. dal sec. VIII in poi). S. Giovanni Crisostomo, Teodoreto, ed altri al loro seguito, hanno ritenuto, con buon fondamento, che essa fosse la moglie di Filemone. Apparteneva, comunque, certamente alla sua famiglia, come del resto Archippo, nominato per ultimo fra i tre destinatari della lettera (ibid. 1-2) i quali formavano un gruppo familiare assai caro a Paolo; Archippo doveva essere il figlio di Filemone ed Appia. La loro casa amica era a disposizione dell'Apostolo (ibid. 22). I tre, insieme al loro schiavo convertito Onesimo, che è oggetto, e (con Tichico), latore dell'Epistola a Filemone, sono commemorati nei martirologi latini, al seguito dei menologi greci, il 22 novembre; tutti e quattro sarebbero stati martirizzati insieme a Colosse.
Tra Filemone e s. Paolo intercorrevano rapporti di figlio a padre, una solidarietà (ibid. 17) di beni, di opere e di responsabilità che indusse l'Apostolo ad intervenire «più esortando che comandando» (ibid. 8-9) per risolvere il delicato caso di Onesimo, schiavo di Filemone, che era fuggito. Filemone aveva acquistato un giovane schiavo, svelto e capace, che chiamò Onesimo («utile»), nome greco che ricorre già in Tucidide. Dopo aver derubato il padrone, Onesimo scappò; giunse a Roma, ove confluivano avventurieri da ogni nazione, mentre Paolo vi era prigioniero (61-63). Gli schiavi fuggitivi erano fuori legge e, unendosi ai loro pari, si abbandonavano spesso alla delinquenza. Esaurito il danaro, braccato forse dalla polizia posta da Filemone sulle sue tracce, Onesimo, che in casa dell'antico padrone doveva aver sentito parlare di Paolo, andò a trovarlo nell'alloggio che l'Apostolo aveva affittato e ove riceveva liberamente le visite di molti (Act. 28, 30-31).
Paolo insegnò a Onesimo qual è la vera, l'unica libertà: la vita interiore «nascosta con Cristo in Dio» (Col. 3, 3). Gesù Cristo, il più potente e libero tra gli esseri, sacrificò la sua sovranità e la sua libertà assumendo la veste di schiavo, e volle subire la crocifissione degli schiavi (Phil. 2, 7-8), per riscattare tutti dalla quadruplice schiavitù dell'errore, della carne con i suoi desideri, del mondo, del peccato (I Cor. 7, 23; Rom. 6, 16-22), di fronte alla quale le oppressioni esteriori sono cosa insignificante. Paolo stesso era vissuto nella schiavitù della lettera della Legge, la quale non affrancava dalla carne e dal peccato; ma convertitosi allo Spirito di Cristo Signore, aveva trovato l'unica vera libertà (II Cor. 3, 17). Perciò la fede che unisce a Gesù e il Battesimo che immerge nel suo mistero di morte e di vita elevano il rigenerato sopra le transitorie vicende umane e annullano le abnormi distanze sociali prodotte dalle prepotenze egoistiche di pochi fortunati. «Hai ricevuto la vocazione cristiana essendo schiavo? Ciò non ti deve angustiare. Ma, anche se puoi diventare libero, metti a profitto la tua condizione di schiavo. Infatti, colui che è chiamato nel Signore essendo schiavo, è il liberto del Signore. Parimenti, colui che è stato chiamato essendo libero è lo schiavo di Cristo. Siete stati comprati in contanti (dal Redentore); non diventate schiavi degli uomini!» (I Cor. 7, 21-23). Il più meschino schiavo di Cristo è il più libero degli uomini; invece la libertà conclamata dagli uomini abbandonati a se stessi è la più obbrobriosa delle degenerazioni oppressive (Rom. 1, 21-26). Solo chi è morto all'uomo vecchio crocifiggendosi con Gesù al mondo e alle sue nefandezze per risorgere con lui alla nuova vita, eterna (Col. 3, 6-10; Eph. 4, 20-24; Gal. 3, 27; 6, 14-15), possiede la libertà autentica: «voi siete stati chiamati per la libertà, fratelli; soltanto che non dovete fare della libertà un pretesto per la carne, ma, mediante la carità, dovete servirvi a vicenda» (Gal. 5, 13). Dalla vera ed unica libertà che si identifica con l'amore divino in Gesù Cristo, «né i ceppi, né le oppressioni, né le sofferenze del tempo attuale» ci potranno mai separare (Rom. 8, 18, 35-39). Perciò come non esiste più distanza tra il giudeo e il pagano, non vi è più differenza tra lo schiavo e il libero (Col. 3, 11; Gal. 3, 28; I Cor. 12, 13): sono una sola e stessa cosa in Cristo.
Ignoriamo quante volte Onesimo sia stato istruito da Paolo, il quale, alla fine, lo battezzò. Stretto in catene, l'Apostolo libera lo schiavo di Filemone, che poteva ripetere ciò che Diogene diceva del suo maestro Andatene: «Mi ha reso libero nell'anima, e così ho cessato di essere schiavo».
Paolo avrebbe voluto trattenere Onesimo, ormai cristiano e quindi libero, con sé, perché l'aiutasse mentre era prigioniero (Philem. 13). Ma legalmente il neofito era ancora schiavo di Filemone e, poiché Tichico partiva per l'Asia (Col. 4, 7-9), Paolo invia entrambi alla chiesa di Colosse con una sua lettera per Filemone. Questa è la più breve — come si è detto — dell'epistolario paolino (25 versetti); eccezionalmente sembra essere stata scritta interamente di mano dell'Apostolo (Filemone 19) e verte intorno allo schiavo redento per il quale Paolo chiede il perdono, il condono, e delicatamente suggerisce, infine, l'affrancamento (ibid. 21). Non si tratta di un affare puramente privato: è connesso indissolubilmente alla fede e alla morale cristiana. Onesimo era ormai un «fratello carissimo e fedele» di Paolo e, in quanto tale e come uno «dei loro», interessava la Chiesa colossese (Col. 4, 9). L'Apostolo mediante questa lettera pone le premesse dell'affrancamento dello schiavo convertito. La manumissio (cf. I Cor. 7, 22), nelle province greche, era attuata in forme non solenni che venivano progressivamente accolte nel diritto romano; la più semplice e spontanea era la manumissio inter amicos; il padrone dichiarava in presenza di amici di liberare lo schiavo (U. E. Paoli). Paolo che, nel diritto nuovo e più profondo della nuova vita in Cristo, era padrone di Onesimo assai più di Filemone, inizia ora, con la liberazione dello schiavo rigenerato, l'abolizione della schiavitù.
«Incatenato per Cristo Gesù», Paolo si unisce come intestatario della lettera «il fratello Timoteo». Gli sono in quel momento vicini Epafra «mio concaptivo in Cristo Gesù» e i «collaboratori» Marco, Aristarco, Dcmas, Luca (Philem. 23-24). Questi nomi sono gli stessi che compaiono nell'Epistola ai Colossesi (Col. 4, 10-14), ove è menzionato in più Gesù il Giusto. Varie analogie di concetto e di forma fra la fine dell'Epistola ai Colossesi e la lettera a Filemone (Philetn. 2 = Col. 4, 17; Philem. 1, 9, 13 = Col. 4, 18; Philetn. 8 = Col.3, 18; Philem. 10 = Col. 4, 9; Philem. 16 = Col.4, 7; Philem. 23 = Co/. 4, 10; ecc.). Molti accenni a identiche persone e circostanze, permettono di affermare che la lettera a Filemone fu scritta subito dopo Colossesi, al termine della biennale prigionia romana, cioè nella primavera del 63. Le due lettere, infatti, dovevano essere recate a Colosso da Tichico con Onesimo (Col. 4, 7-9).
Come le grandi epistole, Philem. è divisa in prologo, corpo della trattazione, epilogo e, come le altre, fin dal prologo irradia la luce e la vita dell'Evangelo. L'Apostolo sa che F. leggerà la sua lettera durante la sinassi liturgica in casa sua: perciò saluta, con Filemone e Archippo che la ospitano e dirigono, «la chiesa che si riunisce in casa tua» (Philem. 2), cui ritorna nella chiusa (ibid. 25) augurandole «la grazia di N. S. G. C.» («con lo spirito vostro»). Ciò spiega il facile passaggio della seconda persona dal singolare al plurale (vv. 3-6, 22-25).
Il prologo (vv. 1-7) è costituito dal saluto unito all'indirizzo ai tre della famiglia (Filemone, Appia ed Archippo) ed alla «chiesa» (1-3): l'augurio («grazia e pace») è letteralmente identico a quello di tutte le epistole paoline (eccetto Col. 1, 2 nel testo critico!). Segue il ringraziamento a Dio (vv. 4-7), in cui loda «la carità e la fede che (tu, Filemone) hai per il Signore Gesù e verso tutti i santi, onde la partecipazione della tua fede diventi operosa nella conoscenza di tutto il bene che è in voi, per Cristo» (v. 6); si congratula molto a motivo della «tua carità, perché le viscere dei santi si sono ristorate (secondo la promessa di Gesù: Mt. 11, 28) per causa tua, fratello» (v. 7).
Dopo l'insinuante esordio, Paolo introduce la sua richiesta (che — osserva — potrebbe essere «comando», in virtù dell'autorità apostolica e della paternità spirituale) in forma di amorevole raccomandazione («preferisco esortarti a motivo della carità» v. 9) in favore di Onesimo, Io schiavo fuggitivo, pentito e redento in Cristo (vv. 8-21). La domanda si svolge poi nel quadro dell'eùayysXtov paolino, e procede dalla commossa rievocazione della presente situazione dell'Apostolo all'argomentazione dogmatica che sfocia nella vita in Cristo, unica e sovraterrestre per tutti i credenti senza distinzione. «Io, Paolo, ormai vecchio, ed ora anche incatenato per Cristo Gesù, intercedo per il mio figliuolo, che ho generato (cf. I Cor. 4, 15) nei ceppi» (v. 10). Fino al v. 16 espone i motivi connessi alla persona del suo neofito.
«Onesimo ("utile", donde una delicata paronomasia) ti fu già disutile; ma ora è utile e a te e a me. Te l'ho mandato, e tu accoglilo come le mie stesse viscere» (vv. 11-12). Dopo la sua conversione o «nuova creazione», che ha liquidato tutto il passato (cf. II Cor. 5, 17), spiega l'Apostolo, «avrei voluto trattenerlo presso di me, affinché in vece tua mi servisse mentre sono nei ceppi dell'Evangelo». Ma, rispettoso dei diritti (legali, convenzionali) del padrone, «non ho voluto fare nulla senza il tuo permesso, né che tu compissi un'opera buona perché costretto, bensì per tua volontà» (vv. 13-14). Ed assurge ai principi supremi dell'economia salvifica (vv. 15-16): «Forse infatti a tal fine si è separato temporaneamente da te, perché tu lo ricuperi in eterno, e non più quale schiavo ma ben più che schiavo quale fratello diletto; se è tale per me, tanto più per te per ragioni naturali e soprannaturali». E Paolo, incalzando, conclude (vv. 17-20): «Se dunque mi consideri in comunione con te (per la fede e carità, cf. v. 6), accoglilo come me stesso. Se poi in qualche cosa ti ha danneggiato o ti è debitore, imputalo a me stesso». E come il debitore che s'impegna legalmente, aggiunge: «Io, Paolo, ho scritto di mia mano: restituirò. Per non dirti che, a tua volta, tu mi devi te stesso. Sì, fratello, fa che io abbia da te questo favore nel Signore. Ristora le mie viscere (cf. v. 7) in Cristo». E termina con una frase che suggerisce discretamente a Filemone una generosità più piena: «Ti ho scritto persuaso della tua obbedienza (la domanda dell'Apostolo equivale quindi a un " comando ", v. 8: poiché si basa su motivi irrecusabili), sapendo anzi che farai anche più di quanto dico» (v. 21), concederai cioè addirittura l'affrancamento al tuo schiavo rigenerato in Cristo, divenuto quindi tuo «fratello diletto» (v. 16).
Nell'epilogo, contraccambiando Filemone con una consolante prospettiva, Paolo annunzia come probabile la sua venuta in casa di Filemone, poco dopo che vi sarà rientrato Onesimo. «Contemporaneamente prepara anche a me ospitalità; spero infatti che, mediante le vostre preghiere, vi sarò concesso» (v. 22). Le norme di ospitalità ricorrono nella Didaché 11, 3-6 (cf. J.-P. Audet).
Questo accenno dell'Apostolo al suo prossimo proscioglimento induce a supporre che la lettera a F. per porre termine all'avventura di Onesimo fu scritta al termine del biennio della prigionia romana 61-63. Ignoriamo però se il progetto di raggiungere fra breve la casa di F. a Colosse, poté realizzarsi.
John Knox, dal 1935, propugna una nuova ipotesi. Il vero padrone di Onesimo non sarebbe Filemone nominato per primo, bensì Archippo. Volendo ottenere l'affrancamento dello schiavo per associarselo nel ministero evangelico, Paolo ne perora la causa presso Archippo; ma siccome non lo conosce, indirizza la lettera a Filemone suo amico, che sembra preposto alle chiese della valle del Lico. Non fidandosi troppo di Archippo, l'Apostolo incaricherebbe di condurre a termine la pendenza Filemone e l'intera comunità (v. 2). Vuole che i fedeli di Colosse leggano la «lettera ai Laodicesi» (Col. 4, 16); Knox identifica questa con la lettera a Filemone, la cui residenza episcopale sarebbe stata Laodicea. Vuole che, dopo averla letta, insistano presso Archippo perché disimpegni il «servizio» richiestogli (ibid. 4, 17) di cedergli Onesimo. J. Knox ritiene di avere con tali precisazioni chiarito molti punti oscuri (pp. 30-34, 51-57); ma la sua elaborata, troppo ingegnosa, ricostruzione critico-storica ha riscosso poche adesioni: suscita più difficoltà di quante non ne risolva. Anche psicologicamente appare forzata, giacché trasforma in simulazione diplomatica uno scritto che si distingue a prima vista per spontaneo abbandono e limpida semplicità di cordiale effusione.
Il merito della conservazione di questa breve lettera paolina risale anzitutto a Filemone e alla sua famiglia. Menzionata dal canone Muratoriano (sec. II) che la pone con le tre lettere pastorali, la lettera a Filemone è rivendicata come autentica, contro i pochi critici radicali che la rigettarono, dai «liberali» E. Renan, A. Sabatier, H. J. Holtzmann, C. Olemen, A. Deissmann, A. Jùlicher, ecc. Lo stile, molto ammirato da H. von Soden, è squisitamente paolino. Dopo Erasmo (In Philem. 20), che sfida lo stesso Cicerone davanti alla penetrante suasività di questo rapido biglietto confidenziale, tutti ne rilevano oggi l'insuperabile grazia e suggestività.
Già F. W. Farrar istituì un diligente paragone (1892) con le due lettere di Plinio il Giovane a Sabiniano su analogo argomento, prima e dopo l'affrancamento (Epistolae, 1. IX, 21, 24), concludendo per l'inconfondibile originalità e per la totale superiorità, morale e letteraria, dello scritto paolino a Filemone.
