Santi & Sposi
SETTEMBRE
Sommario
San Vittore di Le Mans Vescovo
Sant'Arealdo di Brescia Martire
Beata Ingrid Elofsdotter di Skanninge (di Svezia)
Santa Febe (Phoebe) Coadiutrice di s. Paolo
Beata Brigida di Gesù Morello Fondatrice
San Giuseppe Patriarca, figlio di Giacobbe
Sant'Irmengarda (Irmgarda) di Suchteln
Beato Giuseppe Toniolo Sociologo.
Beato Pasquale Torres Lloret Padre di famiglia, martire
Beati Ludovico Maki e Giovanni Maki (padre e figlio martiri)
Santi Adriano e Natalia Sposi e martiri
Beato Marino Blanes Giner Padre di famiglia, martire
Beati Giovanni Tomachi e figli Martiri giapponesi
Beato Ismaele Escrihuela Esteve Padre di famiglia, martire
Beata Serafina Sforza (Sveva Feltria) Clarissa
Beata Luisa (Lucia) di Omura Martire
Beata Maria Toribia (Maria de la Cabeza) Moglie di s. Isidoro l’agricoltore
Beati Antonio e Maddalena Sanga Sposi e martiri
Beati Paolo e Maria Tanaca Sposi e martiri
Beati Paolo e Tecla Nangaichi, sposi, ed il figlio Paolo Martiri giapponesi
Beata Maria Xoum Yochida Moglie del Beato Giovanni, martire
Sant’Eudossia Imperatrice d’Oriente
Beato Ludovico IV, langravio di Turingia
Beato Bonaventura da Barcellona (Michele Battista Gran) Francescano
Santa Placilla (Ælia Flaccilla) Imperatrice
Santa Caterina Fieschi Adorno da Genova Vedova
Beati Giovanni Battista e Giacinto de los Ángeles Martiri indios
Beata Teresa Cejudo Redondo Cooperatrice salesiana, martire
Beati Michele Timonoya e Paolo Timonoya Martiri
Sant'Abbone (o Goerico) di Metz Vescovo.
Sant'Eustachio Placido Martire
Santi Martiri Coreani (Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e 101 compagni)
Beata Caterina Aliprandi da Asti Clarissa
Beato Vincenzo Galbis Girones Martire
Sant'Elisabetta Madre di Giovanni Battista.
San Zaccaria Padre di Giovanni Battista.
Beata Emilie Tavernier Gamelin
Beata Sofia Ximenez Ximenez Madre di famiglia, martire
Beata Elena Duglioli Dall’Olio Vedova
Beato Giuseppe Raimondo Ferragud Gibres Padre di famiglia, martire
Santi Paolo, Tatta e figli Sposi e martiri
Beata Ermengarda Cistercense e fondatrice
Santa Ketevan Regina di Georgia, martire
Beata Beatrice di Castiglia Regina, mercedaria
Sante Caterina Yi e sua figlia Maddalena Cho Martiri
Beata Erminia Martinez Amigo Madre di famiglia, martire
Beata Amalia Abad Casasempere Madre di famiglia, martire
Santi Lorenzo Ruiz di Manila e 15 compagni
Beato Carlo di Blois Duca di Bretagna
San Lotario I Imperatore e monaco
San Francesco Borgia Sacerdote.
Le Mans (Francia), † 490
Etimologia: Vittore, Vittorio = vincitore, dal latino
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Le Mans nella Gallia lugdunense, ora in Francia, san Vittorio, vescovo, ricordato da san Gregorio di Tours.
Come molti santi dell’Alto Medioevo o dei primi secoli della Chiesa, di cui non si sa niente della loro vita, fino al momento dell’assunzione della carica per cui sono conosciuti, così anche per s. Vittore, le notizie partono da quando salì al seggio episcopale di Le Mans in Francia, all’inizio dell’anno 450.
Si sa che partecipò nel 453 al concilio di Angers e nel 461 a quello di Tours; ancora egli firmò una lettera collettiva con i vescovi di Tours e Bourges, indirizzata ai prelati partecipanti alla III Assemblea Lionese.
Vittore ancora suddiacono, sposato e padre di un bambino non ancora battezzato, mentre era nel suo campo, incontrò s. Martino di Tours che si recava a visitare il vescovo di Le Mans Liborio moribondo. S. Martino lo condusse con sé e dopo i funerali di Liborio, lo propose per la scelta del nuovo vescovo; Vittore secondo la leggenda, descritta da due testi non contemporanei e quindi poco attendibili, venne consacrato vescovo di Le Mans, mentre la moglie prese il velo monacale e il loro figlio Vitturio ricevé il Battesimo.
La leggenda continua dicendo che Vitturio, educato a Tours, succedeva al padre, venendo consacrato anch’egli vescovo da s. Martino (che però era morto già da tempo); questa successione ha comportato una confusione storica fra gli agiografi, ritenendoli ambedue santi e commemorandoli in date diverse.
Mentre si suppone che fosse solo lo stesso s. Vittore, che nella lunga vita, fondò fuori della città un monastero dedicato ai 12 Apostoli, dove poi fu sepolto quando morì nel 490 e il monastero prese il suo nome, quindi governò 40 anni, secondo gli studiosi, troppi per quell’epoca, perciò parlano di due vescovi dallo stesso nome o quasi.
A causa della sua fama di santità, gli fu pure dedicato un oratorio ‘dentro le mura’ nel luogo, dove aveva miracolosamente spento un grosso incendio che devastava la città, ancora in vita godeva di grande venerazione.
Malgrado le fonti storiche, a Le Mans vi sono ancora due feste, il 25 agosto e il 1° settembre, data questa maggiormente radicata per celebrare s. Vittore vescovo
Autore: Antonio Borrelli
Secondo il Martirologio di Brescia, Arealdo e due suoi figli subirono il martirio al tempo dei Longobardi e precisamente durante l'anarchia succeduta nel 575 alla morte di Clefi. Nel 576 Alhisio, uno dei pretendenti al trono, iniziò una persecuzione contro i cristiani e in essa morì a Brescia Arealdo assieme ai suoi figli Carillo e Oderico. Il Fayno (Martirologium sanctae Brixianae Ecclesiae, Brescia 1675) afferma di aver desunto queste notizie da una cronaca di Octavius Rossius: tuttavia, mancando qualsiasi indizio sull'esistenza di quest'opera, il racconto di Fayno è ben poco attendibile. Del resto il Ferrari stesso afferma di ignorare tempo e luogo del martirio di Arealdo. Secondo alcuni autori Arealdo sarebbe morto nel 134, ma probabilmente essi credettero di trovarsi di fronte a un compagno dei ss. Faustino e Giovita. Ferrari afferma che nel 1305 il vescovo di Cremona Gerardo Maggi, bresciano, curò la traslazione delle reliquie di Arealdo nella cattedrale della città. Ma nel catalogo dei vescovi di Cremona non si riscontra il nome del Maggi, né si può pensare che Gerardo Maggi, vescovo di Brescia dal 1275 al 1309, abbia retto momentaneamente anche la diocesi adiacente, perché in essa dal 1296 al 1312 o 1313 governò Raniero. D'altra parte la prima traslazione, secondo il Fayno, portò le reliquie di A. a Cremona in una chiesa dedicata al suo nome, poi nel 1484 il canonico Isacco Restalli le trasferì nella cattedrale, presso l'altare del S.mo Sacramento, e infine l'8 giugno 1614 le spoglie di Arealdo discesero nella cripta della cattedrale medesima.
La festa di Arealdo si celebra a Brescia e a Cremona il 1 settembre, mentre i suoi figli non godono di culto alcuno. La tradizione locale intorno ad Arealdo sembra essersi formata non prima del sec. XV, tuttavia Arealdo pare non aver nulla a che vedere con s. Arialdo di Milano.
Autore: Antonio Rimoldi Fonte:Enciclopedia dei Santi
? - Skanninge, 1282
Fondatrice del Monastero di Skanninge.
Visse nella metà del XIII sec. nell'Ostergotland, provincia della Svezia. Dopo aver fatto con sua sorella e altre donne un pellegrinaggio in Terrasanta, vestì l'abito dell'Ordine nella città di Skànninge, in attesa che fosse fondato un convento di suore. Il suo desiderio divenne realtà grazie all'interessamento di fra Pietro di Dacia (1230-1289), che assistette spiritualmente queste religiose. Il 2 settembre 1282 morì, mentre era priora.
Martirologio Romano: A Skänninge in Svezia, beata Ingrid Elofsdotter, che, rimasta vedova, consacrò tutti i suoi beni alla gloria di Dio e dopo un pellegrinaggio in Terra Santa vestì l’abito delle monache dell’Ordine dei Predicatori.
Ingride, della nobile famiglia Elofsdotter, nata verso la metà del XIII° secolo, ricevette una nobile educazione, squisitamente cristiana. Anima di candidi ideali, visse fin dai primi anni in un fervore di pietà che non venne mai meno. Le virtù più eroiche parvero connaturali in lei, e quando giovanissima fu obbligata dai genitori a contrarre ricchissime nozze, tutto quello splendore mondano non l’abbagliò, continuando a vivere nel mondo senza essere del mondo. Rimasta presto vedova intraprese, con un devoto seguito di damigelle, un lungo pellegrinaggio in Terra Santa, dove il suo cuore si accese ancor più di tenero amore per il Salvatore Gesù. Dalla Palestina si recò poi a Roma e quindi a S. Giacomo di Compostella. Ritornata in Patria, un unico desiderio la dominava: consacrarsi per sempre a una vita di preghiera e di penitenza. Ma il demonio, acceso di rabbia infernale, le macchinò una terribile trama, cercando di oscurarne la fama presso i concittadini e d’insidiarne la stessa sua vita. Ma tutto andò a vuoto e la santa pellegrina, accolta con festosa venerazione, poté prestò compire i suoi voti e, aiutata da generosi benefattori, edificare un Monastero sotto la Regola di San Domenico, dove insieme a un bel numero di vergini si dedicò tutta alla contemplazione e alle sante austerità. Ciò avvenne il 15 agosto 1281 alla presenza del Re Magnus Ladulas, con l’aiuto e il sostegno del Domenicano Padre Pietro di Dacia e l’autorizzazione del Vescovo di Linkoping e del Provinciale. Morì il 2 settembre 1882, mentre era Priora di quel Monastero, in tanta fama di santità e compiendo meravigliosi prodigi, tanto che presto il suo culto si estese ai vicini popoli. Nel 1414 il Vescovo di Linkoping, Canuto Bosson, chiese alla Santa Sede l’autorizzazione per aprire il processo di Canonizzazione. Arenatosi nel 1448, il processo riprese agli inizi del secolo seguente. Pur non arrivando ad una formale canonizzazione, questi però portò alla solenne traslazione delle sue reliquie il 29 luglio 1507, per autorità di Papa Alessandro VI, presenti il Re, una gran folla, tutti i Vescovi della Svezia e ovviamente i Frati Predicatori di quella zona.
Autore: Franco Mariani
m. 3 settembre 1205
Le vicende di Alberto Besozzi ci sono state trasmesse dagli studiosi di storia locale e da antiche cronache che, nei secoli, hanno raccolto quanto, a partire dalla fine del XII secolo, oralmente si tramandava in tutta la zona del Lago Maggiore. Alberto nacque ad Arolo, da illustre famiglia milanese, ma rimase orfano di padre in tenera età. Aveva una posizione sociale agiata, l’avidità però lo portò a praticare l’usura e commerci poco leciti fino a quando, intorno al 1170, un incidente diede una svolta alla sua vita. Mentre con alcuni compagni si trovava in barca sul lago, viveva infatti commerciando da una costa all’altra del Verbano, tornando dal mercato di Lesa (il più antico della zona), venne sorpreso da una terribile tempesta. Credendo di essere ormai spacciato, preso da gran paura, invocò l’aiuto divino e promise di cambiar vita. In particolare, si rivolse a S. Caterina d’Alessandria di cui era molto devoto (il culto era vivo nella zona grazie all’influsso di quanti tornavano dalle crociate). Morirono tutti i suoi compagni, mentre lui approdò su una piccola insenatura nei pressi di Leggiuno, tra Ispra e Laveno, dov’era un sasso attaccato alla costa chiamato “Bàllaro", quasi a indicarne l’instabilità. Alberto, miracolato, dopo la terribile esperienza divenne riflessivo. Ne parlò con parenti e amici: voleva mantenere il voto e iniziò col porre rimedio alle sue malefatte. La moglie, anch’essa una nobile milanese molto pia, non solo l’assecondò, ma, di comune accordo, entrò in monastero. Alberto decise di ritirarsi, povero e solo, dove le onde durante la tempesta l’avevano gettato. Imitando Giovanni Battista, si sarebbe cibato di quanto la natura gli offriva e del pane che i naviganti ponevano nel cesto che calava dall’alto. A poco a poco crebbe la fama di santità dell’eremita dalla lunga barba e dai capelli bianchi. In molti si avventuravano fino alla sua grotta per riceverne consiglio. Persino una rappresentanza ufficiale dei vari paesi vicini, nel 1195, gli chiese di intercedere per la fine di una terribile pestilenza. Alberto, dopo otto giorni di ardenti orazioni, ottenne la grazia e, come segno di gratitudine, disse di costruire a fianco della grotta un piccolo tempio a modello di quello che era dedicato a Santa Caterina sul lontano Monte Sinai. Alla sua morte, nel 1205, ebbe sepoltura nella chiesetta e fu acclamato beato da tutti gli abitanti del Verbano, anche se il culto non fu mai ufficialmente approvato. Paolo Morigia, gesuita ed eminente storico vissuto nel XVI secolo, posticipa la vita del Besozzi di un secolo e mezzo.