Rinviando Onesimo al suo padrone, Paolo non intendeva certo consacrare l'istituto della schiavitù allora diffusa. Ma si astiene, sull'esempio di Gesù Cristo, da pose demagogiche e rivoluzionarie. Lascia sopravvivere i potenti che soggiogano i deboli e sfruttano i poveri; ma orienta gli animi dei padroni e degli schiavi ai supremi valori immutabili, all'apprezzamento della vera inammissibile libertà, che è interiore e non subordinata alle contingenti sopraffazioni dell'homo homini lupus; afferma la completa eguaglianza di tutti alla luce di Dio in Cristo. In Col. 3, 22-41 (brano contemporaneo a Philem.), Paolo espone come l'obbedienza dello schiavo in Christo è assai più nobile della potenza del padrone spocchioso. Pur obbedendo, il credente «non cerca di piacere agli uomini, ma lavora per il Signore e non per gli uomini»; sa che presso Dio «non vi è accezione di persone», che tutti sono uguali davanti al Giudice de! bene e del male, e che l'unico padrone tollerabile è quello che riconosce di essere anch'egli servo del «Padrone in cielo». In tal modo lo schiavo conculcato diventa superiore all'ottuso e truce suo capo. Queste stesse norme di Col. 3, 22-41 che debbono reggere i rapporti tra i cristiani sono ribadite nella Didaché 4, 9-11 (J. P. Audet, p. 338-43).
Ormai l'unica gerarchia è quella dello Spirito di Cristo, fonte di libertà (II Cor. 3, 17). Di questa unica libertà ed eguaglianza, per cui occorre rassegnarsi alle temporanee ingiustizie terrene, l'Apostolo era costante assertore (I Cor. 7, 21-22). Chiunque è battezzato è «fratello diletto» d'ogni altro cristiano, sia pur ricco e potente (Philem. 16): sono infatti parimenti rigenerati quali figli di Dio (Col. 1, 12-14; Gal. 3, 26; 4, 7), ed in Cristo scompare ogni differenza tra lo schiavo e il libero, il capo e il suddito (Col. 3, 11; Gal. 3, 28; I Cor. 12, 13). Questa visione cristiana, aperta anzitutto ai poveri, ai sopraffatti dai «grandi», agli umiliati ed offesi, spezzerà in breve le esteriori catene legali; è l'unica infatti che ha liberato l'uomo dalla schiavitù del mondo con i suoi privilegi e privilegiati, dall'oppressione del potere e della sua pompa con le conseguenti insaziabili cupidigie, dall'assoggettamento alla carne, al peccato e alla morte (Rom. 6, 20). Cristo ci ha tutti egualmente riscattati a caro prezzo (Col. 1, 14; I Cor. 7, 23). Ma, purtroppo, la schiavitù individuale e «di massa» continua ad imperversare illegalmente, anzi si aggrava, perché « lo Spirito del Signore, che è libertà », è soffocato dagli scaltri potenti, arricchiti dal lavoro dei pazientissimi asserviti.
Fonte:Enciclopedia dei Santi
sec. II-III
Al momento della revisione del calendario dei santi tra i titolari delle basiliche romane solo la memoria di santa Cecilia è rimasta alla data tradizionale. Degli altri molti sono stati soppressi perché mancavano dati o anche indizi storici riguardo il loro culto. Anche riguardo a Cecilia, venerata come martire e onorata come patrona dei musicisti, è difficile reperire dati storici completi ma a sostenerne l'importanza è la certezza storica dell'antichità del suo culto. Due i fatti accertati: il «titolo» basilicale di Cecilia è antichissimo, sicuramente anteriore all'anno 313, cioè all'età di Costantino; la festa della santa veniva già celebrata, nella sua basilica di Trastevere, nell'anno 545. Sembra inoltre che Cecilia venne sepolta nelle Catacombe di San Callisto, in un posto d'onore, accanto alla cosiddetta «Cripta dei Papi», trasferita poi da Pasquale I nella cripta della basilica trasteverina. La famosa «Passio», un testo più letterario che storico, attribuisce a Cecilia una serie di drammatiche avventure, terminate con le più crudeli torture e conclusesi con il taglio della testa. (Avvenire)
Patronato: Musicisti, Cantanti
Etimologia: Cecilia = dal nome di famiglia romana
Emblema: Giglio, Organo, Liuto, Palma
Martirologio Romano: Memoria di santa Cecilia, vergine e martire, che si tramanda abbia conseguito la sua duplice palma per amore di Cristo nel cimitero di Callisto sulla via Appia. Il suo nome è fin dall’antichità nel titolo di una chiesa di Roma a Trastevere.
Nel mosaico dell’XI secolo dell’abside della Basilica di Santa Cecilia a Roma oltre a Cristo benedicente, affiancato dai santi Pietro e Paolo, alla sua destra è rappresentata santa Cecilia, posta accanto a papa Pasquale I, che reca in mano proprio questa chiesa da lui fatta edificare nel rione Trastevere: l’aureola quadrata del Pontefice indica che egli era ancora vivo quando venne eseguita l’opera.
A sinistra di Cristo, invece, san Valeriano, sposo di santa Cecilia. La fondazione del titulus Caeciliae risale al III secolo. Il Liber pontificalis narra che nell’anno 545, durante le persecuzioni cristiane, il segretario imperiale Antimo andò ad arrestare papa Vigilio e lo trovò nella chiesa di Santa Cecilia, a dieci giorni dalle calende di dicembre, ovvero il 22 novembre, ritenuto dies natalis della santa. Tuttavia altre fonti storiche (come il Martirologio geronimiano del V secolo) ritengono che questa non sia la data della morte o della sepoltura, ma della dedicazione della sua chiesa.
La Nobildonna romana, benefattrice dei Pontefici e fondatrice di una delle prime chiese di Roma, visse fra il II e III secolo. Venne iscritta al canone della Messa all’inizio del VI secolo, secolo in cui sorse il suo culto. Nel III secolo papa Callisto, uomo d’azione ed eccellente amministratore, fece seppellire il suo predecessore Zeferino accanto alla sala funeraria della famiglia dei Caecilii. In seguito aprì, accanto alla martire, la “Cripta dei Papi”, nella quale furono deposti tutti gli altri pontefici di quello stesso secolo.
Cecilia sposò il nobile Valeriano. Nella sua Passio si narra che il giorno delle nozze la santa cantava nel suo cuore: «conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa». Da questo particolare è stata denominata patrona dei musicisti. Confidato allo sposo il suo voto di castità, egli si convertì al Cristianesimo e la prima notte di nozze ricevette il Battesimo da papa Urbano I. Cecilia aveva un dono particolare: riusciva ad essere convincente e convertiva. Le autorità romane catturarono san Valeriano, che venne torturato e decapitato; per Cecilia venne ordinato di bruciarla, ma, dopo un giorno e una notte, il fuoco non la molestò; si decise, quindi, di decapitarla: fu colpita tre volte, ma non morì subito e agonizzò tre giorni: molti cristiani che lei aveva convertito andarono ad intingere dei lini nel suo sangue, mentre Cecilia non desisteva dal fortificarli nella Fede. Quando la martire morì, papa Urbano I, sua guida spirituale, con i suoi diaconi, prese di notte il corpo e lo seppellì con gli altri papi e fece della casa di Cecilia una chiesa.
Nell’821 le sue spoglie furono traslate da papa Pasquale I nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere e nel 1599, durante i restauri, ordinati dal cardinale Paolo Emilio Sfondrati in occasione dell’imminente Giubileo del 1600, venne ritrovato un sarcofago con il corpo della martire che ebbe l’alta dignità di essere stata sepolta accanto ai Pontefici e sorprendentemente fu trovata in un ottimo stato di conservazione. Il Cardinale commissionò allo scultore Stefano Maderno una statua che riproducesse quanto più fedelmente l’aspetto e la posizione del corpo di santa Cecilia, così com’era stato ritrovato, con la testa girata a tre quarti, a causa della decapitazione e con le dita della mano destra che indicano tre (la Trinità) e della mano sinistra uno (l’Unità); questo capolavoro di marmo si trova sotto l’altare centrale di Santa Cecilia.
Nel XIX secolo sorse il cosiddetto Movimento Ceciliano, diffuso in Italia, Francia e Germania. Vi aderirono musicisti, liturgisti e studiosi, che intendevano restituire onore alla musica liturgica sottraendola all’influsso del melodramma e della musica popolare. Il movimento ebbe il grande merito di ripresentare nelle chiese il gregoriano e la polifonia rinascimentale delle celebrazioni liturgiche cattoliche. Nacquero così le varie Scholae cantorum in quasi tutte le parrocchie e i vari Istituti Diocesani di Musica Sacra (IDMS), che dovevano formare i maestri delle stesse Scholae.
Il tortonese e sacerdote Lorenzo Perosi, che trovò in San Pio X un paterno mecenate, è certamente l’esponente più celebre del Movimento Ceciliano, che ebbe in Papa Sarto il più grande sostenitore. Il 22 novembre 1903, giorno di santa Cecilia, il Pontefice emanò il Motu Proprio Inter Sollicitudines, considerato il manifesto del Movimento.
Autore: Cristina Siccardi
Gli Atti che trattano di questi martiri sono poco attendibili. Infatti solo nel sec. XI o ai primi del XII fu redatta una passio che parla di un Valeriano martire di Forlì. Questa è l'unica fonte che tratta del presunto martire romagnolo e possiamo ritenere che l'autore della passio sia caduto in errore e che il s. Valeriano venerato a Forlì non sia altri che quello di Roma.
Intorno alla metà del sec. XV infatti la festa di s. Valeriano si celebrava a Forlì il 22 novembre: «Dies feriata propter festum S. Sicilie (Cecilia sposa di lui secondo la passio) et Valeriani patroni dictae civitatis et martyris».
Nell'Archivio Notarile di Forlì, fra gli Atti di Filippo d'Asti sono riportati dei Calendari giudiziari, cioè fatti per indicare i giorni festivi e quelli di seduta giudiziaria. In uno di questi calendari si ricordano insieme s. Cecilia e s. Valeriano patrono di Forlì, negli altri si ricorda solo s. Valeriano, ma la data è sempre quella del 22 novembre e mai del 4 maggio. I Bollandisti sulla base della passio ne trattano il 4 maggio.
Autore: Adamo Pasini Fonte: Enciclopedia dei Santi
Oggi begli esempi di santità di martiri, ma anche una sovrana regnante, la Beata Margherita, da evidenziare la profezia che, oltre 500 anni prima, profetizzava della madonna di Fatima, della rivoluzione Russa, dell'esilio dei Savoia in Portogallo.
Seoul, Corea del Sud, 1761 – Seoul, Corea del Sud, 23 novembre 1839
Martirologio Romano: A Seul in Corea, santa Cecilia Yu So-sa, martire, che, vedova, privata dei beni e arrestata a causa della sua fede, fu sottoposta per dodici volte a interrogatorio e percossa fino a spirare, quasi ottuagenaria, in carcere.
Il Concilio Vaticano II, lungi dall’aver abolito il culto dei santi, ha piuttosto sottolineato la chiamata universale alla santità, questa grande realtà di vita improntata allo stile evangelico. Negli ultimi decenni questa riscoperta dimensione di imitazione di Cristo a cui sarebbero chiamati tutti i cristiani di ogni condizione, ha portato al riconoscimento tramite numerose beatificazioni e canonizzazioni anche di numerosi fedeli laici, mentre per lunghi secoli è ben noto come gli unici santi privi di abiti religiosi fossero stati quasi esclusivamente i sovrani di varie dinastie eurepee ed alcuni martiri dei primi secoli.
La santa oggi festeggiata è appunto una laica, vissuta in Corea a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo. Purtroppo, come già per i primi martiri, è assai difficile reperire numerose notizie sul suo conto, in quanto pur costituendo essi la più importante schiera di santi, i cristiani hanno forse sempre ritenuto inutile mandare molti dettagli circa la loro esistenza terrena, quanto piuttosto porre in dovuto risalto l’estrema testimonianza della fede cristiana sino all’effusione del loro sangue.
Cecilia Yu So-sa nacque a Seoul, odierna capitale della Corea del Sud, nel 1761. Donna sposata, suoi figli furono i Santi Paolo Chong Hasang e Jung Hye. Rimasta poi vedova, fu privata di tutti i suoi averi ed incarcerata a causa della sua fede cristiana. Per ben dodici volte venne portata in giudizio ed altrettante fu sottoposta alla fustigazione. Morì infine nel carcere di Bo-jeong il 23 novembre, quasi ottuagenaria.
Cecilia fu beatificata il 5 luglio 1925 ed infine canonizzata da Papa Giovanni Paolo II il 6 maggio 1984 con altri 102 martiri che avevano irrorato con il loro sangue la sua patria coreana. Il gruppo, noto con il nome “Santi Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e compagni”, è festeggiato comunemente dal calendario liturgico latino al 20 settembre.
Autore: Fabio Arduino
m. Roma, 165
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Massimo sulla via Salaria nuova, santa Felicita, martire.
Il più antico documento che ricorda la martire Felicita il Martirologio Geronimiano, il quale, alla data del 23 novembre, ha: "Romae in cimiterio Maximi, Felicitatis" (il cimitero di Massimo è sulla via Salaria Nuova). Questa notizia del Geronimiano è confermata dagli itinerari, i quali indicavano ai pellegrini il sepolcro della martire in quel cimitero, e dalle biografie dei papi che lo avevano restaurato. Un frammento di epitaffio ci fa sapere che due cristiani si erano scelti qui il sepolcro:
Conferma questa notizia il fatto che, al tempo di Gregorio Magno (590-604), tra gli altri olii raccolti dal presbitero Giovanni sui sepolcri dei martiri romani, fu offerto alla regina Teodolinda anche l'olio della lampada che ardeva presso il sepolcro della martire. Egli, tuttavia, tratto in inganno dalla pittura murale, rappresentante Felicita in mezzo a sette figure, credette che qui riposassero con lei i suoi sette figli.
Il Burkitt, contro l'opinione comune, ha preteso dimostrare, senza argomenti convincenti, che la Felicita del Canone romano, non è la compagna di Perpetua, ricordata il 7 marzo, ma la Felicita del 23 novembre.
Felicita è conosciuta comunemente come la madre dei sette fratelli martiri. La sua passio è pervenuta attraverso due testi: il primo, molto breve, è conservato in numerosi messali, il secondo si riallaccia ad una traslazione di reliquie a Benevento ed è un rimaneggiamento senza valore del primo. Secondo la passio più antica, composta tra la fine del sec. IV e l'inizio del sec. V, Felicita, ricca vedova, fu accusata da sacerdoti pagani all'imperatore Antonino. Publio, prefetto di Roma, incaricato dall'imperatore di giudicare la santa, cominciò ad interrogarla da sola, e tuttavia non ottenne alcun risultato. Il giorno dopo fece condurre la madre e i sette figli presso il foro di Marte, ma Felicita esortò i figli a rimanere saldi nella fede. Il giudice se li fece condurre davanti l'uno dopo l'altro: Gennaro, Felice, Filippo, Silano, Alessandro, Vitale e Marziale. Non riuscendo a piegare la loro costanza, li assegnò a diversi giudici incaricati di eseguire la sentenza di morte, che fu eseguita con diversi supplizi. Questo racconto è una imitazione dell'episodio biblico dei sette fratelli Maccabei e non ha alcuna base storica. Gli Acta di Felicita, inoltre, richiamano quelli analoghi di s. Sinforosa e dei suoi sette figli. I sette nomi, dati ai pretesi figli di Felicita, si trovano nella Depositio Martyrum alla data del 10 luglio, senza alcun rapporto di parentela fra loro e con Felicita Poiché questi martiri erano sepolti in quattro cimiteri, l'agiografo ha creduto opportuno di scrivere che la sentenza fu eseguita da quattro giudici. E' da aggiungere che l'autore non dice dove fosse il sepolcro dei martiri e tanto meno il loro giorno anniversario. Damaso, poi, nell'epigrafe in onore dei ss. Felice e Filippo, mostra di ignorare questa parentela e i tre versi che si riferiscono a Felicita sono di origine dubbia.