Intorno al 1250 i domenicani giunsero a Sasso Bàllaro per assistere i pellegrini che in numero sempre maggiore visitavano la tomba di Alberto. Il corpo fu trovato incorrotto dopo circa un secolo e ancora oggi così si conserva. Nella cappella furono in poco tempo collocati numerosi ex-voto. Nel 1270 venne costruita dai nobili di Ispra la cappella di S. Maria Nova dopo che la zona fu liberata, per intercessione del beato, da branchi di lupi. Gli abitanti di Intra, nel 1310, costruirono la Chiesa di S. Nicolao, impreziosita da un ciclo di affreschi. Nel 1379 ai domenicani subentrarono gli eremitani di Sant’Agostino, poi arrivarono i religiosi di Sant’Ambrogio ad Nemus di Milano. Verso la metà del '400 i tre edifici furono conglobati in un solo Santuario, al quale venne affiancato un piccolo chiostro. Nel 1574 però una frana interruppe il sentiero che portava a Reno. Nel 1612 fu eseguita da Giovanni Battista De Advocatis una tela raffigurante l’eremita, oggi posta sull'altare maggiore. Intorno al 1640 avvenne un fatto straordinario che ne accrebbe la fama: alcuni massi caddero dalla parete rocciosa, sfondando la volta della cappella del Besozzi, arrestandosi però a breve distanza dalla tomba. Nonostante ciò, Papa Urbano VIII nel 1643 emise una bolla con la quale l’eremo venne soppresso, ma dal 1670, grazie ai Carmelitani di Mantova, vi fu una rinascita fino a quando, nel 1770, gli Asburgo ne ordinarono la chiusura, essendovi pochi religiosi. Per Santa Caterina del Sasso iniziò la fase di decadimento e in seguito il complesso fu ceduto alla parrocchia di Leggiuno. Il complesso nel 1914 fu dichiarato monumento nazionale, nel 1970 venne acquistato dalla Provincia di Varese che lo restaurò. Oggi se ne prendono cura gli Oblati Benedettini. I massi “miracolosi” furono rimossi solo nel 1983. Oasi di pace e preghiera, raggiungibile attraverso una lunga scalinata, il monastero, aggrappato ad un costone di roccia alto circa sessanta metri a strapiombo a 15 metri dall’acqua, offre una vista sul lago di straordinaria bellezza.
Autore: Daniele Bolognini
Etimologia: Febe = lucente, spendente, dal greco
Martirologio Romano: Commemorazione di santa Febe, serva del Signore tra i fedeli di Kenchris, in Grecia, che assistette insieme a molti altri il beato Paolo Apostolo, come egli stesso attesta nella Lettera ai Romani.
Fonte illustre, quanto laconica, su questa santa è lo stesso s. Paolo.
Da questo risulta che Febe aveva una mansione ecclesiastica presso la comunità cristiana di Cencre, piccola città portuale ad est di Corinto, sull'omonimo istmo. Vi ricopriva la carica di oráxovo; (= ministra), termine qui per la prima volta applicato a una donna nella Chiesa nascente e vi si può ben ravvisare, almeno in embrione, l'ufficio delle diaconesse che si affermò nella Chiesa nei secoli posteriori. Di tali donne sembra tratti s. Paolo anche in I Tim. 5, 9 sg., dove sono messe in rilievo le qualità familiari e morali necessarie alle vedove per essere elette: la vedova "deve avere non meno di sessanta anni; sia stata sposa di un solo marito, goda di buona riputazione per le sue opere buone, cioè per aver bene allevati i figliuoli, per avere praticata l'ospitalità, lavati i piedi ai santi, soccorsi i tribolati e per essersi dedicata a ogni opera buona". Da questo, qualcuno deduce che Febe fosse vedova di una certa età e di buona condizione sociale: il che le permetteva di dedicarsi alle buone opere sopra elencate, e in particolare all'ospitalità. Forse s. Paolo allude proprio all'ospitalità quando la loda per aver assistito molti, incluso lui stesso, cosa del resto molto plausibile anche per la posizione geografica di Cencre, dove convergeva un notevole traffico con le isole Egee e con l'Asia Minore. Ciò doveva offrire a Febe molte occasioni di assistere i viaggiatori cristiani provenienti da quelle terre.
Non sappiamo quale fosse il motivo del suo viaggio a Roma, ma vi è una certa tradizione che la vorrebbe latrice dell'Epistola ai Romani. Egualmente ignoti rimangono l'anno e il luogo del suo trapasso. Se, come sembra accertato, l'Epistota citata fu scritta nei primi mesi del 57, Febe, già allora forse oltre la sessantina, dovette venire a mancare tra quell'anno e, al più, qualche decennio appresso. Il suo culto, almeno in Occidente, è ben accertato, come attestano vari martirologi, compreso il Romano (3 settembre).
Autore: Giorgio Eldarov Fonte:Enciclopedia dei Santi
S. Michele di Pagana (Genova), 17 giugno 1610 – Piacenza, 3 settembre 1679
Nacque il 17 giugno 1610 a San Michele Pagana (Genova) sulla Riviera di Levante, sesta di undici figli, crebbe in ambiente profondamente cristiano. A 23 anni, il 14 ottobre 1633 sposò Matteo Zancano di Cremona. A 27 anni, l'11 novembre 1637 rimase vedova. Nel 1640 si trasferì a Piacenza, mettendosi sotto la direzione spirituale dei gesuiti. Nel 1646 raccolse alcune giovani nella sua casa a Parma, sotto la denominazione di Sant'Orsola. Diede così inizio alla congregazione delle Orsoline di Maria Immacolata. Morì a Piacenza il 3 settembre 1679. È stata beatificata da Giovanni Paolo II il 15 marzo 1998. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Piacenza, beata Brigida di Gesù Morello, che, rimasta vedova, si consacrò al Signore dedicandosi con tutte le forze alla penitenza e alle opere di carità e fondò la Congregazione delle Suore Orsoline di Maria Immacolata per l’educazione cristiana della gioventù femminile.
Brigida Morello fu una donna del suo tempo, il XVII secolo; una donna di grande fede che seppe vedere negli avvenimenti storici e soprattutto in quello che la riguardava e che le accadeva, la santa volontà di Dio.
“Dio ci è Padre e mai ci abbandonerà”; questa sicurezza di essere amata come una figlia, gratuitamente e incondizionatamente, la portò ad amare spassionatamente ogni fratello che le viveva accanto.
Nacque il 17 giugno 1610 a S. Michele di Pagana (Genova) sulla Riviera di Levante, sesta di undici figli, crebbe in ambiente profondamente cristiano. A 23 anni, il 14 ottobre 1633, sposò Matteo Zancano di Cremona e stabilendosi con il marito a Salsomaggiore (Parma), dove mise in pratica le sue virtù.
A 27 anni, l’11 novembre 1637 rimase vedova, allora fece voto di castità, desiderando diventare una religiosa, ma tentò inutilmente di entrare tra le cappuccine del luogo, il suo stato vedovile lo impedì.
Nel 1640 si trasferì a Piacenza mettendosi sotto la direzione dei gesuiti, che poi la guidarono sempre e la sostennero nella via della perfezione, specie da parte di padre Antonio Morando suo confessore e primo biografo.
Per adempiere al desiderio della duchessa di Parma e Piacenza, Margherita de’ Medici, la quale voleva dotare Piacenza di un Istituto di Orsoline per l’educazione della gioventù femminile, come quello già esistente a Parma, Brigida Morello raccolse dal settembre 1646 alcune giovani donne nella sua casa, sotto la denominazione di S. Orsola, dando così inizio il 17 febbraio 1649, giorno delle Ceneri, con cinque compagne una nuova famiglia di Orsoline, sotto la guida dei Gesuiti.
Non fu tuttavia la prima superiora, ma soltanto nel 1665 venne eletta a tale carica, venendo riconfermata nel 1670 e nel 1675; le sue precarie condizioni di salute non le impedirono di governare anche nei lunghi periodi a letto, la sua Congregazione delle Orsoline di Maria Immacolata.
Morì a Piacenza il 3 settembre 1679 e sepolta nella locale chiesa di S. Pietro, oggi non resta traccia della sua tomba, di lei restano un certo numero di lettere, alcuni scritti autobiografici e altri di edificazione, da cui si ricava una esatta visione delle esperienze spirituali della fondatrice.
Ma soltanto negli anni 1927-28 fu celebrato a Piacenza il processo ordinario per la sua beatificazione; il decreto sull’eroicità delle virtù si ebbe il 29 aprile 1980.
Papa Giovanni Paolo II l’ha beatificata il 15 marzo 1998.
Autore: Antonio Borrelli Fonte:www.orsoline.eu
Oggi si festeggiano due grandi personaggi dell'Antico testamento: Mosè, sposo di Sefora e San Giuseppe, figlio di Giacobbe, sposo di Asenat e padre di Beniamino e Manasse, ricordiamo poi Sant'Ida e Sant'Imergarda.
Etimologia: Mosè = salvato dalle acque, dall'ebraico
Martirologio Romano: Commemorazione di san Mosè, profeta, che fu scelto da Dio per liberare il popolo oppresso in Egitto e condurlo nella terra promessa; a lui si rivelò pure sul monte Sinai dicendo: «Io sono colui che sono», e diede la Legge che doveva guidare la vita del popolo eletto. Carico di giorni, morì questo servo di Dio sul monte Nebo nella terra di Moab davanti alla terra promessa.
Su questa grande figura di profeta e legislatore del popolo ebraico, si possono scrivere interi volumi riguardanti la sua storia personale e quella degli ebrei; come pure per tutta la sua opera di condottiero, profeta, guida e legislatore del suo popolo.
Bisogna per forza, dato lo spazio ristretto, citare solo i passi salienti della sua vita. Egli è prima di tutto l’autore e legislatore del ‘Pentateuco’, nome greco dei primi 5 libri della Bibbia, denominati globalmente dagli ebrei “la Legge”, perché costituiscono la fase storica, religiosa e giuridica del popolo della salvezza.
Quasi tutta l’opera è dedicata al personaggio e all’opera di Mosè, per mezzo del quale Dio fondò il suo popolo; i “libri di Mosè” sono: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, essi vanno dalla creazione del mondo alla morte di Mosè.
Visse 120 anni, nel XIV-XIII secolo a. C. e gli ultimi 40 anni della sua vita li dedicò interamente al servizio di Iahweh e di Israele; fu la più elevata figura del Vecchio Testamento e uno dei più grandi geni religiosi di tutti i secoli.
Dio lo preparò a tale compito nei primi 80 anni di vita; nacque durante il periodo più tormentato della persecuzione egiziana contro gli israeliti, sotto il faraone Thutmose III, quando ‘ogni neonato ebreo, doveva essere gettato nel Nilo’, Mosè terzogenito dopo Maria ed Aronne, appartenente alla tribù di Levi, dopo averlo tenuto nascosto per tre mesi, fu posto in un cesto di papiro, spalmato di pece e deposto fra i giunchi della sponda del fiume, mentre la sorella da lontano, controllava.
La figlia del faraone, scese al fiume per bagnarsi e notò il bambino, intenerita lo raccolse e a questo punto la sorella Maria, esce allo scoperto chiedendo se avevano bisogno di una nutrice per allattarlo e propose Iochabed sua madre, la principessa accettò e quindi il bambino, fu ridato senza saperlo alla madre naturale che lo allattò, portandolo poi alla corte alla figlia del Faraone, che lo allevò come un figlio dandogli il nome di Mosé (in egiziano: ragazzo, figlio).
Il ragazzo ebreo ricevé alla corte un’educazione culturale perfetta, più unica che rara, che solo la corte egiziana a quell’epoca poteva dare, che andava dalla letteratura egiziana, alla legislazione babilonese alle leggi e costumi degli Ittiti.
Verso i 40 anni poté vedere la desolazione in cui vivevano i suoi fratelli ebrei, arrivando ad uccidere un egiziano che percuoteva selvaggiamente uno schiavo israelita; purtroppo per lui, un ebreo collaboratore degli egiziani, svelò l’accaduto e il faraone condannò Mosè, egli dovette fuggire nel deserto del Sinai.
Qui incontrò nel suo esilio, una tribù nomade, il cui capo Ietro gli dette in moglie la figlia Sefòra, accogliendolo fra loro; nel silenzio della steppa, alla guida del gregge di pecore di Ietro, Mosè ha l’opportunità di meditare, di percepire la presenza di Dio, senza le distrazioni delle magnificenze della corte egiziana e nella solitudine del deserto, avverte la sua pochezza davanti al creato.
E nel deserto Dio si rivela, ai piedi del Sinai, dove un rovo è in fiamme senza spegnersi, Mosè accostatasi sente chiamarsi e la voce gli dice di togliersi i sandali perché quel luogo è sacro. Il Dio dei patriarchi gli ordina di andare dal Faraone per liberare il suo popolo oppresso e condurlo in Canaan, formandone una Nazione e per essere creduto sia dagli egiziani, che dagli ebrei, Iahweh gli dà il potere di compiere miracoli, consegnandogli un bastone con cui operarli.
Mosè tornato in Egitto insieme al fratello Aronne si reca dal successore del faraone Thutmose III, il figlio Amenophis II (1450-1423 a. C.) e chiede la liberazione del popolo ebraico in schiavitù e il permesso di allontanarsi nel deserto per la loro strada. All’ostinato rifiuto del faraone, seguono le celebri “dieci piaghe” che colpiscono l’Egitto per ordine di Mosè; le prime nove sono legate a fenomeni naturali ma che accadono in forma straordinaria, come l’invasione d’insetti dannosi ad ondate, invasione di rane, ecc. l’ultima invece più terribile è la morte dei primogeniti che avviene in una notte, compreso il figlio del faraone.
A questo punto il faraone, concede, anzi ordina, che gli ebrei vadano via e in quello stesso giorno inizia l’Esodo nella direzione del Mar Rosso. Qui avviene il grande miracolo dell’attraversamento del mare, che si apre davanti agli ebrei, permettendo loro di fuggire dalla cavalleria egiziana, che il Faraone pentito aveva inviato al loro inseguimento; il mare poi si richiuderà sui cavalieri egiziani annegandoli tutti.
Questo prodigio è stato magistralmente rappresentato nel celebre film “I dieci Comandamenti” del regista Cecil B. De Mille. È sempre Mosè l’intermediario fra Dio e il suo popolo, che ormai migrando nel deserto, si nutre con i prodigi di Iahweh, operati da Mosè; acqua che sgorga dalle rupi, la caduta della manna, la cattura delle quaglie, ecc.
Dopo tre mesi arrivano alle falde del Sinai, dove Mosè salito sul monte riceve le Tavole dell’Alleanza, l’avvenimento più importante e decisivo della storia d’Israele; esse sono la costituzione e la sanzione dell’alleanza fra Iahweh e la nazione d’Israele. Mosè vi appare in una grandezza sovrumana, in intima familiarità con Dio; quando Aronne e i suoi lo rivedono scendere dal monte con il Decalogo, il suo volto irraggia l’eterna luce, riflesso dello splendore divino e hanno addirittura timore di avvicinarlo.
Ma mentre Mosè era sul monte, il suo popolo, nell’attesa prolungata, cedette alla tendenza idolatrica, costruendo un vitello d’oro e abbandonandosi a festini, ubriachezze e immoralità. Dio manifesta a Mosè che dopo tale tradimento vuole distruggere gli ebrei e costituirlo capostipite di una nuova stirpe. Ma Mosè rifiuta, intercedendo per loro e ottenendo il perdono dalla sua infinita misericordia.