Sul sepolcro di Felicita, papa Bonifacio I (418-22) edificò una basilica nella quale egli stesso fu sepolto, come indicano il Martirologio Geronimiano (VI sec.) e il Liber Pontificalis. La devozione del papa a Felicita nacque dall'essersi egli rifugiato in quel cimitero ed avere abitato in costruzioni sopra terra durante lo scisma di Eulalio, terminato come egli ritenne, per opera della santa. Nella basilica, s. Gregorio Magno recitò un'omelia nel dies natalis della martire, facendo riferimento alla passio. I resti di un dipinto del sec. VIII, nella stessa catacomba, mostrano il Redentore che dà la corona a Felicita e a sette martiri, quegli stessi che sono stati creduti figli di Felicita.
Presso le terme di Traiano dal lato verso il Colosseo, nel 1812 fu scoperto un oratorio in onore della santa con la sua immagine; qui si recavano le matrone a pregare. Felicita, come attesta l'iscrizione ivi scoperta, posta ai lati del capo, era venerata come protettrice delle donne romane: FELICITAS CULTRIX ROMANARUM.
L'oratorio, di modeste dimensioni, era ornato, nella nicchia dell'altare, da una pittura del sec. V-VI, la quale rappresentava la martire, eretta, in figura di orante, con intorno i suoi sette pretesi figli, e in alto la figura' del Redentore, che tiene nella destra una corona gemmata per cingerle il capo. Quando il dipinto venne alla luce, mostrava a destra, in basso, la figura di un carceriere con la chiave: forse perché si credeva che Felicita fosse stata in carcere in questo luogo, prima di sostenere il martirio. Il De Rossi ritiene che il sito fosse l'abitazione di Felicita: se ciò corrispondesse alla realtà, si spiegherebbe la devozione delle matrone romane per esso.
Il Martirologio Romano commemora Felicita alla data del 23 novembre, con un elogio preso dalla passio.
E' invocata, a causa dei pretesi sette figli, dalle donne che desiderano avere prole.
Autore: Filippo Caraffa Fonte:Enciclopedia dei Santi
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MARTIRIO DI SANTA FELICITA E DEI SUOI SETTE CRISTIANISSIMI FIGLI
La prima accusa alla cristiana Felicita, vedova e madre di sette figli (come Sinforosa di Tivoli), è mossa dalle autorità sacerdotali pagane. Può sembrare strano che l’abbia accolta un imperatore come Marco Aurelio, che aderiva alla filosofia stoica, non senza una venatura di scetticismo per tutte le fedi religiose, ma l’accusa dei pontefici toccava un tasto molto delicato: «Contro la vostra salute questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi!». Sul culto dell’imperatore si scontravano Roma e il cristianesimo e, fin dai tempi di Plinio e Traiano, l’atto di adorazione al sovrano era la condizione indispensabile perché un cristiano venisse prosciolto da un’accusa. Inoltre l’impero di Marco Aurelio fu turbato da guerre, pestilenze e altre calamità che, per i sacerdoti e la folla pagana, erano causati dalla collera degli dèi: l’ostilità dei cristiani al culto tradizionale doveva quindi essere punita. Felicita e i figli erano di famiglia nobile, tanto che a uno dei giovani il prefetto Publio, il quale dirige il processo, promette di farlo diventare «amico degli Augusti». La condanna imperiale a morire sotto diversi giudici (e quindi con diversi supplizi) mirava forse a dare un esempio agli abitanti dei vari quartieri di Roma.
Alcuni studiosi hanno messo in dubbio l’autenticità degli atti, considerando il racconto un’imitazione di quello dei sette fratelli Maccabei (II libro dei Maccabei 1,1-41), ma un documento scritto del IV secolo relativo alla loro sepoltura e alcuni ritrovamenti archeologici sembrano confermarne l’autenticità. In una omelia, pronunciata nella basilica di santa Felicita, San Gregorio il Dialogo, papa di Roma, fa riferimento ad un antico documento, le “Gesta emendatoria”, contenente la storia dei nostri martiri, e li ricorda in un suo commento all’Evangelo di Matteo (12, 47).
La Chiesa Ortodossa li onora il 25 gennaio. Nella Chiesa di Roma Antica, nel IV secolo, la loro festa veniva celebrata, con molta solennità e grande partecipazione dei fedeli, il 10 luglio, chiamato dalla gente “dies martyrum”.
I - Ai tempi dell’imperatore Antonino scoppiò una rivolta dei pontefici e fu arrestata e trattenuta in carcere la nobildonna Felicita con i suoi sette cristianissimi figli. Permanendo nello stato di vedovanza, aveva consacrato a Dio la sua castità e, dedicandosi giorno e notte alla preghiera, offriva alle anime caste uno spettacolo altamente edificante. I pontefici allora, vedendo che, per opera sua, progrediva la divulgazione del nome cristiano, la calunniarono all’imperatore dicendo: «Contro la vostra salute questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi! Se non venererà gli dèi, sappia la pietà vostra che i nostri dèi si adireranno talmente da non poter essere placati con nessun mezzo».
Allora l’imperatore Antonino ingiunse a Publio, prefetto della città, di costringerla, insieme con i suoi figli, a mitigare con i sacrifici le ire dei loro dèi. Pertanto Publio, prefetto della città, fece venire al suo cospetto la donna in udienza privata e, pur invitandola al sacrificio con blande parole, le minacciava la morte tra i supplizi. Felicita gli rispose: «Non potrò né cedere alle tue blandizie né piegarmi alle tue minacce. Ho infatti lo Spirito santo che non permette che io sia vinta dal demonio; pertanto sono sicura che ti vincerò da viva e, se sarò uccisa, meglio ancora ti vincerò da morta».
Replicò Publio: «Disgraziata, se per te è dolce morire, fa vivere almeno i tuoi figli!».
Rispose Felicita: «I miei figli vivranno, se non sacrificheranno agli idoli; se invece commetteranno un delitto così grande, andranno incontro alla morte eterna».
II - Il giorno dopo Publio sedette nel foro di Marte, mandò a chiamare Felicita con i figli e le disse: «Abbi pietà dei tuoi figli, giovani retti e nel fiore dell’età!».
Rispose Felicita: «La tua misericordia è empietà e la tua esortazione crudeltà» e, rivolta ai figli, disse loro: «Mirate al cielo, o figli, e levate in alto lo sguardo; là vi attende Cristo con i suoi santi. Combattete per le vostre anime e mostratevi fedeli nell’amore di Cristo!».
Udendo queste parole, Publio la fece schiaffeggiare, dicendo: «Hai osato, in presenza mia, dare codeste esortazioni, affinché disprezzino i comandi dei nostri sovrani?».
III - Quindi chiamò il primo dei figli di lei, di nome Gennaro, e, promettendogli abbondanza di beni terreni,, parimenti gli minacciava le frustate, se si fosse rifiutato di sacrificare agli idoli. Gennaro rispose: «Cerchi d’indurmi alla stoltezza, ma la sapienza di Dio mi protegge e mi farà superare tutte queste prove».
Subito il giudice lo fece percuotere con le verghe e rinchiudere in carcere. Quindi si fece condurre il secondo figlio, di nome Felice. Mentre Publio lo esortava a immolare agli idoli, il giovane dichiarò con fermezza: «Uno solo è il Dio che adoriamo, a cui offriamo il sacrificio della pia devozione. Guardati dal credere che io o qualcuno dei miei fratelli deviamo dalla strada dell’amore di Cristo. Ci si preparino pure le frustate, pendano sul nostro capo decisioni di sangue. La nostra fede non può essere né vinta né cambiata! ».
Mandato via anche questo, Publio si fece condurre il terzo figlio, di nome Filippo. Quando gli disse: «L’imperatore (Marco Aurelio) Antonino, signore nostro, vi ha comandato d’immolare agli dèi onnipotenti», Filippo rispose: «Codesti non sono né dèi né onnipotenti, ma simulacri vani, miseri e insensibili e quelli che vorranno sacrificare loro correranno eterno pericolo».
Fatto allontanare Filippo, Publio si fece condurre il quarto figlio, di nome Silvano, a cui disse così: «Come vedo, d’accordo con la vostra pessima madre, avete preso la decisione d’incorrere tutti nella condanna, disprezzando gli ordini dei sovrani».
Rispose Silvano: «Se temeremo la morte temporale, incorreremo nel supplizio eterno. Ma poiché sappiamo bene quali premi siano riservati ai giusti e quale pena sia stabilita per i peccatori, tranquillamente disprezziamo la legge umana per rispettare i precetti del Signore. Chi sprezza gli idoli, infatti, e obbedisce al Dio onnipotente, troverà la vita eterna, ma chi adora i demoni andrà con essi alla perdizione e al fuoco eterno».
Fatto allontanare Silvano, si fece venire vicino Alessandro, al quale disse: «Se non sarai ribelle e farai ciò che più desidera il nostro sovrano, si avrà riguardo per la tua età e per la tua esistenza che non è ancora uscita dall’infanzia. Quindi, sacrifica agli dèi, per poter diventare amico degli Augusti e conservare la vita e il loro favore».
Rispose Alessandro: «Io sono servo di Cristo. Lo confesso con le labbra, lo conservo nel cuore, lo adoro incessantemente. L’età tenera che tu vedi in me ha la saggezza degli anziani, quando venera il Dio unico. Invece i tuoi dèi con i loro adoratori saranno condannati alla morte eterna».
Fatto allontanare Alessandro, fece venire a sé il sesto, Vitale, a cui disse: «Forse, almeno tu desideri vivere e non andare incontro alla morte». Rispose Vitale: «Chi desidera vivere meglio? Chi adora il vero Dio o chi desidera avere propizio il demonio?».
Disse Publio: «E chi è il demonio?». Rispose Vitale: «Tutti gli dèi dei gentili sono demoni e tutti coloro che li adorano».
Fatto andar via anche questo, fece entrare il settimo, Marziale, e gli disse: «Crudeli contro voi stessi per vostra volontà, disprezzate le leggi degli Augusti e vi ostinate a rimanere nel vostro danno».
Rispose Marziale: «O se sapessi quali pene sono destinate ai cultori degli dèi! Ma Iddio attende ancora a mostrare la sua collera contro di voi e contro i vostri idoli. Infatti, tutti coloro che non riconoscono Cristo come vero Dio saranno mandati al fuoco eterno».
Allora Publio fece allontanare anche il settimo dei fratelli e spedì all’imperatore una relazione scritta del processo.
IV - L’imperatore li inviò a giudici diversi, per farli morire sotto diversi supplizi. Uno dei giudici fece morire il primo dei fratelli con fruste di piombo. Un altro uccise a furia di bastonate il secondo e il terzo, un altro ancora scaraventò il quarto da un precipizio. Un altro dei giudici fece eseguire la pena capitale contro il quinto, il sesto e il settimo, un altro infine fece decapitare la loro madre. Così, morti per diversi supplizi, furono tutti vincitori e martiri di Cristo e, trionfando con la madre, volarono in cielo a ricevere i premi che avevano meritato. Essi che, per amore di Dio, avevano disprezzato le minacce degli uomini, le pene e i tormenti, divennero nel regno dei cieli amici di Cristo, che, con il Padre e lo Spirito santo, vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.
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Santa Felicita e i sette santi martiri
La martire Santa Felicita, comunemente, nella tradizione, è stata associata al culto dei Santi Martiri Felice e Filippo (sepolti nel cimitero di Priscilla) Vitale, Marziale e Alessandro (seppelliti nel cimitero dei Giordani) Silvano (o Silano) in quello di Massimo e Gennaro in quello di Pretestato, in quanto ritenuta loro madre e associati tutti con lei nel martirio. Anche il Martirologio riporta la congiunta memoria di questi martiri in un solo giorno, mentre pone la memoria di Santa Felicita il 23 novembre presso il cimitero di Massimo.
A Bagnoli del Trigno, da tempo immemorabile, si celebra il martire San Vitale, ritenuto uno dei figli di Santa Felicita, di cui si conservano alcune antiche reliquie. Su incarico del parroco, don Mauro di Domenica, lo storico e cancelliere della Diocesi di Trivento, Don Erminio Gallo, ha investigato la questione, per fare luce e chiarezza sulla vicenda del martirio della santa e dei suoi preziosi figli, consentendo di gettare lo sguardo su un mondo, a noi oggi ormai poco noto, sul culto e sulla venerazione dei martiri nei primi secoli della cristianità ed anche sul simbolismo religioso vivente a loro attributo, con il collegamento delle loro vite a passi precisi della Sacra Scrittura, influenzati dalla rilettura storica di essi generata in seno alla comunità cristiana relativa al tempo di persecuzione da lei vissuto come attualizzazione della parola di vita nel suo oggi concreto.
E' questo, infatti, il caso del collegamento di Santa Felicita ai sette santi martiri nella rilettura religiosa fornita dalla comunità cristiana, in quel tempo veramente concentrata nel collegare i libri dei Maccabei, che raccontavano la lotta dell'ultimo Israele contro l'idolatria e le persecuzioni del paganesimo contro i discendenti di Alessandro Magno , al tempo storico di persecuzione vissuto dalla Chiesa come il ripresentarsi di quella lotta storico-spirituale nel suo oggi per l'affermazione della Fede.
Don Erminio, da buon investigatore, apre prima lo sguardo sulle persecuzioni subite dai cristiani da Nerone ad Antonino Pio, periodo del martirio di Felicita e dei Sette Santi Martiri, analizzandone le ragioni e il fondamento giuridico, quindi passa all'analisi delle fonti documentarie, tra cui, oltre ai sacramentari, ai calendari e ai martirologi, esamina in modo particolare gli "Atti sinceri de' primi martiri della Chiesa Cattolica", raccolti dal P. Ruinart, riportanti la traduzione italiana, seppur del Settecento, della passione di Felicita e la "Collezione di leggende inedite scritte nel buon secolo della lingua toscana" a cura di Francesco Zambrini e Giovanni Bastia, dove si trova la trascrizione del martirio di Felicita e dei sette fratelli, tratta da un codice della biblioteca Magliabechiana, e li mette in sinossi con il libro apocrifo 4 Maccabei, dimostrando come esso abbia avuto un influsso notevole nella rilettura storica del martirio della santa e dei sette martiri presi in esame.
Questo capitolo è fondamentale per far capire come il martirio di Felicita e dei sette santi martiri sia stato elevato nella tradizione della Chiesa a simbolo spirituale/allegorico della lotta di una famiglia-comunità la Chiesa contro il paganesimo, l'idolatria, il rifiuto di Dio, rendendo Felicita e i sette un'unica famiglia come la Chiesa, dove la Madre sostiene i figli nella testimonianza della Fede con la luce gloriosa della promessa della vita eterna, che vale la lotta contro lo spirito di vanità e di falsa felicità umana promesso dal mondo.
Il terzo ed ultimo capitolo, quindi, nel descrivere i cimiteri che ospitarono i resti di Felicita e dei sette fratelli, fa chiaramente comprendere l'improbabilità storica del collegamento del martirio come unico evento subito da un'unica famiglia di Felicita e dei Sette Martiri, e dimostra altamente improbabile qualsiasi presunto collegamento storico familiare tra di loro e soprattutto il fatto di essere stati martirizzati tutti insieme. Segue quindi la ricca appendice documentaria, che si raccomanda di leggere con attenzione, dove Don Erminio da buon storico dà le prove definitive e chiare a fondamento della sua indagine.
Un'ultima considerazione va fatta : con la nostra logica potremmo pensare che l'operazione effettuata dalla Chiesa sul martirio di Santa Felicita e dei Sette Martiri possa essere una falsificazione storica, in realtà, proprio attraverso lo studio di Don Gallo, emerge tra le righe il senso e la percezione del culto dei Santi Martiri nella Chiesa : essi e la loro vicenda sono rilette alla luce della Fede per diventare esempi attualizzanti della viva Parola di Dio, che illumina la vita della Chiesa, e sono presentati come eventi attualizzanti loro stessi della storia della salvezza, da imitare spiritualmente per vivere uniti a Cristo. Qui vi è il fondamento del loro culto: la loro destoricizzazione e la lettura allegorico/spirituale della loro vita, che li rende esempi viventi della storia della salvezza, ne impedisce proprio il culto idolatrico e li pone come esempi del Cristo stesso, che è l'unico veramente da adorare e che opera ed agisce in loro e nella loro storia.
Il libro sarà presentato dall'autore il giorno 17 agosto 2016 alle ore 19.00 presso la Sala Conferenze del Santuario Madonna di Fatima in Bagnoli del Trigno (IS).
Autore: DON FRANCESCO MARTINO
Pinerolo, Torino, 1390 - Alba, Cuneo, 23 novembre 1464
La beata Margherita di Savoia è conosciuta con l'appellativo di «grande». Nata nel 1390 a Pinerolo rimase presto senza genitori e passò insieme alla sorellina Matilde sotto la tutela dello zio Ludovico, il quale, per mancanza di eredi, succedeva al defunto principe Amedeo. Per risolvere le lunghe discordie tra il Piemonte e il Monferrato lo zio la destinò in sposa al marchese di Monferrato. Lei acconsentì, nonostante, anche grazie alle parole di Vincenzo Ferrei, pensasse già al chiostro. Alla morte del marito si ritirò nel palazzo di Alba, dove, con l'approvazione di Papa Eugenio IV, nel 1441, fondò il monastero di Santa Maria Maddalena. Vestito l'Abito del Terz'Ordine Domenicano, più tardi abbracciò la Regola più austera delle Monache dell'Ordine. Morì nel 1464. (Avvenire)
Etimologia: Margherita = perla, dal greco e latino
Emblema: Tre frecce, Corona deposta
Martirologio Romano: Ad Alba in Piemonte, beata Margherita di Savoia, che, rimasta vedova, si consacrò a Dio nel monastero delle monache dell’Ordine dei Predicatori da lei fondato.
La Beata Margherita di Savoia, da non confondere assolutamente con l’omonima regina d’Italia vissuta ben cinque secoli dopo, era imparentata con le principali famiglie reali d’Europa: suo padre era il conte Amedeo di Savoia-Acaja, mentre sua madre era una della sorelle di quel Clemente VII che durante il Grande Scisma si dichiarò papa ad Avignone. Margherita si meritò addirittura l’appellativo di “Grande”. Fu infatti testimone d’evangelica grandezza nei differenti stati in cui Dio la mise alla prova: di figlia, di sposa, di sovrana ed infine di religiosa.
Nata a Pinerolo tra il 1382 ed il 1390, sin dalla sua giovinezza fu l’immagine del candore ed una precoce saggezza le fece aborrire tutto ciò che invece il mondo è solito amare. Rimasta ben presto orfana, passò con la sorellina Matilde sotto la tutela dello zio Ludovico, che per mancanza di eredi maschi diretti succedette al defunto Principe Amedeo. Primo pensiero di Ludovico di Savoia fu di porre fine alle lunghe discordie intercorse tra Piemonte e Monferrato e da ambe le parti non si guardò che a Margherita come a pegno sicuro di pace duratura. Da decenni, infatti, il Piemonte era sconvolto per il suo possesso dalle guerre tra i Savoia, i marchesi di Saluzzo, i marchesi del Monferrato ed i Visconti di Milano. La giovane principessa, che in cuor suo già era orientata al chiostro, riconfermata ancora di più nel suo proposito da San Vincenzo Ferreri, a quel tempo predicatore in terra piemontese.
Con cuore assai generoso Margherita sacrificò i suoi più cari ideali per il bene comune e la pace fra le due zone del Piemonte, divenendo dunque sposa nel 1403 del Marchese di Monferrato, Teodoro II Paleologo, molto più anziano di lei. Nessun miraggio terreno riuscì però a sedurre la giovane marchesa, che iniziò la nuova vita di sovrana con i piedi per terra ma con il cuore fisso in cielo, atteggiamento tipico del cristiano. Dopo essere stata la saggia consigliera di suo marito e madre tenerissima dei sudditi, rimase vedova nel 1418.
Governò allora il marchesato in prima persona quale reggente, sino alla maggiore età del figliastro Giovanni. Si ritirò poi nel palazzo di Alba di sua proprietà insieme alle sue più fedeli damigelle, per dedicarsi ad opere di carità, rifiutando la proposta di matrimonio avanzatale da Filippo Maria Visconti. Divenne terziaria domenicana e fondò poi una congregazione, prima di terziarie e poi nel 1441, con l’approvazione di Papa Eugenio IV, di monache. Nacque così il Monastero di Santa Maria Maddalena in Alba. La nuova vita religiosa di Margherita non fu però esente da travagli e difficoltà. Un giorno ebbe una visione di Cristo, che le porse tre frecce recanti ciascuna una scritta: malattia, calunnia e persecuzione. Infatti nel periodo seguente ebbe a patire tutti e tre i tormenti indicati.
Afflitta da una salute assai cagionevole, fu accusata d’ipocrisia, poi di tirannia nei confronti delle consorelle. Inoltre un pretendente da lei respinto sparse in giro la voce che il monastero fosse un centro ove si propugnava l’eresia dei valdesi. Il frate che era loro guida spirituale fu arrestato e, quando Margherita giunse al castello per chiederne il rilascio, il portone le fu chiuso violentemente in faccia, fratturandole anche una mano. Nonostante tutte queste difficoltà, per circa venticinque anni condusse una vita ritirata di preghiera, studio e carità. La Biblioteca Reale di Torino conserva un volume contenente le lettere di Santa Caterina da Siena, copiate e rilegate “per ordine della nostra illustre signora, Margherita di Savoia, marchesa del Monferrato”.
Proprio ad imitazione della santa Dottore della Chiesa, che durante la cattività avignonese si era spesa anima e corpo per il ritorno a Roma del pontefice, Margherita si adoperò intensamente affinché suo cugino Amedeo VIII, primo duca di Savoia, eletto antipapa con il nome di Felice V dal Concilio di Basilea, recedesse dalla sua posizione. Così avvenne: Felice V abdicò e repose la tiara, riconoscendo come unico capo della Chiesa il papa allora legittimamente regnante a Roma. Tornato dunque ad essere Amedeo di Savoia, continuò a guidare l’Ordine Mauriziano da lui fondato nel monastero sulle rive del lago di Ginevra ed il Papa lo ricompensò per aver ricomposto l’unità della Chiesa nominandolo cardinale e legato pontificio per gli stati sabaudi e dintorni. Il Cardinale Amedeo morì poi in fama di santità ed ancora oggi riposa nella Cappella della Sindone, adiacente alla cattedrale torinese.
Tornando invece a Margherita ed al suo monastero di clausura, degno di nota è ancora un misterioso avvenimento la cui prova documentaria è stata resa pubblica solo nell’anno 2000: nell’ormai lontano 16 ottobre 1454, circondata da tutte le sue consorelle e dal confessore padre Bellini, agonizzava una suora. Presente anche la superiora e fondatrice del convento, la Beata Margherita appunto, durante questa triste circostanza si verificò il fatto straordinario di cui recitano così i documenti: “Avvenne la visione profetica avuta e riferita agli astanti in punto di morte dall’agonizzante Suor Filippina alla quale Nostra Signora Santissima, Santa Caterina da Siena, il Beato Umberto di Savoia e l’Abate Guglielmo di Savoia, predissero avvenimenti prosperi e funesti per la Casa di Savoia, fino ad un tempo futuro imprecisato di terribili guerre, di esilio in Portogallo di un altro Umberto di Savoia e di un mostro proveniente dall’Oriente con grande sofferenza per l’Umanità, mostro che sarà però distrutto da Nostra Signora del Santo Rosario di Fatima se tutti gli esseri umani la invocheranno con grande contrizione”. Ogni lettore non sprovveduto potrà ben scorgere fra queste righe delle allusioni ai tragici avvenimenti del XX secolo ed al messaggio poi trasmesso anche dalla Madonna nelle apparizioni di Fatima. Questa Suor Filippina era in realtà una cugina di Margherita, dunque di sangue sabaudo, sfuggita ad una congiura contro la sua famiglia. La sua vicenda sarebbe però assai lunga complessa e snaturerebbe l’oggetto della presente.
Margherita di Savoia morì ad Alba il 23 novembre 1464, circondata dall’affetto e dalla venerazione delle sue figlie spirituali. Il pontefice piemontese San Pio V, già religioso domenicano e priore del convento di Alba, nel 1566 permise per Margherita di Savoia un culto locale riservato al Monastero di Alba, mentre Papa Clemente IX la beatificò solennemente il 9 ottobre 1669, fissandone la memoria al 27 novembre per tutto l’Ordine Domenicano, oggi celebrata anche da alcune diocesi piemontesi. Il Martyrologium Romanum la festeggia invece al 23 novembre, anniversario della nascita al cielo della beata. Il suo corpo incorrotto è ancor oggi oggetto di venerazione nella chiesa di Santa Maria Maddalena ad Alba, anche dopo il trasferimento definitivo nel monastero in una nuova sede avvenuto nel 1956.
Margherita di Savoia, grande ed attiva figura femminile nel Piemonte del suo tempo, fautrice di pace e di concordia fra le varie zone della regione, meriterebbe a pieno titolo di essere onorata, accanto al protovescovo vercellese Sant’Eusebio, quale celeste patrona del Piemonte, nonché la canonizzazione affinché si possa universalmente guardare a lei quale virtuoso modello di sposa, di madre, di sovrana e di religiosa.
PREGHIERA
O Dio, che hai chiesto alla Beata Margherita di Savoia
di rinunciare alle ricchezze del mondo
per vivere la povertà evangelica,
concedici di seguire da vicino Cristo povero
per essere arricchiti della sua grazia e della sua gloria.
Egli è Dio e vive e regna con Te,
nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Autore: Fabio Arduino
Note: Per informazioni e richiesta di immagini:
Monache Domenicane "Beata Margherita di Savoia"
Strada Serre 10 - 12051 Alba (CN) Tel. 0173440182
Mail: priora@monasterodomenicane.it
+ 704 circa
Santa Enfleda era una principessa della Northumbria, figlia del re martire Sant’Edwin e di sua moglie Etelburga. Battezzata da San Paolino, protovescovo di York, nella domenica di Pentecoste del 626, alla morte del padre nella battaglia di Hatfield Chase nel 633 si trasferì nel Kent, terra d’origine della madre, con quest’ultima ed il vescovo Paolino.
Nel 642 fece poi ritorno in Northumbria e convolò a nozze con il re Oswiu di Vernicia, nel speranzoso intento di riunificate i due rami della monarchia di tale regione, attribuendosi il ruolo di protettrice della cristianità. Nel 651 suo marito assassinò il cugino Sant’Oswin e ad Enfleda non restò che persuaderlo a fondare il monastero Gilling, in espiazione alla sua colpa. Sebbene educata secondo la tradizione celtica, appoggiò San Vilfrido nel calcolo della Pasqua secondo il metodo romano.
L’iniziale appoggio di Oswin alla fazione celtica, comportante la doppia celebrazione della Pasqua alla corte reale, portò infine ad un decisiva crisi della Chiesa indigena e sfociò nella convocazione del sinodo di Whitby. Riconoscente per il suo sostegno alla data latina della Pasqua, il pontefice Vitaliano donò ad Enfleda una croce d’oro, probabilmente ricavata da alcune catene di San Pietro. Rimasta vedova nel 670, entrò nell’abbazia di Whitby, quale discepola della badessa Santa Ilda, subentrando poi a lei nella carica. Più tardi toccò poi anche a sua figlia Santa Elfleda succederle. Sotto la guida di Enfleda il monastero si avvicinò sempre più alle posizioni della Chiesa di Roma.
Proprio in tale monastero fu seppellito Oswiu e la moglie vi fece traslare anche le spoglie di suo padre. Enfleda morì verso l’anno 704 e fu sepolta accanto al marito, ma sfortunatamente i danesi cancellarono ogni tracca del primitivo culto tributatole. Le reliquie della santa, secondo Guglielmo di Malmesbury, furono comunque tratte in salvo e trasportate a Glastorbury con quelle di altri santi della Northumbria.
Autore: Fabio Arduino
+ Tonchino, Annam, Cocincina (Vietnam), dal 1745 al 1862
Il cristianesimo giunse in Vietnam sul finire del secolo XVI, ma fu continuamente osteggiato dai regnanti locali tanto che, tra i secoli XVII e XIX, si susseguirono più di 50 editti contro i cristiani, che provocarono l’uccisione di circa 130 mila fedeli. La persecuzione toccò il suo acme sotto il regno di Tu-Duc (1847-1883): per i nativi era difficile dissociare la nuova fede dalla politica coloniale francese che pretendeva di impadronirsi del paese. I missionari venivano braccati a pagamento e uccisi sul luogo stesso dove venivano arrestati; ai catechisti vietnamiti veniva impresso a fuoco sul volto la scritta: «Falsa religione». I semplici fedeli avevano salva la vita solo se calpestavano la croce; altrimenti subivano supplizi di ogni genere inventati con fantasia feroce. In ogni caso, i nuclei familiari cristiani venivano smembrati e i congiunti erano deportati in regioni diverse, privati di ogni proprietà e di ogni legame religioso. Nel 1988 vari gruppi di martiri vietnamiti, beatificati dai precedenti pontefici, sono stati unificati in un solo gruppo e canonizzati da papa Giovanni Paolo II che li ha anche dichiarati «Patroni del Vietnam». Vi sono compresi: 8 vescovi, 50 sacerdoti, 59 laici (tra cui medici, militari, molti padri di famiglia e una mamma). A rappresentarli tutti, il Messale Romano nomina Andrea Dung-Lac, prima catechista e poi sacerdote, che riscuote in Vietnam una particolare devozione. Di un altro martire (Paolo Le-Bao-Tinh) il Breviario riporta oggi un brano di lettera dove si legge: «In mezzo a questi tormenti, che di solito piegano e spezzano gli altri, per la grazia di Dio sono pieno di gioia e letizia perché non sono solo, ma Cristo è con me».
Martirologio Romano: Memoria dei santi Andrea Dung Lac, sacerdote, e compagni, martiri. Con un’unica celebrazione si onorano centodiciassette martiri di varie regioni del Viet Nam, tra i quali otto vescovi, moltissimi sacerdoti e un gran numero di fedeli laici di entrambi i sessi e di ogni condizione ed età, che preferirono tutti patire l’esilio, il carcere, le torture e l’estremo supplizio piuttosto che recare oltraggio alla croce e rinnegare la fede cristiana.
La storia del cattolicesimo in Vietnam, iniziò nel secolo XVI con padre Alessandro de Rhodes, missionario francese, considerato il primo apostolo di questa giovane Chiesa asiatica, allora divisa in tre distinte regioni: Tonchino, Annam e Cocincina.
Ma dal 1645 quando padre de Rhodes fu espulso, ci fu tutto un sopravvenire di persecuzioni, alternate da periodi di pace, in cui i missionari di varie Congregazioni si stabilizzavano nelle regioni, rincuorando i fedeli e soprattutto istituendo le ‘Case di Dio’ per la formazione del clero locale e dei catechisti.
Dal 1645 al 1886, si ebbero ben 53 editti contro i cristiani con la morte di circa 113.000 fedeli. Durante il regno di Minh-Manh (re dal 1821), la persecuzione divenne spietata, condannando a morte anche chi osava solo nascondere i cristiani; altro re particolarmente contrario fu Tuc-Dúc che regnò dal 1847 al 1883, il quale profondamente avverso alla politica coloniale francese, odiava tutto ciò che fosse europeo, non distinguendo la politica dalla religione; stabilì che chi collaborava alla cattura di un missionario riceveva 300 once d’argento, mentre il missionario, dopo avergli spaccato il cranio, doveva essere gettato nel fiume.