Un anno dopo, gli ebrei già dimentichi del perdono ricevuto, minacciano Mosè di lapidarlo, perché gli esploratori ritornati dalla terra di Canaan, avevano parlato di enormi difficoltà di vita, quindi alla loro guida rimproveravano di averli portati a morire nel deserto, era meglio ritornare in Egitto. Ancora una volta Dio vuole punire questo popolo ingrato e Mosè intercede di nuovo, ma Dio, stabilirà che la generazione dell’esodo non entrerà nella Terra promessa, tutti moriranno nel deserto, dove vagheranno per 38 anni.
E con questo popolo recalcitrante e indocile, Mosè convive cercando di portarlo al monoteismo, formulando nell’oasi di Cadesh, sotto la tenda-santuario, tutta una legislazione, da dare come guida ad un popolo in formazione. Passati 40 anni si riprese la migrazione nel deserto e la nuova generazione non sembrava meno ostile della precedente, ribellandosi per quel cammino senza fine, ma anche senza la loro fede.
Dio, a Mosè ed Aronne prostrati che invocano il suo aiuto, dice di percuotere con il bastone una roccia e Mosè radunato il popolo per rincuorarli, percuote due volte la roccia e l’acqua sgorga in abbondanza. Il percuotere due volte, sembra un momento d’incertezza e dubbio da parte di Mosè ed Aronne, per cui Dio dice che giacché non avevano avuto piena fede in Lui, non avrebbero avuto il compito di introdurre il popolo nella terra promessa.
Infatti, dopo aver conquistato la Transgiordania e ripartito il territorio alle varie tribù, Mosè trasmette la sua autorità a Giosuè, quindi sul monte Nebo, contempla da lontano la ‘terra promessa’ e con tale visione muore.
Mosè fu dunque l’eletto del Signore e il segno della scelta divina fu sempre su di lui, fin dall’infanzia, protagonista di una straordinaria vicenda umana; primo vero tramite fra Dio e il suo popolo e in senso lato fra Dio e gli uomini.
Autore: Antonio Borrelli
circa 1700 a.C.
Figlio di Giacobbe e di Rachele, annoverato tra i grandi patriarchi dell’Antico Testamento, divenne il vice del faraone egiziano. La sua festa, traente origine dal Martirologio Gerosolimitano, si celebrava a Gerusalemme il 4 settembre.
Giuseppe è il penultimo dei dodici figli di Giacobbe ed il primo dei due figli (con Beniamino) della moglie Rachele. Egli è il padre di Efraim e Manasse dai quali discendono le due omonime tribù.
Venduto dai fratelli
Secondo il Libro della Genesi (37-50, con tracce anche nell'Esodo e nel Libro di Giosuè), Giuseppe è il figlio prediletto di suo padre Giacobbe. Giacobbe infatti riversa su di lui l'amore che aveva per la sua moglie preferita Rachele, morta alla nascita di Beniamino. Questa preferenza del padre, che si manifesta sotto la forma di una tunica donatagli all'età di 17 anni, alimenta la gelosia dei suoi fratellastri. La gelosia è alimentata anche dai sogni di Giuseppe: nel primo undici covoni di grano (rappresentanti i suoi undici fratellastri) si inchinano davanti al covone di grano confezionato da Giuseppe; nel secondo undici stelle, il sole (rappresentante il padre Giacobbe) e la luna (rappresentante la matrigna Lia) si prostrano davanti a Giuseppe (cfr. Genesi 37,2-8).
Un giorno quando Giuseppe raggiunge i suoi fratelli che pascolano i greggi, essi complottano contro di lui. Il primogenito Ruben si oppone all'uccisione di Giuseppe, preferendo che venga gettato in fondo ad un pozzo. Giuda propone infine di venderlo ad una carovana di mercanti ismaeliti di passaggio. Per venti monete d'argento, Giuseppe diventa schiavo e viene condotto dai mercanti in Egitto. I suoi fratelli utilizzano la tunica e del sangue di capra per far credere al padre Giacobbe che Giuseppe è stato ucciso dai briganti (cfr. Genesi 37,12-33).
La moglie di Potifar e l'interpretazione dei sogni
Arrivato in Egitto, Giuseppe è rivenduto come schiavo a Potifar (Putifarre), un ufficiale del faraone, di cui diventa l'intendente. Essendo molto abile nel suo lavoro, Giuseppe fece prosperare negli anni le attività del suo padrone e si guadagnò la sua stima. Tuttavia la sua posizione favorevole mutò completamente quando la moglie di Potifar, incapricciatasi dello schiavo, tentò di sedurlo, senza successo. Per vendicarsi dell'umiliazione subita, la donna accusò Giuseppe di aver tentato di usarle violenza e chiese al marito che il giovane fosse punito.
Giuseppe viene giudicato colpevole e rinchiuso in prigione, dove divide la cella con il coppiere e il panettiere del faraone, caduti in disgrazia. Un mattino i due uomini si svegliano e raccontano entrambi di aver fatto un sogno. Giuseppe li ascolta e interpreta le loro visioni. Al coppiere predice che sarà riconosciuto innocente e che riavrà la sua funzione a servizio del faraone; al panettiere invece annuncia che sarà condannato e decapitato. Tre giorni più tardi i sogni si realizzano, come li aveva interpretati Giuseppe.
Il coppiere, rientrato a palazzo, suggerisce al faraone, due anni più tardi, di ricorrere a Giuseppe per interpretare due sogni che nessuno dei suoi maghi è riuscito a comprendere. Nel primo apparivano sette vacche grasse e sette vacche magre, mentre nell'altro si vedevano sette spighe piene e sette vuote. Giuseppe, condotto alla presenza del faraone, spiega i sogni premonitori e mette in guardia il sovrano. Predice infatti sette anni di abbondanti raccolti (sette vacche grasse e sette spighe piene) seguiti da sette anni di carestia (sette vacche magre e sette spighe vuote). Giuseppe si guadagna la fiducia del faraone suggerendogli di fare delle scorte negli anni di abbondanza in modo da poterne usufruire in quelli di carestia. Il faraone favorevolmente impressionato dalla saggezza di Giuseppe lo libera dalla prigione e gli affida une ruolo di rilievo nella conduzione dell'Egitto.
Governatore d'Egitto
Giuseppe si sposa con un'egiziana di nome Asenat ed ha due figli: Efraim e Manasse. Durante i sette anni di abbondanza Giuseppe organizza la costituzione di riserve alimentari in grado di sfamare il popolo nei periodi di carestia e, quando la fame si abbatte sull'Egitto, è qui che tutte le popolazioni della regione e quelle confinanti, si riversano in cerca di approvvigionamenti. Tra i postulanti arrivano in città anche i fratelli di Giuseppe, inviati da Giacobbe, (eccetto Beniamino), per comprare del grano. Giuseppe li riconosce senza essere a sua volta riconosciuto. Per vendicarsi del loro comportamento passato, li fa incarcerare con un futile pretesto ma poi, desideroso di rivedere il fratello minore, Giuseppe escogita un sotterfugio. Decide quindi di tenere in ostaggio solo Simeone, e libera tutti gli altri, ingiungendo però loro che per salvare Simeone dovranno tornare in Egitto, accompagnati dal fratello più giovane. Afflitti, i nove fratelli lasciano il palazzo e di lì a qualche tempo si ripresentano con Beniamino. Giuseppe, soddisfatto, libera Simeone e finge magnanimità lasciandoli partire tutti insieme. Di nascosto però fa collocare una coppa dorata nel sacco di Beniamino e con questo pretesto lo fa accusare di furto. Giuseppe minaccia di far incarcerare Beniamino ma Giuda si offre di prendere il suo posto per far sì che possa tornare dal padre Giacobbe, il quale morirebbe di dolore se perdesse anche questo figlio. Giuda rivela che la perdita di Giuseppe è già stato un colpo durissimo per l'anziano e che un'altra tragedia di questo tipo sarebbe fatale per lui. Vedendo come i suoi fratelli sono protettivi nei confronti di Beniamino, e quanto il loro comportamento è diverso da quello che avevano riservato a lui, Giuseppe, commosso, rivela la sua vera identità. La sorpresa è grande ma la gioia di ritrovare Giuseppe vivo lo è ancora di più e, convintosi che il loro pentimento è sincero, Giuseppe perdona i suoi fratelli ed invita tutta la famiglia a stabilirsi in Egitto. (cfr. Genesi 42-45).
Giacobbe alla vigilia della sua morte adotta come figli Efraim e Manasse e li benedice. Giuseppe ed i suoi fratelli fanno seppellire Giacobbe in terra di Canaan (cfr. Genesi 48-49).
Giuseppe muore all'età di 110 anni. Il suo corpo viene imbalsamato alla maniera egiziana e sarà riportato in terra di Canaan durante l'esodo (cfr. Genesi 50).
fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Westfalia, 766 ca. – Herzfeld, Germania, 4 settembre 825
Fu la prima santa della Vestfalia. Nata nel 775, questa contessa franca fondò nel 790, assieme al marito, una chiesa a Herzfeld (diocesi di Münster), secondo le indicazioni ricevute in sogno. Nell'811 rimase vedova e si prese cura degli indigenti della regione fino al 4 settembre 825, giorno della sua morte. Ida, che veniva chiamata "madre dei poveri", fondò la prima comunità cristiana della Vestfalia meridionale. Fu canonizzata nel 980, data della prima "Identracht", la processione per le vie di Herzfeld con le reliquie della santa. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Heresfeld nella Sassonia, in Germania, santa Ida, vedova del duca Ecberto, insigne per la carità verso i poveri e l’assiduità nella preghiera.
È certamente uno dei più eclatanti casi di membri di intere famiglie e generazioni del Medioevo, votati alla vita religiosa, così sentita in quell’epoca.
Santa Ida, nacque nel 766 ca. in Westfalia (regione storica della Germania, tra il Weser e il Reno) e visse al tempo di Carlo Magno (742-814); i suoi cinque fratelli e sorelle, tutti scelsero la vita religiosa, due di essi Wala e Adalhard divennero abati di Corvey.
Dopo aver trascorso una giovinezza esercitando le virtù e pietà cristiane, sposò il duca di Sassonia, Ekbert, da lei amorevolmente curato durante una lunga malattia.
Dalla loro felice unione nacquero cinque figli, dei quali tre scelsero la vita religiosa, una figlia la venerabile Hadwig, fu badessa ad Herford e nello stesso convento fu suora anche la figlia Adela; mentre il figlio, venerabile Varin divenne più tardi abate di Corvey; gli altri due figli occuparono posti di rilievo nella società dell’epoca.
Insieme al marito Ekbert, condussero una vita cristiana esemplare e fecero costruire una chiesa ad Herzfeld (diocesi di Münster), seguendo le indicazioni ricevute in un sogno.
Nell’811 quando aveva 45 anni, rimase vedova e Ida dopo aver sistemato dignitosamente i suoi figli, si ritirò presso la chiesa da lei fatta edificare ad Herzfeld, non lontano dal suo castello di Hoverstadt.
Nel locale attiguo alla chiesa, dove prese a vivere, si dedicò ad opere di pietà, di mortificazione e di carità verso i poveri della regione, donando loro il necessario con l’utilizzo dei suoi beni.
Ida, che veniva chiamata la “madre dei poveri”, contribuì in modo determinante a fondare la prima comunità cristiana della Westfalia meridionale. Morì ad Herzfeld il 4 settembre 825 e seppellita accanto alla chiesa, dove aveva già fatto seppellire il marito.
Il 26 novembre 980 il vescovo di Münster, mons. Dodo, effettuò “l’elevazione” delle sue reliquie, cioè la canonizzò (proclamò santa), secondo il rituale della Chiesa di quell’epoca.
Nella stessa data ci fu la prima processione (Identracht) con le sue reliquie per le strade di Herzfeld; la sua tomba divenne meta di pellegrinaggi.
Sant’Ida è particolarmente invocata dalle donne in procinto di partorire; la sua festa si celebra il 4 settembre e ad Herzfeld è ricordata anche il 26 novembre, data della canonizzazione.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: A Colonia in Lotaringia, nell’odierna Germania, santa Irmgarda, che, contessa di Süchteln, impegnò tutti i suoi beni nella costruzione di chiese.
Treviso, 7 marzo 1845 – Pisa, 7 ottobre 1918
Professore di economia politica, fu uno dei maggiori ideologi della politica dei cattolici italiani e uno degli artefici del loro inserimento nella vita pubblica.
Giuseppe Toniolo nacque a Treviso il 7 marzo 1845; si laureò in giurisprudenza a Padova nel 1867, rimase nello stesso Ateneo in qualità di assistente, sino al 1872, trasferendosi successivamente prima a Venezia, dove insegnò Economia Politica, poi a Modena e infine a Pisa, quale docente universitario ordinario, incarico che occupò fino alla sua morte avvenuta nel 1918.
È necessario dare uno sguardo alla società politica in cui si trovò ad operare; dopo la Rivoluzione Francese ed il periodo napoleonico, che avevano sconvolto la Francia e l’intera Europa e dopo il Congresso di Vienna del 1815, si auspicò un ritorno all’antico legame fra la Chiesa e la società civile, che l’Illuminismo aveva incominciato a distinguere.
Ma il potere civile, sostenuto dalle dottrine della sovranità nazionale, diventava sempre più autonomo dalla vita religiosa; verso la metà del secolo, il filosofo danese Soren Kirkegaard (1813-1855), ritenendo ancora possibile la cristianità, notò che questa aveva abolito il cristianesimo senza accorgersene, quindi bisognava operare affinché il cristianesimo venisse reintrodotto nella cristianità.
Il mutato rapporto fra autorità civile e autorità religiosa, spinse molti cattolici di vari Paesi d’Europa, ad organizzarsi in movimenti di attiva opposizione alla nuova realtà politica e il 20 e 21 agosto 1863, fu organizzato a Malines in Belgio, il primo Congresso Cattolico Internazionale, al quale parteciparono le varie Associazioni sorte in Europa, tranne l’Italia rappresentata solo da quattro laici e due monsignori.
Questo perché in Italia tutto fu complicato dalla “Questione Romana”, e in particolare dal potere temporale del papato su una parte del territorio italiano, rivendicato dal Regno d’Italia costituitosi nel 1862; creando così una frattura nella coscienza di molti cattolici.
I laici italiani erano aggregati in associazioni limitate alle plurisecolari confraternite, con scopi di una particolare devozione religiosa, mutuo aiuto fra soci e attuando opere di carità.
Ormai era tempo di un nuovo associazionismo cattolico e nel 1867 in occasione del terzo Congresso di Malines, la prestigiosa rivista gesuita “La Civiltà Cattolica”, incitò i cattolici italiani, a formare associazioni, coalizioni, congressi, perché “questi mezzi sono, posto lo stato presente della società, efficacissimi”, non si poteva lasciarli agli avversari del cattolicesimo che se ne avvalevano contro.