I sacerdoti locali ed i catechisti stranieri venivano sgozzati, mentre ai catechisti locali veniva impressa sulla guancia la scritta “Ta dao” che significa “falsa religione”, additandoli così al pubblico disprezzo; i semplici fedeli cristiani potevano aver salva la vita se calpestavano la croce davanti al giudice.
Inoltre davanti alla fermezza nella fede dei cristiani, ne ordinò la dispersione, separando i mariti dalle mogli ed i figli dai genitori, esiliandoli in regioni lontane in mezzo ai pagani, confiscando tutti i loro beni.
Di questa miriade di martiri, eroi della fede, la Chiesa ne ha beatificati un certo numero negli anni: 1900 da Leone XIII, 1906 e 1909 da Pio X, 1951 da Pio XII; di questi 117 sono stati proclamati santi da papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988, così suddivisi: 8 vescovi, 50 sacerdoti, 59 laici; 96 sono vietnamiti, 11 spagnoli, 10 francesi; fra i laici vi sono 16 catechisti, una mamma, 4 medici, 6 militari, molti padri di famiglia.
Il capolista dei 117 martiri è Andrea Dung-Lac prima catechista e poi sacerdote vietnamita. Nacque nel 1795 da genitori pagani ma così poveri che se ne disfecero volentieri vendendolo ad un catechista, visse alla missione di Vinh-Tri, dove fu battezzato, istruito e diventando anche catechista; continuò gli studi teologici e il 15 marzo 1823 fu consacrato sacerdote, nominato parroco in varie zone, alla fine fu arrestato più volte durante la persecuzione del re Minh-Manh, ogni volta fu riscattato presso i mandarini, dai cristiani locali, continuando, pericolosamente per lui, l’apostolato fra i fedeli e amministrando i sacramenti.
Arrestato ancora una volta il 10 novembre 1839 dal sindaco di Ké-Song, fu rilasciato dietro il pagamento di 200 pezze d’argento raccolte fra i cristiani, ma mentre attraversava il fiume in barca per allontanarsi, ebbe delle difficoltà per cui fu aiutato a scendere a terra sull’altra sponda; chi l’aiutò era il segretario del prefetto che riconosciutolo esclamò: “Ho preso un maestro di religione!”.
Condotto nella prigione di Hanoi il 16 novembre 1839, fu sottoposto a snervanti interrogatori e invitato più volte ad apostatare e calpestare la croce, ma essendo restato fermo nella sua fede venne condannato alla decapitazione, sentenza eseguita il 21 dicembre 1839.
È stato posto come capolista nel calendario liturgico, sia per il culto che gode nel suo Paese, sia per l’esempio luminoso dato durante la sua vita. Gli altri 116 santi martiri nel Tonchino (Vietnam) hanno ognuno una storia edificante del loro martirio, compiutasi in luoghi e date diverse, ma accomunati nella gloria dei santi. La comune festa liturgica dei 117 martiri del Tonchino (Vietnam), fu fissata al 24 novembre, con memoria singola per alcuni di essi, specie per quelli appartenenti a Congregazioni Missionarie.
Segue un elenco dei coniugi tra i 117 santi martiri in base alle date di martirio:
Antonio Nguyen Dich, laico sposato
+ 12 agosto 1838
Simone Phan Dac Hoa, medico, sindaco e padre di famiglia
+ 12 dicembre 1840
Agnese Le Thi Thanh (De), madre di famiglia
+ 12 luglio 1841
Matteo Le Van Gam, laico sposato
+ 11 maggio 1847
Michele Ho Dinh Hy, laico sposato
+ 22 maggio 1857
Domenico Ph?m Tr?ng (An) Kham, laico sposato e Terziario Domenicano
Giuseppe Pham Trong Ta, laico sposato e Terziario Domenicano
Luca Pham Trong (Cai) Thin, laico sposato, figlio di Domenico Pham e Terziario Domenicano
+ 13 gennaio 1859
Emanuele Le Van Phung, laico sposato
+ 31 luglio 1859
Matteo Nguyen Van Dac (Phuong), laico sposato
+ 26 maggio 1861
Giuseppe Tuan, padre di famiglia
+ 7 gennaio 1862
Lorenzo Ngon, laico sposato
+ 22 maggio 1862
Domenico Toai, laico sposato
Domenico Huyen, laico sposato
+ 5 giugno 1862
Pietro Thuan, laico sposato
Vincenzo Duong, laico sposato
+ 6 giugno 1862
Domenico Nguyen, laico sposato
Domenico Mao, laico sposato
+ 16 giugno 1862
Pietro Da, laico sposato
+ 17 giugno 1862
Autore: Antonio Borrelli
Carissimi, avevo iniziato questo lavoro di raccolta delle vite dei santi sposi proprio in questo anniversario dei Beati coniugi Beltrame Quattrocchi che, con pessima scelta, si è deciso di celebrarli separatamente (nei giorni delle rispettive morti il 26 agosto e 9 novembre), mentre la sola Diocesi di Roma li commemora ancora il 25 novembre, anniversario del loro matrimonio come nei primi anni si era fatto.
Loro non hanno fondato congregazioni. Non sono partiti missionari per terre lontane. Semplicemente hanno vissuto il loro matrimonio come un cammino verso Dio facendosi santi! Non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso.
In questo cammino di studio e di raccolta di vite di santi sposi abbiamo scoperto insieme storie bellissime in cui spesso l'amore umano è stato il tramite con cui Dio ha accompagnato i tanti sposi all'Amore che li ha condotti alla via di Santità. Ma il lavoro certamente non è finito, ci sono ancora tanti santi che non hanno una data sul calendario perché non si sa la data di morte o per altri motivi per i quali la Congregazione dei Santi non ha assegnato un giorno celebrativo, tanti Servi di Dio e Venerabili, tanti che per sviste o stanchezza o ignoranza non ho saputo reperire. Ci sono certamente tanti errori e sviste… Continuerò perciò a cercare altri santi sposati e, quindi, continuerà ad aggiornare questo lavoro.
Mi piacerebbe avere da Voi qualche segnalazione, qualche cenno, una "carezza" via mail (info@oasicana.it), che indichi un gradimento, non per ripagarmi (lo hanno fatto i Santi stessi che mi hanno accompagnato in questi anni dandomi già tanto), ma per avere un riscontro a questo lavoro che spero sia stato, almeno un po’, utile.
Ma torniamo ai nostri Santi...
Domenica, 21 ottobre 2001
Giornata Missionaria Mondiale
1. "Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?" (Lc 18,8).
L'interrogativo, col quale Gesù conclude la parabola sulla necessità di pregare "sempre, senza stancarsi" (Lc 18,1), scuote il nostro animo. E' una domanda a cui non fa seguito una risposta: essa, infatti, intende interpellare ogni persona, ogni comunità ecclesiale, ogni generazione umana. La risposta deve darla ciascuno di noi. Cristo vuole ricordarci che l'esistenza dell'uomo è orientata all'incontro con Dio; ma proprio in questa prospettiva egli si domanda se al suo ritorno troverà anime pronte ad attenderlo, per entrare con lui nella casa del Padre. Per questo a tutti dice: "Vegliate, perché non sapete né il giorno né l'ora" (Mt 25,13).
Cari Fratelli e Sorelle! Carissime famiglie! Oggi ci siamo dati appuntamento per la beatificazione di due coniugi: Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi. Con questo solenne atto ecclesiale noi intendiamo porre in evidenza un esempio di risposta affermativa alla domanda di Cristo. La risposta è data da due sposi, vissuti a Roma nella prima metà del secolo ventesimo, un secolo in cui la fede in Cristo è stata messa a dura prova. Anche in quegli anni difficili i coniugi Luigi e Maria hanno tenuto accesa la lampada della fede - lumen Christi - e l'hanno trasmessa ai loro quattro figli, dei quali tre sono oggi presenti in questa Piazza. Carissimi, di voi così scriveva vostra madre: "Li allevammo nella fede, perché conoscessero Dio e lo amassero" (L'ordito e la trama, p. 9). Ma quella vivida fiamma i vostri genitori l'hanno trasmessa anche agli amici, ai conoscenti, ai colleghi... Ed ora, dal Cielo, la donano a tutta la Chiesa.
Insieme con i parenti e gli amici dei nuovi Beati, saluto le Autorità religiose intervenute a questa celebrazione, a cominciare dal Cardinale Camillo Ruini e dagli altri Signori Cardinali, Arcivescovi e Vescovi presenti. Saluto inoltre le Autorità civili, tra le quali spiccano il Presidente della Repubblica italiana e la Regina del Belgio.
2. Non poteva esserci occasione più felice e più significativa di quella odierna per celebrare i vent'anni dell'Esortazione Apostolica Familiaris Consortio. Questo documento, che resta ancor oggi di grande attualità, oltre ad illustrare il valore del matrimonio e i compiti della famiglia, sollecita ad un particolare impegno nel cammino di santità a cui gli sposi sono chiamati in forza della grazia sacramentale, che "non si esaurisce nella celebrazione del sacramento del matrimonio, ma accompagna i coniugi lungo tutta la loro esistenza" (Familiaris Consortio, 56). La bellezza di questo cammino risplende nella testimonianza dei beati Luigi e Maria, espressione esemplare del popolo italiano, che tanto deve al matrimonio e alla famiglia fondata su di esso.
Questi coniugi hanno vissuto, nella luce del Vangelo e con grande intensità umana, l'amore coniugale e il servizio alla vita. Hanno assunto con piena responsabilità il compito di collaborare con Dio nella procreazione, dedicandosi generosamente ai figli per educarli, guidarli, orientarli alla scoperta del suo disegno d'amore. Da questo terreno spirituale così fertile sono scaturite vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, che dimostrano quanto il matrimonio e la verginità, a partire dal comune radicamento nell'amore sponsale del Signore, siano intimamente collegati e si illuminino reciprocamente.
Attingendo alla parola di Dio ed alla testimonianza dei Santi, i beati Sposi hanno vissuto una vita ordinaria in modo straordinario. Tra le gioie e le preoccupazioni di una famiglia normale, hanno saputo realizzare un'esistenza straordinariamente ricca di spiritualità. Al centro, l'Eucaristia quotidiana, a cui si aggiungevano la devozione filiale alla Vergine Maria, invocata con il Rosario recitato ogni sera, ed il riferimento a saggi consiglieri spirituali. Così hanno saputo accompagnare i figli nel discernimento vocazionale, allenandoli a valutare qualsiasi cosa "dal tetto in su", come spesso e con simpatia amavano dire.
3. La ricchezza di fede e d'amore dei coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi è una vivente dimostrazione di quanto il Concilio Vaticano Secondo ha affermato circa la chiamata di tutti i fedeli alla santità, specificando che i coniugi perseguono questo obiettivo "propriam viam sequentes", "seguendo la loro propria via" (Lumen gentium, 41). Questa precisa indicazione del Concilio trova oggi una compiuta attuazione con la prima beatificazione di una coppia di sposi: per essi la fedeltà al Vangelo e l'eroicità delle virtù sono state riscontrate a partire dal loro vissuto come coniugi e come genitori.
Nella loro vita, come in quella di tante altre coppie di sposi che ogni giorno svolgono con impegno i loro compiti di genitori, si può contemplare lo svelarsi sacramentale dell'amore di Cristo per la Chiesa. Gli sposi, infatti, "compiendo in forza di tale sacramento il loro dovere coniugale e familiare, penetrati dallo Spirito di Cristo, per mezzo del quale tutta la loro vita è pervasa di fede, speranza e carità, tendono a raggiungere sempre più la propria perfezione e la mutua santificazione, e perciò partecipano alla glorificazione di Dio" (Gaudium et spes, 49).
Care famiglie, oggi abbiamo una singolare conferma che il cammino di santità compiuto insieme, come coppia, è possibile, è bello, è straordinariamente fecondo ed è fondamentale per il bene della famiglia, della Chiesa e della società.
Questo sollecita ad invocare il Signore, perché siano sempre più numerose le coppie di sposi in grado di far trasparire, nella santità della loro vita, il "mistero grande" dell'amore coniugale, che trae origine dalla creazione e si compie nell'unione di Cristo con la Chiesa (cfr Ef 5,22-33).
4. Come ogni cammino di santificazione, anche il vostro, cari sposi, non è facile. Ogni giorno voi affrontate difficoltà e prove per essere fedeli alla vostra vocazione, per coltivare l'armonia coniugale e familiare, per assolvere alla missione di genitori e per partecipare alla vita sociale.
Sappiate cercare nella parola di Dio la risposta ai tanti interrogativi che la vita di ogni giorno vi pone. San Paolo nella seconda Lettura ci ha ricordato che "tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia" (2 Tm 3,16). Sorretti dalla forza di questa parola, potrete insieme insistere con i figli "in ogni occasione opportuna e non opportuna", ammonendoli ed esortandoli "con ogni magnanimità e dottrina" (2 Tm 4,2).
La vita coniugale e familiare può conoscere anche momenti di smarrimento. Sappiamo quante famiglie sono tentate in questi casi dallo scoraggiamento. Penso, in particolare, a coloro che vivono il dramma della separazione; penso a chi deve affrontare la malattia e a chi soffre la scomparsa prematura del coniuge o di un figlio. Anche in queste situazioni si può dare una grande testimonianza di fedeltà nell'amore, reso ancora più significativo dalla purificazione attraverso il passaggio nel crogiolo del dolore.
5. Affido tutte le famiglie provate alla provvida mano di Dio e all'amorevole cura di Maria, sublime modello di sposa e di madre, che ben conobbe il soffrire e la fatica del seguire Cristo fin sotto la croce. Carissimi sposi, non lasciatevi mai vincere dallo sconforto: la grazia del Sacramento vi sostiene e vi aiuta ad innalzare continuamente le braccia al cielo come Mosè, di cui ci ha parlato la prima Lettura (cfr Es 17,11-12). La Chiesa vi è vicina e vi aiuta con la sua preghiera soprattutto nei momenti di difficoltà.
Nello stesso tempo, chiedo a tutte le famiglie di sostenere a loro volta le braccia della Chiesa, perché non venga mai meno alla sua missione di intercedere, consolare, guidare e incoraggiare. Vi ringrazio, care famiglie, per il sostegno che date anche a me nel mio servizio alla Chiesa e all'umanità. Ogni giorno io prego il Signore perché aiuti tante famiglie ferite dalla miseria e dall'ingiustizia e faccia crescere la civiltà dell'amore.
6. Carissimi, la Chiesa confida in voi, per affrontare le sfide che l'attendono in questo nuovo millennio. Tra le vie della sua missione, "la famiglia è la prima e la più importante" (Lettera alle Famiglie, 2); su di essa la Chiesa conta, chiamandola ad essere "un vero soggetto di evangelizzazione e di apostolato" (ivi, 16).
Sono certo che sarete all'altezza del compito che vi attende, in ogni luogo e in ogni circostanza. Vi incoraggio, cari coniugi, ad assumere pienamente il vostro ruolo e le vostre responsabilità. Rinnovate in voi stessi lo slancio missionario, facendo delle vostre case luoghi privilegiati per l'annuncio e l'accoglienza del Vangelo, in un clima di preghiera e nell'esercizio concreto della solidarietà cristiana.
Lo Spirito Santo, che ha ricolmato il cuore di Maria perché, nella pienezza dei tempi, concepisse il Verbo della vita e lo accogliesse assieme al suo sposo Giuseppe, vi sostenga e vi rafforzi. Egli colmi i vostri cuori di gioia e di pace, così che sappiate rendere lode ogni giorno al Padre celeste, da cui discende ogni grazia e benedizione.
Amen!
Autore: Giovanni Paolo II
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26 agosto e 9 novembre
Catania, 12 gennaio 1880 - Roma, 9 novembre 1951
Firenze, 24 giugno 1884 - Serravalle (AR), 26 agosto 1965
Luigi Beltrame nacque a Catania il 12 gennaio 1880; adottato da uno zio senza figli, che gli dà il suo cognome, Quattrocchi, si trasferisce con lui a Roma dove studia Giurisprudenza. Qui conosce Maria Luisa Corsini, figlia unica di genitori fiorentini, di quattro anni più giovane. Le nozze vengono celebrate nella Basilica di S. Maria Maggiore il 25 novembre 1905. L’anno seguente nasce il primo figlio, Filippo, seguito da Stefania (nel 1908), Cesare (1909) ed Enrichetta (1914); crescendo abbracceranno tutti la vita religiosa. Luigi fu avvocato generale dello Stato; Maria, una scrittrice assai feconda di libri di carattere educativo. Il Papa li ha beatificati il 21 ottobre 2001, nel ventesimo anniversario della Familiaris Consortio. In quell’occasione, per la prima volta nella storia della Chiesa abbiamo visto elevata alla gloria degli altari una coppia di sposi, beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso.
Martirologio Romano: 26 agosto: A Roma, beata Maria Beltrame Quattrocchi, che, madre di famiglia, visse con suo marito una vita di profonda e lieta comunione di fede e di carità verso il prossimo, illuminando con la luce di Cristo la famiglia e la società.
9 novembre: A Roma, beato Luigi Beltrame Quattrocchi, che, padre di famiglia, nelle faccende pubbliche come in quelle private osservò i comandamenti di Cristo e li proclamò con diligenza e probità di vita.
Il 12 febbraio 1994, nel dare inizio presso il Tribunale per le Cause dei Santi del Vicariato di Roma alla loro causa di canonizzazione, il Cardinale Vicario Camillo Ruini così li presentava: "I due avevano cristianamente consacrato il loro amore coniugale e la grazia del sacramento nuziale li ha sempre sostenuti mirabilmente nel formare e crescere la loro famiglia…”. Ed il S. Padre si è mostrato particolarmente lieto di questa circostanza perché da tanto tempo desiderava un cammino di santità, da additare al popolo dei fedeli, realizzato da una coppia di sposi.
Non hanno fondato congregazioni. Non sono partiti missionari per terre lontane. Semplicemente hanno vissuto il loro matrimonio come un cammino verso Dio facendosi santi. Il Papa li ha beatificati il 21 ottobre scorso, nel ventesimo anniversario della Familiaris Consortio. In quell’occasione, per la prima volta nella storia della Chiesa abbiamo visto elevata alla gloria degli altari una coppia di sposi, Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi, beati non “malgrado” il matrimonio, ma proprio in virtù di esso.
La beatificazione dei coniugi Quattrocchi è avvenuta, non a caso, in occasione della giornata della famiglia, segnando una svolta, per così dire “storica”, sul modo comune di concepire la santità: non più soltanto appannaggio di suore, sacerdoti e singoli fedeli, ma un cammino aperto e praticabile da tutti gli sposi cristiani, sulla scia dei neo-beati, una coppia borghese che visse a Roma nella prima metà del Novecento.
Luigi Beltrame era nato a Catania il 12 gennaio 1880; adottato da uno zio senza figli, che gli dà il suo cognome, Quattrocchi, si trasferisce con lui a Roma dove studia Giurisprudenza. Qui conosce Maria Luisa Corsini, figlia unica di genitori fiorentini, di quattro anni più giovane. Una ragazza piena di doti: colta, sensibile e raffinata, amante della letteratura e della musica, a vent’anni aveva già pubblicato un saggio su Dante Gabriele Rossetti e i preraffaelliti.
Le nozze vengono celebrate nella Basilica di S. Maria Maggiore il 25 novembre 1905. L’anno seguente nasce il primo figlio, Filippo, seguito da Stefania (nel 1908), Cesare (1909) ed Enrichetta (1914). Crescendo abbracceranno tutti la vita religiosa: Filippo (don Tarcisio), sarà sacerdote diocesano, Stefania (suor Maria Cecilia), monaca benedettina, Cesare (padre Paolino), monaco trappista, ed Enrichetta, l’ultima nata, consacrata secolare. Ad eccezione di Stefania, scomparsa nel 1993, i fratelli sono ancora viventi e di veneranda età, attivi e lucidissimi nel far memoria della santità dei loro genitori, che furono sposi ed educatori davvero esemplari.
Lui, Luigi, avvocato generale dello Stato, fu professionista stimato e integerrimo; lei, Maria, una scrittrice assai feconda di libri di carattere educativo. Entrambi avevano a cuore i problemi della società e della nazione: animatori dei gruppi del Movimento di Rinascita Cristiana, avevano aderito anche al Movimento “Per un mondo migliore” di P. Lombardi. Luigi fu amico di Don Sturzo e di Alcide De Gasperi; senza mai prendere una tessera di partito, esercitò l’apostolato nella testimonianza cristiana offerta nel proprio ambiente di lavoro, laicista e refrattario alla fede, nella profonda bontà che ebbe nel trattare con tutti, soprattutto i “lontani”, nella sollecitudine costante verso i bisognosi che bussavano quotidianamente alla loro porta di casa, in Via Depretis, sul colle Viminale.
Lei, infermiera volontaria della Croce Rossa, durante le due guerre si prodigò instancabilmente per i soldati feriti; catechista attivissima per le donne del popolo nella parrocchia di S. Vitale, organizzò i corsi per fidanzati, autentica novità pastorale per quei tempi, quando il matrimonio veniva considerato come qualcosa di scontato, che non esigeva approfondimento né preparazione. Maria svolse anche un’intensa opera di apostolato con la penna, fece parte dell’Azione Cattolica e di altre associazioni, appoggiò inoltre la nascita dell’Università Cattolica del S. Cuore, accanto a P. Agostino Gemelli e Armida Barelli, chiamata a far parte del Consiglio Centrale dell’Unione Femminile Cattolica Italiana come incaricata nazionale per la religione.
Non è certo possibile riassumere in poche righe la straordinaria vicenda umana e spirituale dei coniugi Beltrame Quattrocchi. La loro esistenza di sposi fu un cammino di santità, un andare verso Dio attraverso l’amore del coniuge. Mezzo secolo di vita insieme, senza mai un attimo di noia, di stanchezza, ma conservando sempre il sapore continuo della novità. Il loro segreto? La preghiera.
Ogni mattina a Messa insieme alla Basilica di S. Maria Maggiore, “usciti di chiesa mi dava il “buon-giorno”, come se la giornata soltanto allora avesse il ragionevole inizio. Ed era vero…”, ricorda lei in Radiografia di un matrimonio, il suo libro-capolavoro. La recita serale del S. Rosario, l’adorazione notturna, la consacrazione al Sacro Cuore di Gesù solennemente intronizzato al posto d’onore nella sala da pranzo, e altre pie pratiche. Nel 1917 divennero terziari francescani e nel corso della loro vita non mancarono mai di accompagnare gli ammalati, secondo le loro possibilità, a Loreto e a Lourdes col treno dell’UNITALSI, lui come barelliere, lei come infermiera e dama di compagnia.
Il loro esempio, la loro profonda vita di fede, la pratica quotidiana del pregare in famiglia ebbero di certo i propri effetti sui figli, che si sentirono tutti e quattro chiamati dal Signore alla vita consacrata. Non senza ragione, perché “la famiglia che è aperta ai valori trascendenti, che serve i fratelli nella gioia, che adempie con generosa fedeltà i suoi compiti ed è consapevole della sua quotidiana partecipazione al mistero della Croce gloriosa di Cristo, diventa il primo e il miglior seminario della vocazione alla vita di consacrazione al Regno di Dio”, come giustamente ha sostenuto il S. Padre nell’Esortazione apostolica Familiaris Consortio (n. 53), che consigliamo ai nostri lettori di leggere, specie i padri e madri di famiglia, giacché il testo costituisce un po’ la magna charta della pastorale familiare della Chiesa del terzo millennio.
Nel progetto di Dio il matrimonio è vocazione alla santità e offre tutti i mezzi per raggiungerla. La santità del terzo millennio che la Chiesa ci addita parla proprio il linguaggio della famiglia. “Si è santi – ha detto infatti P. Giordano Muraro - non perché si vive in chiostri odorosi di incenso, salmodiando o curando infermi: ma perché si ama. E l’amore è possibile a tutti. Anzi: il matrimonio e la famiglia sono naturalmente luoghi di amore…Non si ama un generico “prossimo” ma questa persona che è mio marito, mia moglie, mio figlio, il mio genitore, mio fratello. Non sono io che scelgo il momento e il modo, ma è l’altro che si presenta qui, ora, ogni giorno. Lo sposato può dire a se stesso: Dio mi ha mandato nella vita della persona di cui mi sono innamorato, e chiede di servirsi del mio cuore, del mio affetto, della mia tenerezza, della mia dedizione, del mio amore, per portare in lei, in lui, la Sua vita e la Sua salvezza.
Le loro date di culto per la Chiesa Universale sono separate e cadono nei giorni 26 agosto e 9 novembre, mentre la Diocesi di Roma li commemora il 25 novembre, anniversario del loro matrimonio.
Autore: Maria Di Lorenzo
25 novembre (Chiese orientali)
III-IV secolo
Il nome dell'imperatrice Basilissa è annotato nel Sinassario quale moglie dell'imperatore Massenzio. Credente in Cristo, fu sottoposta al martirio di spada secondo i Menei, a quello del fuoco stando invece al sinassario di Costantinopoli. La memoria liturgica della santa imperatrice è celebrata al 25 novembre, nella medesima data della celeberrima Santa Caterina d'Alessandria, che aveva avuto un ruolo decisivo nell'avvicinamento dell'augusta sovrana alla fede cristiana. Il distico contenuto nel meneo recita: “Moglie fatta a pezzi di un imperatore mortale / il talamo trovò dell'immortale imperatore”. Il nome di questa imperatrice è citato non solo in greco come Basilissa, ma talvolta in latino come Augusta. In ogni caso è altamente probabile che non si trattasse del suo nome proprio, a noi ignoto, bensì si riferisse al suo ruolo istituzionale.
Autore: Fabio Arduino
Cassola, Vicenza, 26 giugno 1827 - Bassano del Grappa, Vicenza, 26 novembre 1889
Martirologio Romano: A Bassano vicino a Vicenza, beata Gaetana Sterni, religiosa, che, rimasta vedova ancora giovane, si diede interamente al servizio dei poveri e istituì la Congregazione delle Suore della Divina Volontà per l’assistenza ai poveri e ai malati.
Gaetana Sterni vive tutta la vita a Bassano del Grappa, antica e ridente città della provincia di Vicenza (Italia). Vi giunge con la famiglia, a 8 anni, dalla vicina Cassola, dove è nata il 26 giugno 1827. Il padre Giovanni Battista Sterni, amministra per conto dei Mora, nobili veneziani, la loro proprietà di campagna e nella Ca’ Mora di Cassola vive agiatamente con la moglie Giovanna Chiuppani e i loro sei figli. Nel 1835 si trasferisce con la famiglia a Bassano. In breve però una serie di vicende cambia drasticamente le condizioni della famiglia di Gaetana. Infatti, muore a 18 anni Margherita, la sorella maggiore e, in seguito a penosissima malattia, muore anche il padre, mentre il fratello Francesco, per fare l’attore, lascia la casa e la famiglia in situazioni economiche critiche. Questi fatti segnano l’esistenza di Gaetana che cresce in fretta dovendo condividere con la madre i molti problemi della vita di ogni giorno. E’ dotata di buona intelligenza, si dimostra sensibile e matura ma anche piena di vita, “desiderosa di amare ed essere amata”. La sua educazione alla fede è solida e sostenuta dalla testimonianza e dagli insegnamenti della madre, dalla preghiera, dalla frequenza ai sacramenti. Riscuote presto nel suo ambiente stima e apprezzamento per la personalità solare, piena di buon senso e per la spiccata femminilità. “Di leggiadre sembianze e rara avvenenza” è ricca di fascino, e colpisce un giovane imprenditore, vedovo con tre figli che chiede di sposarla.
Dopo una valutazione consapevole dei suoi sentimenti e delle responsabilità che si assume, superando l’opposizione del tutore, Gaetana accetta la proposta di Liberale Conte. La giovane sposa che non ha ancora 16 anni, entra nella nuova casa e la riempie con la sua vitalità; ridà serenità e gioia al marito e ai tre bambini che la amano come madre. Quando Gaetana conosce di aspettare un figlio, la felicità della coppia è completa.
Mentre prega una premonizione sulla imminente morte del marito turba Gaetana, la quale si sente “morire dal crepacuore” all’idea di perdere colui che le è “più caro della vita”, però nel suo intimo avverte come una forza che l’aiuta a non disperare e ad affidarsi a Dio con tutto il cuore. Il presentimento purtroppo si avvera e Liberale, nel pieno della giovinezza e della salute, dopo un breve malore, muore. La giovanissima sposa vive ore di terribile angoscia per la perdita del marito, che amava più di se stessa, per il dolore dei figli un’altra volta orfani e per il suo bambino che mai conoscerà il proprio padre. E’ sconvolta dal dolore ma quando rientra in se stessa ricorda la premonizione avuta e ciò che ha sperimentato. Si riaffida al Signore, mettendo in Lui con fiducia tutta la sua vita. In Lui trova la forza per vivere, prendersi cura dei tre piccoli e portare a termine la sua gravidanza. Però anche il bambino di Gaetana muore alcuni giorni dopo la nascita. Iniziano anni di amara vedovanza. La famiglia del marito infatti non giustifica l’affetto che lega gli orfani a Gaetana e nascono incomprensioni, sospetti e calunnie. Viene separata dai figli e allontanata dalla sua casa. A diciannove anni ritorna da sua madre. Nonostante questa prova, dimentica di sé, aiuta i bambini ad accettare il duro distacco. Affabile ma ferma, difende i diritti dei minori, perdona con larghezza e ottiene con la riconciliazione piena la serenità delle due famiglie.
La sofferenza non la inasprisce, la sua naturale sensibilità diviene presenza, capacità di misericordia e solidarietà.
Non ha mai pensato a farsi religiosa e guardando al suo futuro, prega affinché il Signore le faccia conoscere qual è lo sposo che Dio le ha destinato. Ma proprio nella preghiera percepisce con chiarezza che Dio vuole essere “l’unico Sposo dell’anima sua”. Gaetana ne è sconvolta. Si confronta con il suo confessore il quale le conferma che si tratta di un’autentica chiamata di Dio. Chiede quindi di entrare nel convento delle Canossiane di Bassano e viene accettata come postulante. Vive in quella comunità cinque mesi felici, ma ancora nella preghiera ha un’altra premonizione che la prepara alla morte della mamma, avvenuta poi nel giro di alcuni giorni. Deve dunque lasciare il convento e assumersi la responsabilità dei fratelli minori. Per anni affronta difficoltà, malattie familiari, dispiaceri e ristrettezze economiche. Nonostante tutto riesce a darsi un metodo di vita che la impegna spiritualmente. Si confronta con il suo confessore e prega con assiduità per conoscere la volontà di Dio su di lei. Con umile disponibilità si fa sempre più attenta a ciò che Lui le chiede nell’intimo del cuore, ma anche attraverso gli avvenimenti e i bisogni dei poveri della sua città.