E già il 29 giugno 1867, sorse la “Società della Gioventù Cattolica Italiana”, primo nucleo della successiva “Azione Cattolica Italiana”; intanto gli eventi politici precipitarono con la breccia di Porta Pia a Roma del 29 settembre 1870, la protesta di papa Pio IX che si chiuse in Vaticano; poi nel 1871 l’Italia emise le Leggi delle Guarentigie che assicuravano gli onori sovrani al pontefice e il godimento del Vaticano; nel luglio 1871 Roma divenne capitale d’Italia.
L’11 ottobre 1874 i contrasti non erano per niente finiti e il papa con il “non expedit”, vietò ai cattolici di candidarsi o di recarsi alle urne, trasformato nel divieto assoluto (non licet) del 29 gennaio 1877.
Dopo l’Azione Cattolica, sorsero in Italia una miriade di società, pie unioni, circoli, opere sociali, con una conseguente dispersione di energie, che resero necessaria la costituzione di un organismo coordinatore nel rispetto delle singole autonomie.
Il 26 settembre 1875, durante il secondo Congresso generale dei cattolici italiani, si creò l’”Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici”, il cui primo Presidente fu Giovanni Acquaderni, fondatore con il conte Mario Fani, dell’Azione Cattolica.
Nella scia di questa Organizzazione, il 29 dicembre 1889 durante un convegno a Padova, venne costituita l’”Unione cattolica per gli studi sociali”, il cui presidente e fondatore fu il professor Giuseppe Toniolo, il quale nel 1893, la dotò del periodico “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie”.
Ormai si era in un periodo pieno di fermenti politici, religiosi e culturali; il pensiero marxista spostava l’attenzione sulle condizioni delle masse proletarie, denunciandone le disagiate condizioni di vita e di lavoro, inoltre in campo economico, le idee di utilitarismo e di liberismo economico, sostenevano dannoso per la stabilità, qualunque intervento che potesse influire sull’azione delle componenti macroeconomiche; senza dimenticare che era il periodo della famosa enciclica sociale “Rerum Novarum” di papa Leone XIII, con la quale la Chiesa prendeva ufficialmente posizione in merito alla situazione operaia di quel tempo.
Giuseppe Toniolo, elaborò così una sua teoria, personale, sociologica, affermante il prevalere dell’etica e dello spirito cristiano sulle dure leggi dell’economia.
Propose una soluzione del problema sociale, che rifiutava sia l’“individualismo” del sistema capitalistico, che il “collettivismo” esasperato, propagato dal socialismo, attraverso la costituzione di corporazioni di padroni e lavoratori, riconosciute dallo Stato.
Nei suoi numerosi scritti, il Toniolo propose varie soluzioni: il riposo festivo, la limitazione delle ore lavorative, la difesa della piccola proprietà, la tutela del lavoro delle donne e dei ragazzi.
Dal punto di vista religioso, Giuseppe Toniolo fu fautore di un’azione più decisa dei cattolici in campo sociale, al fine di una loro determinante partecipazione all’evoluzione storica di quegli anni, da qui le sue tante fondazioni.
Dal 1894 divenne uno degli animatori del movimento della “democrazia cristiana”, le cui basi furono esposte nel cosiddetto ‘programma di Milano’, con principi e proposte per il rinnovamento in senso cristiano della società.
Nel 1897 l’Opera dei Congressi, controllava 588 Casse Rurali, 668 Società Operaie, 708 Sezioni di giovani, una forza consistente, alla cui ombra sorgevano e si sviluppavano molte iniziative di forte impegno sociale.
Fondandosi sui suoi studi di storia economica medioevale della Toscana, oppose ai marxisti l’importanza dei fattori etici e spirituali sullo sviluppo dell’economia e difese il valore economico-sociale della religione, conciliando così fede e scienza.
Nel 1908 pubblicò il “trattato di economia sociale”, opera fondamentale per l’incidenza che ebbe sul nuovo movimento sociale cattolico italiano all’inizio del Novecento, che ben presto, sviluppò il sindacalismo cattolico (detto ‘bianco’ per distinguerlo da quello diretto da ‘rossi’); i cattolici dopo la sospensione del “non expedit” parteciperanno in massa alle lezioni del 1913, ottenendo per la prima volta dopo l’Unità d’Italia, una ventina di deputati cattolici.
Oltre alla sua opera fondamentale già citata, Toniolo scrisse: “La democrazia cristiana” (1900); “Il socialismo nella storia della civiltà” (1902); “L’odierno problema sociologico” (1905); “L’unione popolare tra i cattolici d’Italia” (1908).
Degno sposo e padre di famiglia, professore emerito e apprezzato nell’Università, dirigente e fondatore di opere sociali, scrittore fecondo di economia e sociologia, cristiano tutto d’un pezzo e fedele alla Chiesa, stimato dai pontefici del suo tempo, amico e consigliere del Beato Bartolo Longo, nella fondazione del Santuario e opere annesse di Pompei; morì fra il cordoglio generale, il 7 ottobre 1918 a Pisa.
Il 7 gennaio 1951 fu introdotta la Causa per la sua beatificazione e il 14 giugno 1971 fu emesso il decreto sulle sue virtù con il titolo di ‘venerabile’.
E' stato beatificato a Roma, Basilica San Paolo Fuori le mura, il 29 aprile 2012.
La sua memoria liturgica è stata fissata al 4 settembre, giorno del matrimonio.
Autore: Antonio Borrelli
Pascual Torres Lloret, fedele laico, nacque il 23 gennaio 1885 a Carcagente (Valencia) fu battezzato il 25 gennaio 1885 e cresimato il 22 febbraio 1894 nella chiesa parrocchiale dove si sposò con la sig.na Leonor Pérez Canel il 5 ottobre 1911. Ebbero cinque figli. Costruttore, visse nella giustizia sociale il rapporto di lavoro con i suoi operai. Aderì all’Azione Cattolica e fu per tutta la sua vita un esemplare e ottimo collaboratore del suo parroco. Durante la persecuzione conservò a casa sua il Santissimo Sacramento. Lavorò in favore dei lebbrosi di Fontilles. Soffrì quattro detenzioni, l’ultima il 6 settembre 1936 ed alla mezzanotte fu martirizzato nel Cimitero di Carcagente. La sua beatificazione è stata celebrata da Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001.
Martirologio Romano: Nel villaggio di Carcaixent nel territorio di Valencia sempre in Spagna, beato Pasquale Torres Lloret, martire, che, padre di famiglia, portando la croce di Cristo, meritò di giungere al premio celeste.
Mani callose e cuore di galantuomo: anche questo, insieme al martirio per la fede, ha avuto il suo peso nel processo di beatificazione che l’11 marzo 2001 ha portato Pasquale Torres Lloret alla gloria degli altari. Nasce il 23 gennaio 1885 nella provincia spagnola di Valenza, a Carcagente, dove la sua famiglia si distingue per l’estrema, ma dignitosa povertà in cui vive. E Pasquale morirà povero com’era sempre vissuto, perché da questa povertà non riuscirà a riscattarsi mai, neppure quando diventa capomastro nei cantieri edili.
Oltre che estremamente onesto, per cui proprio non gli riesce di approfittare delle occasioni o di ingannare il prossimo, ha per di più un elevato senso di giustizia sociale. Ed è in nome di quest’ultima che non intasca mai il 10% che, per antica consuetudine locale, gli operai a lui sottoposti gli dovrebbero giornalmente versare; non solo: molte volte la sua paga giornaliera va a finire nelle tasche di qualche operaio più povero di lui, che non riesce a sbarcare il lunario. Carità tanto più eroica, se si pensa che anche Pasquale ha quattro figli da mantenere; buon per lui che la moglie non solo non lo ostacola, ma lo asseconda in quest’opera di carità e anche nel fervore religioso.
Già, perché di Pasquale non si riuscirebbe a capire nulla se non si sottolineasse che quest’uomo è onesto, caritatevole e giusto proprio perché cristiano fervente. Ogni sua giornata inizia con la messa e la comunione e termina con il rosario, recitato in famiglia. Ogni suo momento libero dagli impegni di lavoro è dedicato alla Conferenza di San Vincenzo, all’associazione dei Padri di Famiglia, al lebbrosario di Fontilles dove si reca non soltanto per una visita di cortesia ma anche per curare ed assistere personalmente i malati. Non c’è associazione cattolica di Carcagente che non possa contare sulla sua adesione e sulla sua partecipazione attiva e oggi nel suo paese lo considerano un po’ come il precursore dell’Azione Cattolica.
Quest’uomo, che fa dei veri e propri equilibrismi per conciliare lavoro e impegno ecclesiale, senza dimenticare di essere padre premuroso e marito affettuoso, riesce anche a rubare ore al sonno per l’adorazione notturna e nel 1932 è in prima fila per fondare il primo ramo dell’Azione Cattolica. Ovviamente il parroco può contare a occhi chiusi su un tal cristiano tutto d’un pezzo, che in breve tempo diventa il suo braccio destro. Allo scoppio della persecuzione religiosa, che insanguina la Spagna dall’inizio degli Anni Trenta, Pasquale finisce ovviamente subito nell’occhio del ciclone perché “è troppo cattolico” e perché “fa le stesse cose del prete”: lui non si spaventa e non si agita, semplicemente raddoppia la preghiera e la penitenza perché nel Paese già martoriato non scorra altro sangue innocente.
Quando chiese e conventi vengono incendiati e saccheggiati, il parroco affida a Pasquale le ostie consacrate per preservarle dalla profanazione, perché sa di metterle in buone mani. Davanti a Gesù eucaristico, accuratamente nascosto in casa sua, Pasquale si alterna alla moglie in turni di veglia che si trasformano in sofferta preghiera. Ed è lui, quando il parroco è impedito o troppo strettamente sorvegliato, a portare la comunione ai malati o a scortare il sacerdote di turno per accompagnarlo nelle varie case in cui si celebra l’eucaristia in un clima da catacombe.
Tanto attivismo non può certo passare inosservato ai miliziani e per tre volte viene interrogato e trattenuto diverse ore: pur senza usargli violenza, vogliono intimorirlo e fargli sentire che ha il fiato sul collo. Non vuole nascondersi, non pensa di scappare, anzi, continua a nascondere in casa sua paramenti e vasi sacri dietro muri e tramezzi che tira su di notte, rischiando grosso, mentre la porta di casa sua è sempre aperta per ospitare suore e religiosi perseguitati. Il 25 luglio 1936 lo arrestano mentre serve messa; lo mettono in libertà 4 giorni dopo, intimandogli una specie di arresto domiciliare, ma pur non potendo varcare la soglia di casa continua ad essere punto di riferimento per l’intera parrocchia.
I miliziani si ripresentano a casa sua il 5 settembre sul mezzogiorno: Pasquale, reduce da una colica notturna, li segue, dolorante ma rassegnato, preoccupato solo che si riesca a trasferire in tempo il Santissimo Sacramento dalla sua in una casa più sicura e salvarlo così dalla profanazione. Una delle figlie, quando la sera lo va a trovare nel collegio trasformato in carcere, può constatare che papà è forte come sempre, anche se provato dagli interrogatori, dalle minacce e dalle violenze subite; sereno e rassegnato, anche se cosciente che la morte sta per arrivare. Il mattino dopo non lo trova più: all’alba è stato trasferito, insieme agli altri condannati a morte, nel cimitero di Carcagente e qui, confortando e incoraggiando gli altri, è stato fucilato. Era, questo, l’unico modo con cui i miliziani potevano fermare quel cristiano tutto d’un pezzo, che non aveva avuto paura di testimoniare la sua fede anche davanti al plotone d’esecuzione.
Autore: Gianpiero Pettiti
Martirologio Romano: A Nagasaki in Giappone, beati martiri Tommaso Tsuji, sacerdote della Compagnia di Gesù, Ludovico Maki e suo figlio Giovanni, condannati al rogo in odio alla fede cristiana.
Oggi, festa della Natività di Maria, è una giornata particolarmente ricca di Santi sposi! Segnalo senza dubbio il Beato Federico Ozanam, molto vera e interessante anche la vita della Beata Serafina Sforza, così come bella la vita, forse leggendaria, dei Santi Adriano e Natalia...
Milano, 23 aprile 1813 - Marsiglia (Francia), 8 settembre 1853
Il francese Federico Ozanam, fondatore della Società di San Vincenzo, è un esempio di carità e santità laicale. Nato a Milano nel 1813 (il padre era nell'esercito napoleonico), dopo Waterloo rientrò in patria. A Parigi si legò ai circoli intellettuali cattolici intorno al fisico André-Marie Ampère e a Emmanuel Bailly. Nel 1833 diede vita alle «conferenze» che insieme, formano la «Società di San Vincenzo de' Paoli», un'istituzione «cattolica, ma laica; povera, ma carica di poveri da sollevare; umile, ma numerosa» secondo una definizione che ne diede lo stesso fondatore. Federico Ozanam si laureò in Legge e Lettere, insegnò alla Sorbona, fu accademico della Crusca di Firenze. Nel 1841 si sposò ed ebbe una figlia. Sempre in viaggio per l'Europa, però, trovava sempre tempo da dedicare al suo mondo povero, alla Società di San Vincenzo, che seguì e stimolò nel suo sviluppo. Morì a Marsiglia nel 1853. È stato proclamato beato da Papa Giovanni Paolo II a Parigi il 27 agosto 1997. (Avvenire)
Etimologia: Federico = potente in pace, dal tedesco
Martirologio Romano: A Marsiglia in Francia, transito del beato Federico Ozanam, che, uomo di insigne cultura e pietà, difese e propagò con la sua alta dottrina le verità della fede, mise la sua assidua carità a servizio dei poveri nella Società di San Vincenzo de’ Paoli e, padre esemplare, fece della sua famiglia una vera chiesa domestica.
Sono presenti in 130 Paesi del mondo con centinaia di migliaia di volontari, in lotta da un secolo e mezzo contro la povertà, quella palese e quella che si nasconde. Sono gruppi detti “conferenze” di parrocchia, di paese, di quartiere, di azienda. Insieme, formano la “Società di San Vincenzo de’ Paoli”, che è istituzione "cattolica, ma laica; povera, ma carica di poveri da sollevare; umile, ma numerosa". Così ne parla Federico Ozanam, uno dei fondatori dell’Opera a Parigi, il 23 aprile 1833.
Nato in Italia quando il padre era ufficiale medico nell’esercito napoleonico, dopo Waterloo torna con la famiglia a Lione. E’ il secondo di tre fratelli, uno dei quali diventerà sacerdote e l’altro medico. Dopo il liceo, va a Parigi per studiare legge, ed è ospite in casa di André-Marie Ampère, il grande esploratore dell’elettrodinamica (anche ora si chiama ampere l’unità di misura per l’intensità della corrente elettrica).