Quando era dalle Canossiane con il presentimento della morte della madre, Gaetana aveva pure intuito che Dio la preparava al Ricovero “per impiegare là tutta se stessa nel servizio dei poveri e adempiere così la sua volontà”. Custodisce nel cuore questa vocazione per lungo tempo prima di trovare il coraggio di parlarne al confessore perché la cosa le pare terribile e strana. Quando finalmente lo fa, questi sembra non dare molto peso all’idea. Gaetana però ogni volta che vede un povero “ricoverato” risente l’invito “ti voglio tra i miei poveretti”, e dice “l’idea del Ricovero sempre mi perseguita”. Ha 26 anni quando finalmente libera da impegni familiari può disporre di sé. Concludendo un discernimento serio e condiviso, sarà il gesuita P. Bedin a confermarla, dicendole “Sì, Gaetana, il Signore vi vuole al Ricovero”. Nel 1853, “solo per fare la volontà di Dio”, Gaetana entra in questo Ospizio di mendicità che accoglie in condizioni miserabili 115 ospiti “per la massima parte vittime del disordine e del vizio” per cui vi trova “disordini e abusi quasi di ogni genere”.
Vi rimane per 36 anni fino alla morte e impegna in questo ministero tutta se stessa con infaticabile carità. Nelle veglie al letto di moribondi, nei servizi più umili ai malati e ai vecchi, tratta tutti con l’abnegazione, la soavità e dolcezza proprie di chi nei poveri serve il Signore. E’ animata da una grande confidenza in Dio, dal desiderio di essere Sua e di compiacerlo in tutto. A 33 anni, con il consenso del suo confessore don Simonetti fa voto di intera donazione di se stessa a Dio, “disposta ad accettare qualunque cosa il Signore possa disporre per lei”.
Con illimitata fiducia si abbandona nelle mani di Dio, “debole strumento di cui Egli si serve per i suoi disegni”. Attribuisce alla sola Provvidenza la nascita della congregazione che avviene nella semplicità e nel nascondimento con la professione delle prime due compagne nel 1865. Il nome “Figlie della Divina Volontà” interiormente suggerito a Gaetana, per lei e per le giovani che la seguono, indica ciò che deve caratterizzarle “uniformità in tutto alla Divina Volontà mediante un totale abbandono in Dio e un santo zelo per il bene del prossimo, disposte a tutto sacrificare pur di giovarlo”.
Come lei, le prime compagne animate dal medesimo spirito si consacrano alla volontà di Dio e si dedicano a servire i poveri del Ricovero e il prossimo bisognoso, specialmente con l’assistenza degli ammalati a domicilio e con altre opere di carità secondo i bisogni particolari che insorgono. Il Vescovo di Vicenza approva le prime regole della congregazione nel 1875.
Gaetana muore il 26 novembre 1889 amorosamente assistita dalle sue figlie e venerata dai suoi concittadini. Le sue spoglie mortali sono venerate nella Casa Madre. Dall’inizio le comunità si sono moltiplicate e la congregazione è diffusa oggi in Europa, America, Africa.
La via alla santità che Gaetana ha percorso è, per la sua essenzialità, un itinerario proponibile a ogni cristiano: compiere in tutto e sempre ciò che piace al Signore, affidandosi a Lui con illimitata confidenza, per cambiare con la sola forza dell’amore il male in bene alla maniera di Gesù.
Fonte: Santa Sede
Puimichel, Francia, c. 1285 - Apt, Francia, 1360
Martirologio Romano: Ad Apt nella Provenza in Francia, beata Delfina, che, moglie di sant’Elze¬aro di Sabran, insieme al quale fece voto di castità, dopo la morte del marito visse in povertà e dedita alla preghiera.
Delfina è nata infatti a Puimichel, probabilmente nel 1285. Era figlia del signore del luogo. La madre era di Barras, a circa dieci chilometri da Digne. Giovanissima, Delfina perde i genitori, ha una sorellastra, dal leggiadro nome di Alayette, che entra presto in convento. Quanto a Delfina, i parenti che le restano, degli zii, la mettono nel monastero agostiniano di Santa Caterina, a Soys, dove si trova sua zia, una certa suor Cecilia, che probabilmente esercita una forte influenza sulla bambina. I suoi zii la riprendono quando ha tredici anni, poiché la vogliono maritare.
Carlo II d'Angiò, re di Sicilia, la destinava al figlio del conte di Ariano. Delfina rifiuta: dichiara alla sua famiglia che ha deciso di restare vergine e di votarsi a Dio. Furore degli zii, che insistono tanto più in quanto temono che il re fraintenda la causa del rifiuto, e vi veda una maniera mascherata di respingere la domanda. Per cercare di convincere la fanciulla, e ritenendo che un religioso la potrà influenzare meglio di loro, fanno intervenire un francescano, a cui Delfina comunica esplicitamente la sua intenzione di votarsi a Dio. Il religioso le spiega la difficile situazione in cui metterebbe la sua famiglia, e le consiglia di consentire comunque al fidanzamento, salvo poi rifiutare il matrimonio, in seguito. Delfina si lascia persuadere e scambia le promesse richieste con il giovane Elzeario (Auzias) di Sabran, probabilmente nel 1297.
Due anni dopo, il 5 febbraio 1300, il matrimonio è celebrato ad Avignone. Delfina ha quindici anni, due di più del giovane sposo. Quando quest'ultimo le parla di rapporti sessuali, risponde invocando l'esempio di Cecilia e di Valeriano suo sposo, nell'antichità, oppure la vicenda di Alessio che abbandonò il tetto familiare la sera delle sue nozze. E lo fa con tanta gentilezza, si legge nel processo di beatificazione di Delfina, che Elzeario " si mise a piangere, per un senso fortissimo di devozione ".
Tuttavia, senza scoraggiarsi, ogni tanto insiste con la giovane moglie, al punto che un giorno essa si ammala, colpita da una forte febbre, e fa sapere al suo sposo che guarirà solo se egli le prometterà di vivere accanto a lei in uno stato di astinenza perpetua.
Poco dopo Elzeario parte per assistere a una vestizione nel castello di Sault. Durante questa assenza riflette profondamente sulla richiesta di una sposa che ama, e decide di accettare la sorprendente situazione che ne deriva per entrambi.
Poiché era morto suo padre, dovette recarsi in Italia per regolare la successione; la sua assenza si sarebbe protratta per quattro anni. Quando ritorna, Delfina gli confessa di avere fatto voto di verginità nella cappella del castello di Ansouis, Lungi dall'adombrarsi, Elzeario vuole pronunciare lo stesso voto; dopodiché i due sposi ricevono insieme la comunione dalle mani del loro confessore. Entrambi trascorrono la vita compiendo opere buone, tanto quanto possono. Pur amministrando i suoi beni e possedimenti, Elzeario ha riunito a Puimichel una piccola comunità che accetta una regola di vita che potremmo dire monacale: funzioni religiose, discorsi spirituali, opere di carità. Apparentemente vive come un gran signore del suo tempo, ma ha visioni mistiche; e, sebbene Elzeario condivida il letto della sua sposa, quest'ultima dorme vestita, ed entrambi quando sono soli nella loro camera si alzano e pregano insieme.
Elzeario fu inviato alla corte di Francia per un'ambasciata: si trattava di proporre una sposa per il duca di Calabria. Durante questa assenza, mentre si trovava ad Avignone e pregava, Delfina ebbe improvvisamente la visione di tutta la famiglia del conte vestita di nero. Capì che Elzeario era morto. E infatti qualche tempo dopo la notizia giungeva da Parigi alla Provenza. Delfina pianse a lungo quello sposo così amato, fino al giorno in cui, mentre pregava nuovamente, nella sua camera, a Cabrières, egli le apparve e disse: " II nostro vincolo si è spezzato; ne siamo liberi ". Infatti entrambi erano ormai liberi da quel legame coniugale che era stato insieme la loro gioia e il loro tormento. In seguito Delfina decise di vendere tutto quello che possedeva per darne il ricavato ai poveri, prendendo alla lettera le parole del Vangelo; prima i beni mobili, poi i castelli. Poiché la regina di Sicilia, Sancia, moglie del re Roberto, glielo chiese, si recò a Casasana in Sicilia, dove restò parecchi anni per prendersi cura della regina e farle compagnia. Lì fece voto di povertà assoluta, conforme all'iniziativa presa in Provenza. Convocò i suoi familiari, i domestici, dichiarando che tutto ciò che si trovava nella sua residenza apparteneva loro e che ne avrebbero goduto vita natural durante, con l'obbligo di donare tutto ai poveri dopo la morte; "Se, per amore di Dio, vi piacesse tenermi con voi, insieme a mia sorella monaca, e procurarci le cose necessarie alla vita come fareste con due donne povere qualsiasi, spero che Dio vi compenserà... E voglio che d'ora in poi non mi consideriate più come la vostra signora, ma solo come vostra compagna e come una semplice pellegrina che avete ospitato in nome di Cristo". Ritornata in Provenza, partecipava a tutti i lavori domestici e specialmente a quelli più semplici, come scopare o lavare i piatti. Portava solo abiti grossolani di semplice bigello, e, in testa, un velo di tela di lino.
Delfina morì trentasette anni dopo il suo sposo, nel 1360, "il giorno successivo a Santa Caterina, all'aurora". Aveva settantasei anni, ed era già malata da parecchio tempo. Elzeario era stato dichiarato santo dopo un processo avviato nel 1351. Tre anni dopo la morte di Delfina cominciava anche il suo processo di beatificazione. Le persone del suo ambiente riferirono numerosi miracoli accaduti poco dopo la sua morte. Infatti il 26 novembre 1360 il suo corpo, rivestito del saio dei frati minori, era stato trasportato nella chiesa di Santa Caterina. La notte successiva si udì risuonare una musica armoniosa, riferiscono dei testimoni. Molti dichiarano di essere usciti per vedere donde provenissero quei canti, ma, poiché non videro nessuno, li attribuirono ai cori angelici. Un certo Stefano Martino, che non poteva camminare senza le grucce, entrò nella chiesa e ne uscì guarito, quel 26 novembre; e il giorno dopo il procuratore di Apt, Raybaud de Saint-Mitre, che aveva deciso di offrire un pasto ai poveri nella casa della contessa, fu sorpreso vedendo arrivare molte più persone di quelle previste. Egli aveva fatto cuocere solo un'émine, vale a dire circa cinque litri di piselli; ce ne sarebbe voluto il triplo, per nutrire le duecento persone circa che si presentarono; ma dopo che tutti ebbero mangiato rimase ancora una grossa marmitta piena di piselli.
Dunque i miracoli si susseguirono dopo la morte di Delfina, tanto che, nel 1363, fu intrapreso il suo processo di canonizzazione. L'arcivescovo di Aix, i vescovi di Vaison e di Sisteron furono incaricati dell'indagine, che cominciò il 14 maggio 1363 ad Apt, nella chiesa dei Cordiglieri, Una seduta solenne nella cattedrale riunì tutta la folla, che approvò il processo e dichiarò la santità della contessa d'Ariano.
Da quel momento il processo con le deposizioni dei testimoni oculari è considerato concluso. Il testo è consegnato al papa nell'ottobre successivo. Ma a questo punto i penosi eventi che affliggevano la cristianità avevano un contraccolpo. Urbano V, che allora occupava il trono pontificio di Avignone, e che era il figlioccio di Elzeario, si trovava in una posizione difficile. Desiderava rientrare a Roma, effettuò persino un ritorno che sarebbe stato brevissimo, e preferì rinviare la canonizzazione di Delfina. Poi si succedono, ad Avignone, dal 1378, pontefici eletti in condizioni più che dubbie, e con i quali si apre il periodo chiamato del Grande Scisma. Occorre attendere il 1417 perché siano ristabilite, nella Chiesa, la pace e l'unità. Nel frattempo, nella cappella dei Cordiglieri di Apt, il corpo di Delfina era stato deposto in una cassa vicino a quella che conteneva le spoglie del suo sposo sant'Erario. Il tempo passava. Il processo non fu mai ripreso. Elzeario è sempre venerato come santo, mentre Delfina ha solo diritto al titolo di beata.
Lo strano destino di questa coppia di santi assume tutto il suo rilievo solo se è collocato sullo sfondo tragico e perturbato in cui visse. Sappiamo che nel XIV secolo hanno luogo grandi catastrofi naturali; la carestia del 1315-16, la peste nera del 1348; e, oltre alle guerre franco-inglesi, la cristianità è in uno stato di incertezza di fronte a un papato un poco indebolito, tenuto al guinzaglio dal re di Francia e dall'Università di Parigi, e residente ad Avignone dal 1309. In quest'epoca così perturbata, la santità di questa coppia vergine e totalmente accordata con la vita del Regno di Dio e i destini escatologici dell'umanità intera assume un alto significato: " Saranno come angeli nel cielo ", si legge nel Vangelo.
In maniera più concreta, Elzeario e Delfina, nella loro preoccupazione costante di approfondire la fede che li anima, sono utili più volte. Elzeario è amico di un famoso francescano, Francesco di Maironnes, del convento di Sisteron, che, recatesi a Parigi per insegnare, ha potuto assistere il conte di Ariano nel momento della sua morte. Quanto a Delfina, i testimoni del suo processo dichiarano più volte che sapeva dissuadere coloro che " avevano opinioni false, o parlavano male del Sommo Pontefice". Si doveva discutere intensamente nella regione avignonese, e non a torto, di fronte a una corte pontificia di cui il meno che si possa dire è che conduceva un'esistenza poco conforme alla povertà evangelica! Ancor più, il suo processo è l'eco delle asserzioni eretiche allora molto diffuse intorno alla Santa Trinità e al "Regno dello Spirito Santo" che annunciavano numerosi visionari, e che aveva l'effetto di introdurre nella vita divina una specie di "quaternità": conseguenza delle predicazioni profetiche di un Gioacchino da Fiore, che al suo tempo non era stato quasi ascoltato, ma di cui lontani discepoli riprendevano le accese teorie intorno a una Chiesa dello Spirito Santo che sarebbe succeduta a quella di Cristo . Sappiamo in che modo tali errori avessero trovato spesso eco nei francescani, nel ramo di quelli che erano chiamati spirituali. Un certo Durando, che depone al processo di Delfina, mostra la contessa " inorridita " dalle opinioni eretiche di un frate minore di cui non ha potuto ricordare il nome e che era venuto da Napoli per discutere con lei sulla fede nella Trinità. " Si serviva di sofismi per tentare di provare che c'era in Dio una quarta persona" dichiara. La contessa rispose ricordando l'insegnamento della Chiesa e il simbolo di Atanasio. In un'altra occasione, fu davanti al papa stesso, Clemente VI, che Delfina, chiamata a discutere con santi dottori, li sbalordì con la sua autorità; e tutti conclusero che non poteva sapere tante cose " se non per ispirazione dello Spirito Santo ".
Si tratta probabilmente dello stesso Durando di cui più testimoni narrano la vita al processo di Delfina, da cui fu miracolato.
Si trattava di un guascone, Durando Arnaldo de la Roque Aynière. Lui e alcuni compagni imperversavano per la Provenza, nel 1358, quando caddero in un'imboscata preparata dalla gente di Ansouis, che, senza processo, li gettò in un pozzo " profondo circa ventidue canne", come precisa un testimone. Lo chiusero con grosse pietre, poi si allontanarono. Quando gli avevano legato le mani, Durando aveva invocato nel suo cuore la contessa Delfina, che era allora ad Apt, e di cui lo aveva profondamente colpito la fama di santità. Ora, in fondo al pozzo, dove era stato gettato il lunedì, tornò in sé il mercoledì mattina, e una voce interiore gli disse: "Alzati, esci di qui"; si accorse che i cadaveri dei suoi compagni che erano stati gettati prima di lui avevano attutito la sua caduta, e che era stato colpito solo da una grossa pietra, alla tibia. Riuscì ad alzarsi, gridò con tutte le sue forze; stupefatti, quelli che erano nel castello lo sentirono, gli portarono delle corde e lo tirarono fuori sano e salvo. In seguito Durando si recò da Delfina, ascoltò le sue esortazioni e si convertì, si confessò e per qualche tempo restò vicino ad Apt, nel romitaggio di Santa Maria di Clermont. Pare che in seguito sia diventato frate, probabilmente a Rocamadour. Nel processo di canonizzazione depone a tre riprese.
Autore: Guido Pettinati
Molto bello il ruolo della moglie e della madre nel suo cammino di santità...
Martirologio Romano: In Persia, san Giacomo, detto l’Interciso, martire, che, al tempo dell’imperatore Teodosio il Giovane, aveva rinnegato Cristo in ossequio al re Iasdigerd, ma, aspramente rimproverato da sua madre e dalla moglie, si pentì e professò coraggiosamente la sua fede cristiana davanti a Varam, figlio e successore del sovrano di Persia, che, adirato, pronunciò contro di lui la sentenza di morte ordinando che fosse tagliato a pezzi e infine decapitato.
Originario di Beth Lapat, nel Beth Huzaye (Huzistan), Giacomo occupava un posto ragguardevole alla corte di Yazdegerd I. Per non aver guai apostatò dalle fede cristiana che condivideva con sua madre e la sua sposa. Non appena queste lo seppero, gli inviarono una lettera per farlo rinsavire e questo bastò a farlo ritornare, e con più fervore, alla fede primitiva. Sorpreso un giorno a leggere le Sacre Scritture, fu denunciato al re. Sottoposto a un lungo interrogatorio, confessò coraggiosamente la sua fede. Irritato da tale ostinazione, il re lo condannò al terribile supplizio che gli meritò il soprannome di interciso, cioè a quello dell’amputazione successiva delle dita delle mani e dei piedi, quindi dei piedi, delle mani, delle braccia e delle gambe. Ogni nuovo supplizio fu accompagnato da un’invocazione di Giacomo al Signore attinta da un versetto biblico! Il martirio si concluse con la decapitazione, Avendo poi il re di Persia scoperto che i cristiani rendevano culto alle reliquie dei martiri, ordinò di bruciare i resti di Giacomo e di disperderli ma alcuni cristiani riuscirono a impadronirsene e li trasportarono a Gerusalemme dove arrivarono dopo 40 giorni di cammino e furono poste nel monastero degli Ibèri (presso la cittadella o “Torre di Davide”), fondato da Pietro l’Iberico, monofisita. Quando questi, in seguito al Concilio di Calcedonia, fu espulso da Gerusalemme, portò con sé in Egitto le reliquie di Giacomo.
E’ commemorato il 27 novembre.
Autore: Paola Cristofari Fonte: Avvenire
Eravamo abituati a modelli di santità quasi esclusivamente di tipo sacerdotale o religioso, invece tanti padri e madri hanno raggiunto gli onori degli altari con una vita esemplare (spesso col martirio). Continuo in queste segnalazioni che possono offrire spunti di riflessione per il nostro cammino di santità personale, coniugale e familiare. Ad esempio oggi di celebra Santa Fausta Romana Vedova, che scrisse in una lettera:
"Benché mio padre fosse un idolatra, mia madre Fausta è vissuta sempre fedele e casta. Essa mi ha fatto cristiana dalla culla” evidenziando l'importanza della trasmissione e testimonianza della fede in famiglia!
Sec. I
Di lei c'è solo un accenno nell'agiografia cristiana. Lo si trova nella Passione di sant'Anastasia, dove si legge "Benché mio padre fosse un idolatra, mia madre Fausta è vissuta sempre fedele e casta. Essa mi ha fatto cristiana nella culla".
Etimologia: Fausta = propizia, favorevole, dal latino
Nella Passio di Santa Anastasia si legge una lettera diretta ad un certo Crisogono, nella quale è scritto: " Benché mio padre fosse un idolatra, mia madre Fausta è vissuta sempre fedele e casta. Essa mi ha fatto cristiana dalla culla ".
Questo è l'unico accenno esistente - ed esistente in un testo leggendario - sul conto della Santa che oggi ricordiamo. Nient'altro rimane a ricordarci Santa Fausta, oltre questa breve testimonianza di riconoscenza filiale. Tentiamone il ritratto: una mamma che alleva nel Cristianesimo la propria figlia, fin "dalla culla". La moglie di un idolatra, che adora il vero Dio. Una sposa fedele, una donna casta. Può sembrare troppo poco a chi, esigente con gli altri più che con se stesso, chiede alla santità manifestazioni spettacolari e fatti inconsueti.
Ma era già un fatto inconsueto che, nei primi tempi del Cristianesimo, sì trovassero anime disposte al sacrificio e alla persecuzione per amore di quel Dio disprezzato dai pagani, rappresentato come un asino in croce e diffamato come un volgare malfattore.
Per gli apologisti, la prima diffusione dei Cristianesimo fu già un miracolo per se stessa. Sarebbe bastato questo miracolo per dimostrare la divinità dei Cristo. Per la stessa ragione, bastava la conversione per dimostrare la santità dei primi cristiani. Non c'era bisogno di altro.
Non per nulla, i Cristiani dei primi secoli si chiamavano tutti, indistintamente, "Santi". Per illuminare la loro aureola, bastava una confessione, o anche una semplice ammissione: "Sono cristiano". Spesso, a queste parole dei Santi detti appunto "Confessori", seguiva il processo, la condanna, il supplizio dei Santi, detti allora Martiri cioè "testimoni".
Le varie Passioni derivavano dal desiderio di rendere più evidenti e più esemplari questi sacrifici spesso oscuri, questi eroismi nascosti. Accadde così anche per Santa Anastasia, nella cui complessa Passione si trova l'accenno alla madre Fausta, che allevò dalla culla la figlia cristiana.
Ella doveva sapere che cosa significasse ciò. Voleva dire preparare alla propria figlia un corredo di porpora, un avvenire di sacrifici, quasi certamente una morte prematura. L'amore materno doveva essere superato dalla fede, e la speranza umana doveva essere accesa dalla carità divina. Ecco perché le poche parole dedicate alla madre Fausta scoprono e rivelano tutto un profondo panorama storico e religioso, e acquistano un grande valore apologetico nella prospettiva dei primi secoli cristiani. Sono le parole che potrebbero essere estese a tutte le donne cristiane di quei tempi e di sempre: fedeli e caste, modeste e intrepide, amorevoli e coraggiose. Quelle donne esemplari che portarono nelle case ancora pagane il lievito dei Cristianesimo e accesero accanto alla culla dei loro figli la fiamma della fede, alimentata dalla loro passione e propagata dal loro sacrificio.
Fonte: Archivio Parrocchia
Valencia, Spagna, 30 giugno 1905 - Picadero de Paterna, Spagna, 28 novembre 1936
Martirologio Romano: Nel villaggio di Picadero de Paterna nel territorio di Valencia sempre in Spagna, beato Luigi Campos Górriz, martire, che, nella stessa persecuzione religiosa, coronò con una morte gloriosa una vita instancabilmente dedicata all’apostolato e alle opere di carità.
Luis Campos Gorriz nacque a Valencia il 30 giugno 1905. All’età di sette anni divenne alunno dell’Istituto San José dei padri gesuiti, nella sua città natale. Nel 1921 si iscrisse a Filosofia, Lettere e Diritto. Nell’Università di Valencia si impegnò in un’intensa vita apostolica nelle Congregazioni mariane e nel gruppo studentesco. Si Laureò nel 1926 e nel 1930 cominciò la sua carriera di avvocato.
Il 25 maggio 1933 convolò a nozze con Carmen rteche Echeturía e nel luglio 1935 nacque la prima figlia. Sempre in quell’anno si trasferì a Madrid come segretario generale dell’Associazione dei Propagandisti dell’Azione Cattolica. Nel 1936 rimase vedovo e si trasferì allora con la famiglia a Torrente da Valencia, per il clima pericoloso della città in seguito allo scoppio della guerra civile spagnola.
Il 28 novembre 1936 venne assassinato con il rosario in mano in località Picadero de Paterna. Prima di prelevarlo i miliziani si accertarono se avesse lavorato nell’Azione Cattolica e fosse stato tra gli organizzatori del Congresso cattolico di Madrid. Per giungere alla sua beatificazione, l’11 marzo 2001 con Papa Giovanni Paolo II, Luis Campos Gorriz fu aggregato al gruppo dei martiri gesuiti, in quanto loro ex allievo.
Autore: Fabio Arduino
Continuiamo il nostro viaggio tra i santi sposi, Oggi troviamo nel calendario alcuni santi sposi poco conosciuti ai più, ma rappresentano la maggioranza dei santi sposati iscritti al calendario, la maggioranza degli sposi, infatti, vivono una santità "ordinaria" che resta conosciuta ai familiari, amici, colleghi e parenti ed è raro che la famiglia abbia i mezzi per una causa di beatificazione...
Alcuni invece arrivano alla "gloria degli altari" attraverso il martirio (quelli festeggiati oggi per aver protetto dei sacerdoti), o perché appartenenti a famiglie reali come quelli della famiglia reale armena dove la loro conversione cambio il corso della storia e della fede in quella regione...
Martirologio Romano:, beati Giorgio Errington, Guglielmo Gibson e Guglielmo Knight, martiri, i quali patirono dopo vari supplizi il martirio per aver protetto dei sacerdoti condannati in quanto tali all’espulsione.
III-IV secolo
Tiridate III, re di Armenia, ebbe il trono da Diocleziano (294), ne fu cacciato da Narsete e lo riottenne nel 298. Convertitosi al cristianesimo, ne appoggiò la diffusione in Armenia collaborando con San Gregorio l’Illuminatore. Rimase ucciso nel corso di una rivolta.
“Quando, attraverso la predicazione di san Gregorio, il re Tiridate III si convertì, una nuova luce albeggiò nella lunga storia del popolo armeno. L’universalità della fede si unì in maniera inseparabile con la vostra identità nazionale. La fede cristiana si radicò in modo permanente in questa terra, raccolta attorno al monte Ararat, e la parola del Vangelo influenzò profondamente la lingua, la vita familiare, la cultura e l’arte del popolo armeno”. Con queste brevi parole, nell’omelia tenuta presso la Cattedrale di San Gregorio l’Illuminatore in Yerevan il 26 settembre 2001 in occasione della sua visita apostolica in Armenia, papa Giovanni Paolo II sintetizzò al meglio le origini del primo stato cristiano della storia umana, del quale si celebrava il 1700° anniversario del battesimo, ben prima che il cristianesimo fosse riconosciuto come propria religione dall’impero romano sotto San Teodosio I il Grande, nonché dieci anni prima dell’editto di tolleranza promulgato da San Costantino I il Grande.
Secondo un’antichissima tradizione il cristianesimo penetrò in Armenia direttamente per opera degli apostoli Taddeo e Bartolomeo e per tale motivo ancora oggi la Chiesa indigena è definita “apostolica”. L’impero romano, nella sua espansione ad Oriente, aveva soggiogato anche la regione dell’Armenia. La conversione dell’Armenia, realizzatasi agli albori del IV secolo e tradizionalmente collocata nell’anno 301, è narrata dallo storico Agatangelo in un racconto ricco di simbolismo. Il racconto prende le mosse dall’incontro provvidenziale e drammatico dei due eroi che stanno alla base degli eventi: Gregorio, figlio del parto Anak, allevato a Cesarea di Cappadocia, ed il re armeno Tiridate III. Questo sovrano verso la fine del terzo secolo, approssimativamente nel 294, aveva appena riconquistato il trono, alleandosi con l’imperatore Diocleziano, e conformemente agli usi dell’epoca volle rendere omaggio alla dea Anahite (Diana), che gli era stata propizia nella difficile impresa. Con lui offrirono doni tutti i cortigiani tranne Gregorio che, giunto il suo turno, rifiutò in quanto cristiano, spiegando al sovrano che uno solo è il creatore del cielo e della terra, il Padre del Signore Gesù Cristo. Allora il re lo fece torturare per ben venticinque giorni e lo rinchiuse nella fossa di “Khor Virap” nella fortezza di Artashat, piena di rettili velenosi, il cui solo nome terrorizzava i criminali più incalliti. Gregorio vi sopravvive invece miracolosamente per tredici anni, nutrito dalla Provvidenza attraverso la mano pietosa di una vedova.
Il racconto prosegue poi riferendo i tentativi messi in opera nel frattempo dall’imperatore Diocleziano per sedurre la santa vergine Hripsime, la quale, per sottrarsi al pericolo, fuggì da Roma con una quarantina di compagne, cercando rifugio in Armenia al seguito della badessa Santa Gayane. La bellezza della giovane attrasse l’attenzione del re Tiridate, che s’invaghì di lei e volle farla sua. Di fronte all’ostinato rifiuto di Hripsime, il re s’infuriò e fece perire lei e le compagne tra crudeli supplizi. Secondo la leggenda, in pena dell’orrendo delitto Tiridate fu tramutato in un cinghiale selvatico e non poté ricuperare le sembianze umane, se non quando, ubbidendo a un sogno fatto da sua sorella Santa Khosrovitoukhd, liberò Gregorio dal pozzo. Ottenuto il prodigio del ritorno a sembianze umane per le preghiere del santo, Tiridate comprese che il Dio di Gregorio era veritiero e decise finalmente di convertirsi, insieme con sua moglie Santa Ashkhen, l’intera famiglia e l’esercito, e di adoperarsi per l’evangelizzazione dell’intera nazione. Gregorio e Tiridate percorsero l’intero paese animati di zelo per Cristo, distruggendo i luoghi di culto pagani e costruendo al loro posto templi cristiani. Gregorio ricevette a Cesarea la consacrazione episcopale, divenendo così il primo Catholicos della Chiesa Armena, e fu soprannominato “Illuminatore” per aver portato in dono al popolo armeno la luce di Cristo. Edificò la cattedrale metropolitana di Etchmiadzine, formò un clero indigeno armeno ed evangelizzò la Georgia, dopodiché si ritirò a vita eremitica sino alla sua morte presso una grotta sul monte Sepouh.
Tiridate, per espiare la colpa dell’uccisione di Santa Hripsime, grazie alla sua immane forza trasportò numerosi massi sul monte Ararat per costruire una chiesa sulla sua tomba. Infine nel 324 cadde anch’egli martire, vittima di una rivolta istigata da alcuni nobili armeni che non gli avevano perdonato l’abbandono delle divinità pagane. Dopo la sua morte l’Armenia conobbe purtroppo un secolo di guerra e di anarchia. La Chiesa Armena lo venerò subito come santo, mentre il Martyrologium Romanum al momento non ne riporta la memoria. Secondo invece l’autorevole Bibliotheca Sanctorum è festeggiato al 29 novembre.
Autore: Fabio Arduino
Etimologia: Maura = nativa della Mauritania oppure bruna di carnagione come un moro, dal lat
Emblema: Palma
Il Baronio l'ha introdotta nel Martirologio Romano al 30 novembre senza una spiegazione sufficiente, poiché non si conosce alcuna vergine e martire di questo nome né a Costantinopòli, né altrove.
Vi era tuttavia in questa città, almeno dal VI sec., nel quartiere chiamato Iustinianae, una chiesa in onore dei ss. martiri Timoteo lettore e Maura, sua moglie. Ma costoro avevano sofferto per la fede nella Tebaide, dove il governatore Arriano, voleva far loro consegnare i libri sacri e rinnegare Cristo. Avendo i due martiri opposto un rifiuto, il governatore inflisse loro diversi tormenti e infine li condannò alla crocifissione. I sinassari bizantini li menzionano al 10 novembre e al 3 maggio. Potrebbe però darsi che la confusione del Martirologi Romano derivi da altra fonte.
Autore: Raymond Janin
Fonte: Enciclopedia dei Santi