Pilotato dallo scienziato, che è grande uomo di fede, Ozanam si unisce ai giovani intellettuali cattolici raccolti intorno a Emmanuel Bailly, un capofila della riscossa culturale cattolica. Si laurea in legge nel 1836 e in lettere nel 1839, con una tesi sulla filosofia in Dante Alighieri: "Il poeta", così lo chiama, "del nostro presente come lo fu del suo tempo; il poeta della libertà, dell’Italia e del cristianesimo". La sua tesi viene subito pubblicata anche in inglese, tedesco e italiano, e Ozanam ottiene una cattedra alla Sorbona. Ma resta sempre l’uomo della “San Vincenzo”. E continua a metterci l’anima, per stimolare e orientare; spiega che l’Opera agisce sotto piena responsabilità dei laici, e non si dedica a pura beneficenza; essa vive la carità innanzitutto con la vicinanza fisica e regolare con i poveri, nelle loro case. L’aiuto materiale soccorre sì una necessità immediata, ma ha il fine di strappare il povero alla sua condizione: "La terra si è raffreddata, tocca a noi cattolici rianimare il calore vitale che si estingue!".
Si sposa nel 1841 con la concittadina Amalia Soulacroix, da cui ha una figlia. Amico dell’intellettualità parigina più illustre, viaggiatore di continuo attraverso l’Europa, sempre però ritorna al suo mondo povero, alla Società di San Vincenzo, che segue e stimola nel suo irradiarsi. E torna al singolo povero, alla singola famiglia, con la visita personale che è il contrassegno dell’Opera e anche della vita sua privata: quando sta con i poveri, Ozanam parla con Dio. Per lui non c’è responsabilità o carica che dispensi il confratello dalla visita e dall’immaginare novità per meglio aiutare i poveri, per meglio camminare sulla via della promozione umana: (La cosa, per opera sua, precede il nome, di cui farà variamente uso il XX secolo).
Federico Ozanam muore a Marsiglia tornando dalla Toscana, dove è stato accolto nell’Accademia della Crusca con Cesare Balbo. Il 27 agosto 1997, Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato a Parigi.
Autore: Domenico Agasso Fonte:Famiglia Cristiana
+ Nicomedia, Bitinia, IV secolo
I santi coniugi Adriano e Natalia subirono insieme il martirio presso Nicomedia in Bitinia, ma il Martyrologium Romanum commemora in data odierna solamente Adriano, in onore del quale il papa Onorio I tramutò in chiesa la curia del Senato Romano
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di sant’Adriano, martire, che a Nicomedia in Bitinia, nell’odierna Turchia, subì il martirio e in suo onore il papa Onorio I trasformò in chiesa la curia del Senato Romano.
L' unica notizia certa è che esisteva un culto antico e molto forte di un Adriano, martire di Nicomedia, sia in oriente che in occidente. II nuovo Martirologio Romano ricorda il santo in questo giorno senza commenti ulteriori. Il resto è supposizione e leggenda.
I bollandisti e l'antico Martirologio Romano affermavano l'esistenza di due diversi Adriani di Nicomedia, entrambi morti martiri, ma in persecuzioni diverse e i cui resti vennero portati ad Argiropoli. Quanto segue è un riassunto di questi racconti.
Si dice che un Adriano fosse un ufficiale pagano alla corte imperiale a Nicomedia. Assistette al maltrattamento di ventitré cristiani e dichiarò che anch'egli era cristiano e voleva unirsi a loro. Venne imprigionato. La sua giovane moglie, Natalia, una cristiana a cui era stato sposato per tredici mesi, fu informata dell'accaduto e corse alla prigione, baciò le sue catene e lo curò. Egli la mandò a casa, promettendole di tenerla informata. Quando seppe che stava per essere ucciso, Adriano pagò il guardiano della prigione perché lo lasciasse andare a salutare la moglie, ma ella quando lo vide, pensando che avesse rinnegato la sua fede, gli sbatté la porta in faccia. Egli le spiegò che gli altri prigionieri erano stati presi in ostaggio fino al suo ritorno, ed essi ritornarono alla prigione insieme. Natalia bendò le ferite dei prigionieri e si prese cura di loro per una settimana. Adriano fu portato davanti all'imperatore ma rifiutò di sacrificare agli idoli, allora venne frustato e riportato in cella. Altre donne seguirono l'esempio di Natalia, ma l'imperatore impedì loro di entrare in prigione. Allora Natalia si tagliò i capelli, indossò abiti maschili ed entrò in prigione come al solito.
I martiri furono condannati alla morte per spezzamento degli ani. Natalia chiese che il marito potesse essere ucciso per primo, così da risparmiargli la vista dell'agonia degli altri. Ella gli mise le gambe e le braccia nei ceppi, e rimase inginocchiata sul posto mentre il marito veniva ucciso, riuscendo a nascondere una sua mano nei vestiti. Quando i corpi vennero bruciati, dovettero trattenerla per impedirle di gettarsi nel fuoco. La pioggia spense le fiamme e i cristiani poterono conservare delle reliquie dei martiri, che furono portate e seppellite ad Argyropolis, sul Bosforo vicino a Bisanzio.
Un ufficiale imperiale iniziò a tormentare Natalia con offerte di matrimonio, così ella portò la mano del marito ad Argyropolis, dove mori in pace poco dopo il suo arrivo. Ella fu considerata martire per associazione, perché il suo corpo fu seppellito con i resti degli altri uccisi.
Questo racconto di chiara invenzione si dimostrò molto commovente, rendendo Adriano un martire molto popolare in passato. Diversi quadri ricordano in maniera raffinata, a volte splendida, la sua morte e l'intervento di Natalia. Era il patrono dei macellai e dei soldati e veniva invocato contro la peste.
L'antico Martirologio Romano indicava il 4 marzo come il giorno della sua morte, e l'1 dicembre per quella di Natalia e l'8 settembre per il trasporto dei loro resti a Roma. La festa comune dei santi Adriano e Natalia, martiri, era l'8 settembre.
Tuttavia un altro Adriano (5 mar.) ricordato da Eusebio come un martire di Cesarea sotto Diocleziano, a volte confuso con il primo Adriano, ha una tradizione più affidabile e molto diversa.
Si dice che sia stato ucciso a Nicomedia sotto Licinio, che fosse il figlio dell'imperatore Probo, che aveva rimproverato Licinio per le sue persecuzioni contro i cristiani. L'imperatore ordinò che venisse ucciso. Suo zio Domizio, vescovo di Bisanzio, seppellì il corpo nei sobborghi della città chiamata Argyropolis. L'antico Martirologio Romano fissa la memoria di questo Adriano il 26 agosto. Il racconto è ugualmente inaffidabile, e meno accattivante degli altri.
Autore: Alban Butler
Marino Blanes Giner, fedele laico, nacque ad Alcoy (Alicante) il 17 settembre 1888. Fu battezzato il 19 settembre 1888 e cresimato l’8 agosto 1902 nella chiesa parrocchiale Santa Maria. Impiegato di banca, catechista, consigliere comunale, si sposò il 26 settembre 1913 con la sig.na Julia Jordá Llovet, nella chiesa di San Mauro e San Francesco di Alcoy. Ebbero cinque figli. Fedele alla vita cristiana, pieno di fervore apostolico fu arrestato in odium fidei il 21 luglio 1936. Dopo una penosa prigionia, nella notte dal 7 all’8 settembre, donò la vita per Cristo. La sua beatificazione è stata celebrata da Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001.
Martirologio Romano: Nel villaggio di Alcoy vicino ad Alicante sempre in Spagna, beato Marino Blanes Giner, martire, che, padre di famiglia, nel corso della stessa persecuzione ricevette dagli uomini la morte, da Dio la vita eterna.
Parafrasando una celebre commedia di qualche decennio fa, verrebbe non solo da dire che “anche i bancari hanno un’anima”, ma addirittura che “anche i bancari vanno in paradiso”. Di più: anche i bancari possono essere innalzati alla gloria degli altari, a dimostrazione che a far la differenza non è la ricchezza, posseduta o maneggiata, piuttosto l’uso che di essa si fa. La prova di quanto stiamo dicendo è personificata dal beato Marino Blanes Giner, spagnolo di Alcoy, diocesi di Valencia, che più che per straordinarietà di vita brilla per eroicità ordinaria, solo “casualmente” sfociata nel martirio, ma che, di per sé, già sarebbe stata forse sufficiente a meritargli l’aureola. Nasce nel 1888 e, insieme al latte materno, succhia fede e amor di Dio che sembrano davvero abbondare in casa sua. Gli è così naturale, a 25 anni, quando sposa Giulia Jordá Lloret, dare vita ad una nuova famiglia autenticamente cristiana. Per la serie “Dio li fa e poi li accoppia”, Giulia, religiosa e innamorata del suo uomo, è davvero la compagna di vita ideale per Marino, lo rende padre per nove volte ed è sua valida collaboratrice nell’educazione cristiana della numerosa famiglia. Se le testimonianze del martirio, per il modo con cui è avvenuto, sono nebulose e addirittura incerte, limpide ed incontrovertibili sono invece quelle sulla vita di quest’uomo tutto d’un pezzo, dall’onestà che non fa una grinza e dalla fede matura e coraggiosa. Come impiegato della filiale valenciana del Banco di Credito Spagnolo viene a contatto con una clientela vasta e composita e tutti sono concordi nel descrivere la competenza, la professionalità e la serietà di questo impiegato di banca che si fa in quattro per essere utile a tutti. Lo stimano talmente da volerlo anche amministratore comunale di Alcoy e Marino, da buon cristiano non solo “di sacrestia”, si immerge anche in questioni amministrative, pure qui dimostrando buon senso ed onestà. A nessuno sfugge che quel galantuomo è tale proprio perché è un ottimo credente: nelle sue tasche ci sono più tessere di associazioni religiose che non monete, perché queste ultime si volatilizzano ogni giorno nelle mani dei tanti poveri che incontra, mentre conserva gelosamente le prime; non per far sfoggio di associazionismo, ma perché la sua religiosità profonda ha bisogno di molti modi per esprimersi. Passa così, con naturalezza, dalle adunanze di Azione Cattolica all’adorazione notturna, dalla Conferenza di San Vincenzo alle riunioni del Terz’Ordine francescano o dell’Apostolato della Preghiera. Anche la sua domenica non conosce riposo: impiega tutto il suo tempo libero a girare le campagne, per insegnare catechismo nelle fattorie più sperdute e, al ritorno, si chiude nelle corsie dell’ospedale, ad aiutare le suore nell’igiene dei malati. Quando la persecuzione religiosa, che prelude alla guerra civile, si abbatte anche sulla zona di Valencia, Marino non fa una piega e continua imperterrito la sua variegata attività catechistico-caritativa, pienamente cosciente, così facendo, di entrare nel mirino degli anticlericali. Anzi, è così convinto del prezzo da pagare per testimoniare la sua fede, da non considerarsi buon cristiano se non viene perseguitato. Di fronte all’abitudine degli anticlericali di incendiare le chiese e distruggere le immagini sacre, sente come suo dovere del momento vigilare sulla sicurezza di chiese e conventi e una notte riesce ad evitare l’incendio della chiesa parrocchiale, dove già sono state posizionate dodici bottiglie di benzina da far esplodere. Il giorno dopo il giornale locale cerca di screditarlo, accusandolo di “vita notturna peccaminosa” e il 21 luglio 1936 viene arrestato. Passa 50 giorni in carcere, sereno, coraggioso e forte, a confortare e vigilare perché la fede degli altri non vacilli, ma evidentemente ai persecutori fa più paura questo uomo silenzioso ma concreto, che non tanti altri incoerenti parolai. Così paura da decidere la sua eliminazione: lo prelevano alle 9 del mattino dell’8 settembre insieme ad altri e tutti vengono fucilati in un luogo talmente segreto che a tutt’oggi i loro resti non sono ancora stati rinvenuti. Marino Blanes Giner è stato beatificato insieme ad altri 232 martiri spagnoli l’11 marzo 2001.
Autore: Gianpiero Pettiti
+ Nagasaki, Giappone, 8 settembre 1628
Molti cristiani giapponesi, durante la persecuzione scoppiata contro di loro nel terzo decennio del sec. XVII, furono imprigionati sotto l'imputazione di aver aiutato od ospitato missionari cattolici stranieri. Il Tomachi, terziario domenicano, nonostante i rischi che comportava l'aiuto dato ai missionari, aveva coadiuvato, assieme all'amico Giovanni Imamura, i padri domenicani nel loro apostolato. Scoperto in questa attività fu portato, assieme ai suoi figli Domenico di sedici anni, Michele di tredici, Tommaso di dieci e Paolo di sette, nelle prigioni di Omura ove la presenza di Domenico Castellet fu loro di grande conforto. Poi l'8 settembre 1628, su ordine del governatore Cowachindono, furono scelti ventidue, fra i molti prigionieri cristiani, per essere uccisi nella vicina Nagasaki. Fra questi il Tomachi ed i suoi quattro figli. Il padre assistette con fermezza d'animo alla decapitazione dei figli, le cui teste furono poi gettate ai suoi piedi perché bruciassero nel rogo con lui. Le ceneri furono disperse in mare affinché non fosse possibile ai cristiani la venerazione. Beatificati da Pio IX il 6 luglio 1867, la loro festa si celebra l'8 settembre.
Autore: Gian Domenico Gordini Fonte:Enciclopedia dei Santi
Ismael Escrihuela Esteve, nacque a Tabernes de Valldigna (Valencia) il 20 maggio 1902 e fu battezzato la domenica seguente alla sua nascita. Cresimato nel 1907, ricevette la prima comunione nel 1909, nella chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo. Di famiglia contadina studiò fino ai 9 anni e dopo lavorò nella campagna. Si sposò con Josefa Grau ed ebbero tre figli. Portò sempre un crocifisso all’occhiello della giacca e perciò fu nominato “soldatino di Cristo”. Responsabile degli aspiranti di Azione Cattolica, durante la persecuzione religiosa fu espressamente minacciato e imprigionato in odium fidei il 21 luglio 1936. Dopo una prigionia trascorsa in preghiera, l’8 settembre 1936 a Paterna (Valencia) subì il martirio. La sua beatificazione è stata celebrata da Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001.
Martirologio Romano: Nella città di Paterna nel territorio di Valenza ancora in Spagna, beato Ismaele Escrihuela Esteve, martire, che, padre di famiglia, attraverso il martirio fu reso partecipe della vittoria di Cristo.
Urbino, 1434 - Pesaro, 8 settembre 1478
Martirologio Romano: A Pesaro, beata Serafina Sforza, che affrontò nella vita coniugale molte avversità e, rimasta vedova, trascorse in grande umiltà i restanti anni della sua vita seguendo la regola di santa Chiara.
Scorrendo le alterne vicende della vita della beata Serafina Sforza, si evidenzia soprattutto un’ampia panoramica partecipativa della nobiltà italiana del Quattrocento, tante sono le Casate e dinastie coinvolte.
Sveva Feltria, appartenne all’illustre famiglia dei conti di Montefeltro, signori di Urbino dal 1234 al 1508 e che proprio negli anni in cui visse Sveva, divenne ducato sotto il fratello Oddantonio (1443). Nacque ad Urbino nella prima metà del 1434, ultima dei figli di Guidantonio e di Caterina Colonna nipote di papa Martino V.
Divenne orfana della madre nel 1438 e del padre nel 1443, essendo una bambina di nove anni, rimase per qualche tempo ad Urbino, prima sotto la tutela del fratello Oddantonio e poi dopo la tragica morte di questi, ucciso nel 1444 in una congiura, del fratello Federico di Montefeltro (1422-1482), celebre condottiero e mecenate dell’arte.
Nel marzo 1446 a 12 anni, lasciò Urbino, andando a vivere per più di un anno a Roma, presso lo zio materno cardinale Prospero Colonna, della celebre famiglia patrizia romana.
Lo zio, secondo gli usi del tempo, trattò il matrimonio della giovanissima nipote, con il quarantenne Alessandro Sforza, signore di Pesaro, che Sveva sposò per procura il 9 gennaio 1448, raggiungendolo solo il 1° settembre successivo.
Ma ben presto Sveva Feltria Sforza rimase sola; per gli impegni militari del marito chiamato nella guerra di Lombardia, a sostenere il fratello Francesco I Sforza (1401-1466) nella conquista del ducato di Milano, possesso poi riconosciutagli con la pace di Lodi del 1454.
Sveva, in sua assenza fu impegnata nei doveri dello Stato a Pesaro, assistita dalla zia Vittoria Colonna, dalla cugina Elisabetta Malatesta dei signori di Rimini, e inoltre nell’educazione dei figliastri Battista e Costanzo Sforza, figli di suo marito e della defunta prima moglie, Costanza Varano dei signori di Camerino.
La lunga lontananza e l’incuria del maturo consorte, impegnato solo nelle guerre e dedito ai facili amori, misero a dura prova i sentimenti e la fedeltà coniugale di Sveva.
Probabilmente cedette alle lusinghe di un cortigiano, per cui fu accusata di adulterio dal marito Alessandro Sforza, nel contempo fu incolpata anche di tentato avvelenamento del marito e di tramare contro di lui con la connivenza della zia Vittoria Colonna, dietro istigazione di Sigismondo Malatesta (1417-1468), al quale si cercava di restituire la signoria di Pesaro.
A parte le accuse formulate ingiustamente contro la moglie, Alessandro sempre più deciso di sbarazzarsene, tentò varie volte di avvelenarla e una notte cercò persino di strangolarla; soliti intrighi e delitti di corte, di cui sono pieni i resoconti storici della vita e delle successioni nelle varie corti europee, specie del Medioevo e secoli successivi.
Nonostante le difese dei parenti, l’infelice Sveva fu costretta dal marito e dal cognato Francesco duca di Milano, ad entrare fra le Clarisse del monastero “Corpus Christi” di Pesaro, dove dopo aver ottenuta la necessaria dispensa da papa Callisto III, fece la sua professione religiosa alla fine di agosto del 1457, prendendo il nome di suor Serafina.
Ritirarsi oppure far ritirare in un convento, era pratica abbastanza usuale fra le nobili, vedove, decadute, perseguitate, ecc., ma questo stato forzato di religiosa, fu per suor Serafina Sforza il trampolino di lancio verso una santità di vita, riscattando l’errore in cui era caduta per la giovanile inesperienza, ma ancor più a causa dell’ambiente corrotto, dove per sua sventura era capitata ancora adolescente.
Visse fra le clarisse di Pesaro 21 anni, nei quali seppe essere di esempio alle consorelle nella pratica delle virtù cristiane, nella carità, nell’umiltà e nell’assistenza agli infermi, tanto che nel 1475 a 41 anni venne eletta badessa.
Ebbe la consolazione di vedere il marito Alessandro, giungere al monastero del “Corpus Christi” per riconciliarsi con lei, riconoscendo i propri torti e tornare in seguito più volte a conversare con lei per la sua redenzione spirituale; Alessandro morì nel 1473.
Cinque anni dopo, l’8 settembre 1478, suor Serafina Sforza morì nel suo monastero di Pesaro a 44 anni, fra il cordoglio generale e pianta profondamente da tutte le clarisse, che ormai da anni la ritenevano una santa e che presero a tributarle quel culto, che poi fu confermato solennemente da papa Benedetto XIV il 17 luglio 1754, con il titolo di beata. La sua festa viene celebrata l’8 settembre.
Autore: Antonio Borrelli
Nagasaki, Giappone, 1548 circa - 8 settembre 1628
Vedova, terziaria domenicana, avendo ospitato il Beato Domenico Castellet fu bruciata viva per la fede l’8 settembre 1628, all’età di ottant’anni. Fu beatificata il 6 luglio 1867.
Emblema: Palma
Giapponese di nascita, fu vedova e terziaria domenicana. Durante la persecuzione anticristiana ospitò generosamente il padre domenicano, il beato Domenico Castellet. Ma il 15 giugno 1628 furono scoperti e furono condotti con alcuni catechisti nelle carceri di Omura. Dopo alcuni mesi di prigionia, l'8 settembre 1628, fu condotta a Nagasaki e bruciata viva all'età di ottant'anni: in quel giorno ventidue cristiani, giapponesi ed europei, ricevettero la gloria di morire testimoniando la propria fede e il proprio amore per Gesù Cristo.
Fonte:Convento San Domenico, Bologna
Magnifico esempio di una coppia di sposi santi insieme!!!
Castiglia, secolo XII
Isidoro, di poverissima famiglia, agricoltore, fin da ragazzo premetteva sempre al lavoro la Messa. Sposò Maria Toribia e ne ebbe un figlio che morì bambino. Osteggiati per invidia, i due sposi lavorarono sotto vari padroni, gareggiando a santificarsi l'un l'altro: modelli di fedeltà agli obblighi di lavoro, alle pratiche di pietà, alla carità operosa verso i più poveri; vissero in unione di spirito con un amore che trascende la carne. Semplice esistenza di onesti contadini intessuta di lavoro, animata dalla fede: le sole umili grandi gesta dei due sposi` che li fecero santi e modelli per i nostri tempi.
Martirologio Romano: Nella Castiglia in Spagna, beata Maria de la Cabeza, che, moglie del contadino sant’Isidoro, condusse vita eremitica umile e laboriosa.
Le poche notizie riguardanti l'esistenza della beata Maria Toribia sono contenute nella ‘Vita’ di s. Isidoro l’agricoltore suo marito, scritta da Giovanni Egidio di Zamora, nella seconda metà del sec. XIII.
Fino alla fine del secolo XVI, quando ebbe inizio il suo processo di beatificazione, non esiste nessun documento scritto che parla di lei; morta verso il 1175 in Castiglia, fu sepolta davanti al convento-eremitaggio di S. Maria, presso il fiume Jarama.
Il suo corpo fu ritrovato soltanto nel 1596; ma il suo culto era già molto diffuso da vari secoli, per cui in data sconosciuta era stata prelevata la reliquia della testa e posta alla venerazione dei fedeli, nello stesso romitaggio di S. Maria.
Poi questo eremitaggio a causa della presenza della testa della santa, venne denominato di S. Maria de la Cabeza (testa in spagnolo) e anche alla santa donna fu dato lo stesso nome di Maria, mentre alcune tradizioni antecedenti al secolo XVI, riportavano che il suo vero nome fosse Toribia.
Naturalmente nel processo di beatificazione istruito nel 1615, si poté tener conto solo delle tradizioni popolari riguardo la vita e le virtù della santa moglie di s. Isidoro, del quale rispecchiava la cristiana e umile vita.
Non è possibile stabilire il luogo di nascita, perché tradizionalmente ben sette città spagnole si disputano la priorità; nei pressi del convento di S. Maria, esisteva da tempo immemorabile una confraternita intitolata a Santa Maria de la Cabeza, che ne festeggiava la ricorrenza il 9 settembre.
Le reliquie furono trasferite nel 1615 a Torrelaguna quando iniziò il processo di beatificazione; papa Innocenzo XII, l’11 agosto 1697 ne confermò il culto di Beata.
Autore: Antonio Borrelli
Anche oggi abbondanza di sposi e famiglie sante! Quasi tutte appartenenti al gruppo dei martiri giapponesi di Nagasaki. In fine l'Imperatrice Santa Pulcheria sposa e vergine!
+ Nagasaki, Giappone, 10 settembre 1622
Il Sanga nacque nel 1567 da una famiglia giapponese del Gami distintasi per la professione cristiana. 11 Battesimo gli fu conferito in Sacai da Luigi Flores. All'età di nove anni entrò nel seminario dei Gesuiti per compiere gli studi e per prepararsi ad essere accettato nella Compagnia di Gesù, ma la malferma salute e le continue malattie non gli permisero di terminare i due anni di noviziato, per cui fu dimesso con suo grande rincrescimento. L'ansia apostolica tuttavia non gli venne meno nella vita laicale. Ristabilitosi discretamente sposò la nobile Maddalena, battezzata fin da bambina in Sacai da Organtino; il matrimonio fu allietato dalla nascita di figli.
Il Sanga svolse poi una continua attività di catechista, mettendosi al servizio sia dei Gesuiti sia dei Domenicani. In seguito, essendosi spontaneamente presentato al governatore Gonrocu e avendo denunciato la propria qualità di propagandista cristiano (le leggi persecutorie emanate nel 1614 proibivano tale attività), fu associato alle carceri di Nagasaki assieme alla moglie Maddalena, donna di grande virtù. Durante la prigionia non cessò l'apostolato e in una lettera scritta al provinciale dei Gesuiti per essere iscritto come «servo» della Compagnia (domanda accolta), cosi narrava: «da che sto in questo carcere, ho fatto il Battesimo a trentadue infedeli, insegnate le orazioni a molti e fatto animo a quelli che erano stati imprigionati con me per la causa di Cristo». Fu arso vivo nella grande strage operata in Nagasaki il 10 sett. 1622; la moglie fu decapitata lo stesso giorno. Vennero beatificati nel 1867 da Pio IX. La festa si celebra il 10 settembre.
Autore: Gian Domenico Gordini Fonte:Enciclopedia dei Santi
+ Nagasaki, Giappone, 10 settembre 1622
La Chiesa propone alla venerazione ed all’imitazione da parte dei fedeli una folta schiera di coppie di sposi che hanno fatto propri gli ideali evangelici, spesso purtroppo dimenticate, tra le quali ben sedici coppie di nazionalità giapponese come i beati coniugi Paolo e Maria Tanaca, oggetto della presente scheda agiografica.
E’ facilmente comprensibile che purtroppo non siano state tramandate dettagliate informazioni sul loro conto, come d’altronde sin dai tempi antichi l’effusione del sangue in odio alla fede cristiana è sempre stata considerata l’espressione massima dela santità di una persona. Cerchiamo comunque di ricostruire la trama della loro vicenda di martirio.
Paolo era nativo di Tosa nei pressi di Shikoku. Al fine di impedire la permanenza di missionari cristiani in Giapppone, le leggi dello stato punivano severamente chi li ospitava o non ne denunciava la presenza. I coniugi Tanaca non ottemperarono a queste ordinanze e furono imprigionati a Nagasaki per aver ospitato in casa loro alcuni missionari. Dopo aver tentato invano di farli abiurare, il governatore Gonrocu ordinò la loro decapitazione. L’esecuzione della sentenza avvenne il 10 settembre 1622 sulla collina di Nagasaki unitamente ad una cinquantina di altri condannati.
Il sommo pontefice Beato Pio IX beatificò questi santi coniugi il 7 maggio 1867, insieme con un gruppo complessivo di ben 205 martiri in terra giapponese.
Autore: Fabio Arduino
+ Nagasaki, Giappone, 10 settembre 1622
Come molti altri giapponesi dei primi decenni del sec. XVII, la famiglia Nangaichi venne imprigionata e condannata sotto l'imputazione di aver violato la legge che proibiva di prestare aiuto ai missionari cristiani di origine straniera. Nonostante questa legge, Paolo e Tecla avevano dato infatti generosamente la loro collaborazione per la difesa e la diffusione della fede cristiana. Scoperti, furono inviati insieme col figlio Pietro nella prigione di Omura (1619). Quivi rimasero per circa tre anni in condizioni difficilmente descrivibili: ambiente malsano, condizioni igieniche tremende, cibo scarso e pessimo. Unico conforto la presenza di tanti altri fratelli di fede.
Trasferiti a Nagasaki, Paolo fu bruciato vivo (pena riservata secondo l'uso a quelli ritenuti più colpevoli di attività cristiana); la moglie Tecla ed il figlio Pietro, di sette anni, furono invece decapitati. Ciò avvenne il 10 sett. 1622. Pio IX li beatificò il 6 luglio 1867.
Autore: Gian Domenico Gordini Fonte:Enciclopedia dei Santi
+ Nagasaki, Giappone, 10 settembre 1622
Giovanni era nativo di Meaco; si trasferì da giovane a Nagasaki ove ricevette l'educazione cristiana ed il battesimo dai padri della Compagnia di Gesù. Dopo il matrimonio con Maria, dalla quale ebbe figli, continuò a dare valido aiuto ai padri della Compagnia nella diffusione del Vangelo. Quando nel 1614 la persecuzione scoppiò feroce contro i missionari cristiani stranieri, espulsi dal paese, Giovanni ne ospitò alcuni ben sapendo il rischio a cui si esponeva, giacché la legge puniva con la morte i giapponesi trovati rei di tale violazione. Fra i suoi ospiti ebbe Alfonso de Mena. Il 15 marzo 1619 il missionario venne qui scoperto ed imprigionato. La stessa sorte subì Giovanni che venne rinchiuso nelle carceri di Nagasaki. Il 17 novembre fu interrogato dal governatore Gonrocu che tentò di fargli rinnegare la fede. Il giorno seguente con altri quattro compagni fu arso vivo sulla collina di Nagasaki. Le ossa furono spezzate e gettate assieme a quelle dei suoi compagni di martirio in mare; i cristiani riuscirono a ripescarne alcune. La moglie Maria fu decapitata il 10 sett. 1622. Pio IX li beatificò nel luglio 1867.
Autore: Gian Domenico Gordini Fonte:Enciclopedia dei Santi
Costantinopoli, 19 gennaio 399 – luglio 453
Figlia degli imperatori d'Oriente Arcadio ed Eudocia, Pulcheria nacque nel 399 a Costantinopoli. Ancora bambina perse i due genitori, e fino al conseguimento della maggiore età del fratello Teodosio II (detto "il Calligrafo") fu reggente dell'impero. Alquanto autoritaria, compì il proprio dovere con estrema religiosità e consacrò la sua verginità al Signore. Ebbe un ruolo determinante nelle nozze del fratello convincendolo a sposare la greca Atenia. Dopo la morte del fratello, nel 450, Pulcheria, diventata imperatrice, sposò il senatore Marciano con il patto che rispettasse la sua verginità. Ebbe un ruolo determinante nella sconfitta del nestorianesimo, e per questo fu canonizzata. La sua festa si celebra il 10 settembre. Il suo culto in Occidente ebbe nuovo impulso con papa Benedetto XIV il quale, colpito dal valore del suo casto matrimonio, con un decreto del 2 febbraio 1752 lo estese in buona parte dell'Europa. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Costantinopoli, santa Pulcheria, che difese e promosse la retta fede.
Le notizie su s. Pulcheria ci sono pervenute dalle cronache bizantine; pertanto essendo numerose e piene di date, è necessario per snellire e visto lo spazio disponibile, di riassumere il più possibile.
I suoi genitori furono gli imperatori Arcadio ed Eudocia, i quali ebbero nell’ordine cinque figli: Flacilla, Pulcheria, Arcadia, Teodosio (il futuro imperatore) e Marina.
Pulcheria nacque il 19 gennaio 399 a Costantinopoli, ancora bambina perse in pochi anni dal 403 al 408, la sorella Flacilla e i due genitori, per cui lei insieme al fratello e le altre sorelle, rimasero sotto la tutela dell’eunuco Antioco, scelto come loro precettore dal reggente Antemio.
Ricevette un’ottima istruzione, che le permise di potersi esprimere correttamente sia in latino che in greco; non aveva ancora 16 anni, che il 4 luglio 414 fu elevata alla dignità di “Augusta” e reggente del fratello Teodosio e del governo; quindi divenne la personalità più in vista dell’Impero Bizantino, al punto che il 30 dicembre dello stesso 414, il prefetto Aureliano fece erigere nel Senato, tre busti in onore di Pulcheria e degli imperatori Onorio e Teodosio II.
Alquanto autoritaria, compì il proprio dovere e con una estrema religiosità, consacrò la sua verginità al Signore; con un voto sigillato pubblicamente, donò alla Chiesa di S. Sofia, uno splendido altare con iscrizione, inoltre aveva convinto anche le due sorelle a seguire la sua stessa strada; il palazzo imperiale era diventato quasi un convento, perché giorno e notte vi si cantavano le lodi divine, si leggeva la Sacra Scrittura, si pranzava e si digiunava insieme e il lavoro era manuale.
Fece da educatrice perfetta per il fratello, destinato a regnare, inculcandogli il rispetto per il clero ed i monaci. Divenne la strenua difenditrice dell’ortodossia cristiana, emanando o ripristinando leggi contro gli eretici di vari movimenti, contro l’accesso dei pagani agli uffici pubblici, moderando l’influsso degli ebrei nella vita dell’Impero, ebbe come consigliere il patriarca Attico.
Nel 417 vi fu, con l’accordo della corte bizantina, il ristabilimento della comunione del patriarca di Costantinopoli con la Sede Apostolica. Come reggente del fratello, Pulcheria era stata impegnata a cercare per Teodosio II, una sposa fra le più belle vergini dell’impero, la scelta cadde sulla greca Atenaide (poi imperatrice Eudossia), che Teodosio II sposò il 7 giugno 421.
Ma i rapporti futuri fra le due donne non furono sempre cordiali, per i temperamenti così diversi; avvenente e intraprendente Eudossia, dispotica e ultrareligiosa Pulcheria; la controversia di Nestorio, patriarca di Costantinopoli dal 428 al 431, che con la sua eresia affermava la separazione fra la natura umana e divina di Gesù, che tanta influenza ebbe nel mondo bizantino, aggravò le tensioni fra le due donne, che erano su posizioni opposte.
Pulcheria fu accusata di incesto presso il magistrato Paolino, il patriarca Nestorio le proibì l’ingresso al palazzo vescovile, fece cancellare la sua immagine dipinta sul già ricordato altare votivo e le tolse il permesso, concessale dal suo predecessore Sisinnio, di comunicarsi a Pasqua nel santuario della cattedrale.
A tutto questo seguì un lungo periodo, che vide protagoniste le due ‘basilisse’ (imperatrici romane d’Oriente), alle quali venivano rivolte richieste d’intervento dalle parti in conflitto ideologico, come s. Cirillo d’Alessandria e il vescovo d’Antiochia Giovanni, prima e durante il Concilio di Efeso, che condannò il “nestorianesimo”.
Un pellegrinaggio di Eudossia a Gerusalemme nel 438, permise a Pulcheria di recuperare l’antica superiorità a corte, ma per il gioco degli intrighi dei favoriti e per le gelosie femminili, l’atmosfera al ritorno di Eudossia divenne di nuovo pesante, finché nel 440 il favorito di Eudossia, Paolino fu condannato a morte e nel 443 l’imperatrice decise di ritirarsi per sempre a Gerusalemme.
A questo punto, quanti avevano bisogno di un appoggio decisivo, ormai ricorrevano a Pulcheria, come nel 446-447 il celebre Teodoreto di Ciro, preoccupato delle imposte che gravavano sulla sua città.
In quegli anni Pulcheria si ritirò a vita privata nel palazzo dell’Ebdomon, posto alla periferia della capitale e qui risiedeva ancora il 13 giugno 449, quando il papa s. Leone Magno, allora in lotta contro l’eretico Eutiche, le mandò varie lettere pregandola di aiutarlo a soffocare la nuova eresia, condannata poi nel 451 nel Concilio di Calcedonia e di mettere il suo intervento a favore della partecipazione bizantina al Concilio generale che papa Leone I voleva riunire in Italia.
L’eresia di Eutiche, archimandrita greco (378-454 ca.), accanito sostenitore dell’eresia di Nestorio, cadde nell’errore opposto; negava che in Gesù ci fossero due nature, affermando probabilmente l’assimilazione della natura umana in quella divina.
Con una sua lettera del 17 marzo 450, l’’Augusta’ Pulcheria rispose affermativamente, con il compiacimento del papa, che ancora una volta, apprezzò l’ortodossia della sovrana.
La sorella dell’imperatore fu pure coinvolta nella controversia che vide protagonista s. Flaviano patriarca di Costantinopoli, l’eunuco Crisafio, l’egiziano patriarca Anatolio; nel cui contesto avvenne il cosiddetto ‘ladrocinio di Efeso’, l’uccisione dello stesso Flaviano, l’esilio dell’eunuco, il riconoscimento dell’errore da parte di Teodosio II, il richiamo a corte della sorella Pulcheria (sono tutti episodi, che narrati in questa scheda l’avrebbero allungata molto, pertanto le notizie dettagliate, si possono trovare nella scheda di s. Flaviano, patriarca di Costantinopoli).
Ad ogni modo, convertito o no dall’eresia di Eutiche, che in quei tempi coinvolgeva fattivamente la corte, il ‘basileus’ (imperatore) Teodosio II, morì il 28 giugno 450 a 49 anni, in seguito ad una caduta da cavallo; a lui si deve il “Codice Teodosiano”, raccolta delle costituzioni imperiali da Costantino in poi.
Pulcheria, che aveva ormai 51 anni, forse adempiendo un’ultima volontà del fratello, il 25 agosto 450 introdusse a corte un ufficiale in congedo di 58 anni, il tribuno Marciano e lo sposò dietro la promessa di rispettare la sua verginità; la cerimonia fu fastosa con la presenza del patriarca Anatolio e si dice che Pulcheria stessa, pose il diadema imperiale sul capo del maturo sposo.
Ancora di lei sappiamo che fece trasferire il corpo dell’ucciso s. Flaviano, nella chiesa dei SS. Apostoli di Costantinopoli e che diede un apporto decisivo per la riunione del Concilio di Calcedonia del 451, voluto dal papa, per riportare la pace fra le opposte fazioni in lotta per le eresie, che funestavano il mondo cristiano orientale della sua epoca.
Al Concilio, cui partecipavano allora anche i sovrani bizantini, Pulcheria fu acclamata più volte come nuova s. Elena e difenditrice e salvatrice della Croce di Cristo, presente il marito il nuovo imperatore Marciano.
Fra lei e il papa s. Leone Magno, intercorse una fitta corrispondenza, per consolidare le norme del Concilio di Calcedonia e riguardo le successive agitazioni monofisite, specie in Palestina, Pulcheria intervenne nel 453 con due lettere dirette ai monaci palestinesi e a s. Bassa e le sue monache.
Nel terzo anno del regno di Marciano, l’imperatrice Pulcheria morì nel mese di luglio del 453 (stranamente in tanta precisione di notizie, si ignora il giorno), nel suo testamento, redatto da Marciano, ella lasciò tutti i suoi beni ai poveri.
Gli storici bizantini ricordano fra le sue opere la costruzione di sontuosi templi per la venerazione dei martiri, dei numerosi monasteri, ospizi e ricoveri, a cui dava una dote di sostegno. Si ricordano alcuni di questi templi: Chiesa dei Quaranta Martiri di Sebaste, in occasione della scoperta delle loro reliquie; il Santuario nel palazzo di Daphnè, dedicato a S. Stefano con la reliquia della mano destra del protomartire; una speciale chiesa in onore del profeta Isaia; poi il meraviglioso atrio di S. Lorenzo per deporvi le reliquie di s. Lorenzo e di s. Agnese e temporaneamente quelle di s. Stefano e di Isaia; la Chiesa di s. Mena in Acropoli.
Inoltre Pulcheria è ricordata per aver dato inizio dal 449 in poi, con l’appoggio di Marciano, alla costruzione dei Santuari mariani più cari alla pietà bizantina.
Il corpo dell’’Augusta’ Pulcheria fu sepolto nella Chiesa dei Ss. Apostoli di Costantinopoli, dove già riposavano i grandi s. Gregorio Nazianzeno, s. Giovanni Crisostomo e s. Flaviano. L’imperatore Leone (457-474) successore di Marciano, pieno di ammirazione per lei, fece apporre sulla sua tomba l’’indalma’ (immagine) di Pulcheria e fece trasportare in città, le statue di lei e del marito, che ornavano i portici del palazzo dell’Ebdomon; i corpi dei due sovrani erano sistemati in un’urna di porfido egiziano.
Due città, una in Frigia e l’altra nel Nuovo Epiro, ricordavano il suo nome, il quale deriva dal latino ‘Pulchra’ che significa ‘bella’.
La parte avuta dall’imperatrice nella difesa dell’ortodossia cristiana contro il nascente monofisismo (eresia che negava la natura umana di Cristo, affermandone l’unica natura divina) e che derivava dalla precedente eresia di Eutiche, spiega principalmente il culto datogli come santa, sia in Oriente che in Occidente, infatti le fu dato il titolo di “custode della Fede”.
Santa Pulcheria è ricordata nei sinassari orientali al 10 settembre, forse in dipendenza della commemorazione di s. Eudossia sua cognata; al 17 febbraio con s. Marciano, s. Flaviano e s. Leone I; al 7 agosto con s. Irene.
Nel ‘Martirologio Romano’ è ricordata al 10 settembre; il suo culto in Occidente ebbe un nuovo impulso con papa Benedetto XIV il quale, colpito dal valore altamente significativo del casto matrimonio di Pulcheria e di Marciano, con un decreto del 2 febbraio 1752, ne estendeva il culto con Messa propria in buona parte dell’Europa.
Autore: Antonio Borrelli
10 settembre (Chiese Orientali)
m. Gerusalemme, 460
Eudossia; fu moglie dell'imperatore bizantino Teodosio II. Ebbe come maestri san Simeone lo stilita e sant'Eutimio. Morì nel 460.
Sant’Eudossia fu moglie dell’imperatore bizantino Teodosio II. Visse dunque nel V secolo. Come consuetudine alla corte costantinopolitana, l’imperatrice esercitava un grande influsso sui monasteri e sul popolo. Pia e caritatevole, Eudossia fu in primo momento sostenitrice dei monofisiti, cioè quell’ala della Chiesa che rifiutò le dottrine conciliari calcedonesi. Solo il prezioso aiuto di Sant’Eutimio (20 gennaio) riuscì a ricondurla sul retto sentiero. Travolta delle sventure familiari, Eudossia iniziò a dubitare della saldezza della sua fede. San Simeone lo Stilita, al quale si era rivolta per chiedere consiglio, le rispose: “Perché andare a cercare l’acqua lontano quando hai la sorgente presso di te? Tu hai Eutimio, segui i suoi insegnamenti e sarai salva”. L’imperatrice invitò allora il santo igumeno ad andarla a trovare, ma poiché egli non voleva lasciare la sua solitudine, Eudossia fece costruire una torre nei pressi della laura di Sahel, in Palestina, ove poté incontrare il santo. Questi la indusse ad optare per i dogmi stabiliti nel Concilio di Calcedonia. In seguito, mentre viveva separata dal marito presso Gerusalemme, Eutimio predisse la sua ormai prossima fine. Eudossia fece quindi accelerare allora la costruzione della basilica di Santo Stefano, che fu consacrata tre mesi prima della sua morte nel 460.
La santa imperatrice Eudossia è venerata dalle Chiese Orientali il 10 settembre.
Autore: Fabio Arduino
28 ottobre 1200 - Otranto,11 settembre 1227
Figlio primogenito del langravio Ermanno I e di Sofia di Baviera, nacque il 28 ottobre 1200.
Aveva appena undici anni allorché lo fidanzarono con la quattrenne Elisabetta di Ungheria, la quale visse da allora in poi alla corte di Turingia, divenendo in seguito il loro amore uno dei piú belli che la storia conosca. Malgrado l'opposizione alle nozze dei vassalli e dei consiglieri che le ritenevano politicamente insignificanti, Ludovico, fedele alla parola data alla sua "amica soror", sposò Elisabetta nel 1221. Dal loro matrimonio nacquero tre figli: Ermanno, il 28 marzo 1222; Sofia, il 20 marzo 1224 e la beata Gertrude, che venne alla luce diciotto giorni dopo la morte del padre.
Quando Elisabetta si dedicò alla pratica del francescanesimo, nessuno poteva comprenderla e tuttavia Ludovico permise le sue beneficenze verso i poveri. Nel 1226 egli fece venire a corte, quale severo confessore della sua sposa e come suo proprio consigliere, il predicatore delle crociate Corrado di Marburgo. La profondità del suo amore verso Elisabetta e del suo sentimento religioso è dimostrata dal fatto che egli non tentò ai di porre limiti alle pratiche ascetiche di lei.
Ludovico così ci appare, da un lato, come uno sposo esemplare e un devoto cristiano; d'altra parte, egli è il langravio che vigila gelosamente sui propri diritti. Successe a suo padre nel governo nel 1217. A diciotto anni, appena fatto cavaliere, fu scomunicato dal vescovo Sigfrido II di Magonza in seguito a contese territoriali e scese in campo contro di lui; la riconciliazione avvenne in Fulda il 20 giugno 1219. Alla morte del margravio di Meissen, marito di una sua sorellastra, Jutta, il 17 febbraio 1221, Ludovico fu coinvolto nelle lotte per l'eredità e scomunicato una seconda volta; nuovamente vittorioso, fu piú tardi dall'imperatore investito del feudo di Meissen. Intraprese nel 1225 una spedizione militare in Slesia e nell'anno seguente passò nell'Italia del Nord con Federico II, guadagnandosi con la sua fedeltà di vassallo l'amicizia dell'imperatore, e ritornò in patria con l'onorevole incarico di nominare reggente dell'impero il duca di Baviera.
Già nel 1224, probabilmente, aveva preso la croce (partì per le crociate), e la ricevette una seconda volta nel 1227 a Hildesheim, dalle mani del vescovo Corrado. Il 24 giugno a Schmalkalden si congedò dai suoi dopo aver fatto rappresentare alla Wartburg il mistero della Passione: soltanto Elisabetta, che tanto poco aveva potuto vivere con lui, lo accompagnò fino al confine della Turingia.
Durante la crociata, morì di febbri in Otranto il 11 settembre 1227. Le sue spoglie furono portate a Reinhardsbrunn nel sepolcro di famiglia all'inizio del 1228 dai suoi vassalli, nel viaggio di ritorno dalla Terra Santa.
Ludovico ebbe insigni qualità, anche se le fonti agiografiche le esagerano: fu un principe saggio che seppe conservare, nonostante le imprese guerriere, il suo paese in una relativa pace interponendosi più d'una volta come mediatore di pace anche presso altri. Il libro VI della sua Vita enumera, agli anni 1233 e 1292-95, parecchi miracoli avvenuti presso la sua tomba. Si tratta delle consuete guarigioni miracolose riportate dagli agiografi medievali.
La prima serie apparve improvvisamente quando si discuteva la canonizzazione di Elisabetta; la seconda, quando i monaci di Reinhardsbrunn, dopo l'incendio del loro monastero nel 1292, volevano metter riparo ai danni incoraggiando un grande concorso di pellegrini.
Anche se tali miracoli non sono storicamente certi, la loro invenzione testimonia tuttavia della grande venerazione, che lo fece denominare "il Santo", tributata dal popolo a Ludovico e alla sua sposa e perciò egli è ricordato anche in tutte le opere agiografiche, sebbene ufficialmente il suo culto non sia mai stato confermato. Il giorno della sua commemorazione è l'11 settembre.
Nell'arte lo troviamo prevalentemente raffigurato nei cicli della Vita di s. Elisabetta. Spesso si rappresenta Elisabetta che cura un malato, mentre Ludovico vede in esso il crocifisso. Ricorrono sempre le scene del suo fidanzamento, dell'investitura a cavaliere, e soprattutto dell'addio a Elisabetta e della sua partenza di crociato.
Autore: Konrad Kunze Fonte:Enciclopedia dei Santi
Riudoms, Spagna, 24 novembre 1620 - Roma, 11 settembre 1684
Michele Battista Gran, nato a Riudomes (Spagna) nel 1620, rimasto vedovo era divenuto frate col nome di Bonaventura di Barcellona. Fu in diversi conventi spagnoli, dimostrando una profonda spiritualità, ubbidisce allegramente, vive una vita ritirata e mortificata. Chi gli vive accanto è testimone di fatti che hanno del miracoloso e che lasciano intravedere la sua vicinanza a Dio. Sente che il Signore vuole da lui un impegno particolare per rinnovare lo spirito francescano con l'istituzione dei «Ritiri», un ritorno alla spiritualità e alla povertà francescana delle origini. Si reca a Roma e qui trova un'umanità sofferente e bisognosa. Da vero figlio di san Francesco aiuta tutti come può e viene ribattezzato «l'apostolo di Roma». La riforma francescana che sta attuando gli attira i consensi delle autorità ecclesiastiche e dagli stessi Papi Alessandro VII e Innocenzo XI, dai quali arriva l'approvazione pontificia agli statuti dei suoi «Ritiri». Morì in San Bonaventura al Palatino nel 1684. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Roma, beato Bonaventura da Barcellona (Michele) Gran, religioso dell’Ordine dei Frati Minori, che, per amore dell’osservanza della regola, istituì in molti luoghi del territorio romano conventi per ritiri spirituali, mostrando sempre grande austerità di vita e carità verso i poveri.
Si era sposato a diciott’anni soprattutto per ubbidire a papà. Michele Battista Gran, giovane spagnolo d’inizio Seicento, si sente decisamente portato alla vita religiosa e negli studi riesce anche bene. Ma è anche figlio unico di modesti agricoltori, che diventati anziani reclamano il suo aiuto nel lavoro dei campi e gli organizzano la vita, a cominciare dalla moglie. Si sposa dunque, più per ubbidienza che per amore, ma sedici mesi dopo si ritrova già vedovo. Come a dire che l’uomo propone e Dio dispone.
E così il giovanotto, reso maturo dagli eventi, trova il coraggio di far prevalere le sue inclinazioni sulle aspettative dei genitori e, non senza contrasti familiari, a vent’anni se ne ritorna in convento, tra i Minori Francescani. Non però per diventare sacerdote, perché come San Francesco si sente profondamente indegno, ma, con il nuovo nome di Fra Bonaventura, come umile religioso, che per diciassette anni gira i vari conventi della Catalogna per fare, di volta in volta, il cuoco, il portinaio, l’infermiere o il questuante.
Fra Bonaventura si dimostra un frate che prega molto, ubbidisce allegramente, vive una vita ritirata e mortificata. E compie cose prodigiose. Chi gli vive accanto è testimone di fatti che hanno del miracoloso e che lasciano intravedere il suo grado di unione con Dio e la perfezione nella vita religiosa che giorno per giorno si sforza di raggiungere. Sente che il Signore vuole da lui un impegno particolare per rinnovare lo spirito francescano con l’istituzione dei “Ritiri”, che altro non è che un ritorno alla spiritualità e alla povertà francescana delle origini e allora parte in direzione di Roma. Strada facendo crescono i nuovi “Ritiri” di cui lui, umile fratello laico, è chiamato ad essere superiore, anche se, come per ogni “riforma” che si rispetti, non gli mancano i contrasti e le difficoltà.
La sua “marcia su Roma” si conclude nella città eterna, dove trova ad attenderlo un’umanità sofferente e bisognosa, afflitta dalle continue epidemie, dalla povertà cronica, dalle scorribande nemiche. Da vero figlio di San Francesco si fa in quattro per aiutare tutti come può, ed è così sollecito e premuroso che lo ribattezzano, lui, spagnolo purosangue, “l’apostolo di Roma”. La riforma francescana che sta attuando, oltre alle critiche ed alle ostilità, gli attira anche i consensi delle autorità ecclesiastiche e dello stesso papa, da Alessandro VII a Innocenzo XI, dai quali arriva anche l’approvazione pontificia agli statuti dei suoi “Ritiri”.
Tutti sono stupiti dei doni di spiritualità e di grazia che si ammirano in quel frate e dei prodigi che si verificano attorno a lui, come la firma di Dio sul suo operato. A Roma muore, poco più che sessantenne, l’11 settembre 1684 e la riconoscenza dei romani si trasforma subito in venerazione, che S. Pio X ratifica ufficialmente il 10 giugno 1906, proclamando solennemente beato l’umile Fra Bonaventura da Barcellona.
Autore: Gianpiero Pettiti
Martirologio Romano: A Toul in Austrasia, ora in Francia, san Leudíno, vescovo, che visse dapprima da uomo sposato e prese poi la decisione di ritirarsi a vita monastica, al pari di sua moglie Odilia.
sec. V
Fu un alto funzionario imperiale, amico di S. Agostino, cristiano esemplare “fama et pietate notissimus”. Per conto dell’imperatore Onorio presiedette la conferenza di Cartagine tra i vescovi cattolici e quelli che seguivano Donato. Questi affermava che la Chiesa è la società dei santi e che non sono validi i sacramenti somministrati da chi è in peccato. Marcellino accusò Donato, contro cui l’imperatore promulgò un edito di proscrizione. I donatisti, per vendetta, lo denunciarono di essere complice di Eracliano, usurpatore del trono di Onorio. Giustiziato, Marcellino venne riabilitato da Onorio un anno dopo la morte.
Etimologia: Marcellino, diminutivo di Marco = nato in marzo, sacro a Marte, dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Cartagine, nell’odierna Tunisia, san Marcellino, martire, che, tribuno e intimo amico di sant’Agostino e di san Girolamo, per l’ostilità dell’usurpatore Eracliano fu, benché innocente, ucciso dagli eretici donatisti per aver difeso la fede cattolica.
Il martirio di Marcellino, alto funzionario imperiale e amico di S. Agostino, è legato allo scisma donatista che dilaniò per più di un secolo la Chiesa africana. Gli inizi risalgono al 310 quando venne contestata la validità della elezione del vescovo di Cartagine, Ceciliano, perché consacrato da vescovi "traditori". Quando l'editto di Diocleziano impose ai cristiani di consegnare i libri sacri per bruciarli, coloro che ne assecondarono la volontà furono detti "traditores" e considerati come pubblici peccatori.
Il vescovo Donato (da cui il nome di donatismo alla setta), opposto dal partito scismatico al legittimo vescovo Ceciliano, aveva riassunto l'affermazione dottrinale in questi due punti: la Chiesa è la società dei santi; i sacramenti amministrati dai peccatori sono invalidi. Il pretesto dottrinale mascherava in realtà opposizioni regionali e sociali: Numidia contro Africa proconsolare, proletari contro proprietari romani. E’ a questo punto che si inserisce la vicenda personale del santo odierno, vittima illustre dei donatisti.
Marcellino svolgeva a Cartagine le mansioni di tribuno e di notaio. Buon padre di famiglia, cristiano esemplare, venne definito dall'amico S. Agostino uomo molto noto per l'universale stima di cui godeva per la sua religiosità: "fama et pietate notissimus". Desideroso di apprendere, si rivolse spesso a S. Agostino per avere chiarimenti sui punti più controversi della dottrina cattolica. Dobbiamo alla lodevole curiosità del pio funzionario alcune opere scritte dal grande teologo di Ippona, come il trattato “Sulla remissione dei peccati”, “Sullo spirito” e quello più celebre “Sulla Trinità”, che tuttavia Marcellino non poté leggere perché nel frattempo aveva pagato con la vita il coraggio di schierarsi dalla parte della tradizione cattolica, nella conferenza tenutasi a Cartagine nel 411 tra i vescovi cattolici e i donatisti. Marcellino diede la vittoria ai cattolici, e ciò valse un editto di proscrizione contro i donatisti promulgato dall'imperatore Onorio. Per questo i donatisti si vendicarono accusandolo di complicità con l'usurpatore Eracliano. L'accusa era grave e Marcellino fu condannato a morte dal conte Marino il 13 settembre. L'anno dopo lo stesso imperatore riconosceva l'errore commesso dalla giustizia romana. Caduta l'accusa di intesa tra Marcellino e il ribelle Eracliano, vennero sanzionate e approvate tutte le decisioni prese dal tribuno Marcellino, che la Chiesa onorò come martire per non essere mai sceso a compromessi con la verità neppure dinanzi alla morte.
Autore: Piero Bargellini
Oggi è anche la festa della esaltazione della Santa Croce, da ricordarsi qui perché il Crocifisso è proprio l'Icona del Cristo Sposo che si dona per la sua Sposa, la Chiesa, generandola!
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Santa Placilla è l'imperatrice nota nel mondo latino con il nome di Aelia Flaccilla, prima moglie di san Teodosio I il Grande. Come il marito anch'essa era di origini spagnole. Il matrimonio fui celebrato nel 376 e Placilla partorì tre figli negli anni seguenti. Assai probabilmente proprio per complicazioni seguite all'ultimo parto, Placilla morì prematuramente nel 385. Nella sua breve esistenza terrena fu ispiratrice di moderazione e di clemenza nella politica di suo marito, contribuendo con la promozione della fede cristiana in contrasto con i culti pagani ancora imperanti. La coppia imperiale divenne così sostenitrice della dottrina cristiana sostenuta dal Concilio di Nicea, avendo impedito Placilla a suo marito di stipulare un ambiguo accordo con l'eretico Ario. Santa Placilla, considerata anche un modello brillante di virtù cristiane e carità ardente per i suoi contemporanei, ricevette sepoltura presso Costantinopoli, con orazione funebre officiata da Gregorio di Nissa. (Avvenire)
Santa Placilla, nome italianizzato dal greco Plakilla, come viene riportata dall’autorevole Bibliotheca Sanctorum, non è altro che quell’imperatrice nota nel mondo latino con il nome di Ælia Flaccilla, prima moglie di San Teodosio I il Grande.
Come il marito anch’essa era di origini spagnole, forse figlia di Claudio Antonio, prefetto di Gaul e console nell’anno 382. Il matrimonio fra Teodosio e Placilla fu celebrato verso il 376, quando venne meno il disappunto da parte del padre dello sposo, che si ritirò presso Cauca in Gallæcia.
Verso la fine dell’anno seguente nacque il loro primo figlio, Sant’Arcadio, che avrebbe ereditato l’impero d’Oriente, e negli anni successivi seguirono altri due figli: Onorio nel 384, poi imperatore d’Occidente, e Pulcheria, deceduta in tenera età. Assai probabilmente prorio per complicazioni seguite a quest’ultimo parto, Placilla morì prematuramente poco dopo nel 385. San Gregorio di Nissa, suo agiografo, dichiarò espressamente che diede a Teodosio solo tre bambini e conseguentemente un certo Graziano, citato da Sant’Ambrogio, non rientrerebbe nella sua prole.
La sua breve esistenza terrena non fu però affatto irrilenvante nella storia della cristianità, in quanto con il benefico influsso della sua personalità fu ispiratrice di moderazione e di clemenza nella politica di suo marito, contribuendo con la promozione della fede cristiana alla distruzione dei culti pagani ancora imperanti. La coppia imperiale divenne così sostenitrice della dottrina cristiana sostenuta dal Concilio di Nicea, avendo impedito Placilla a suo marito di stipulare un ambiguo accordo con l’eretico Ario.
L’operato di questa santa imperatrice non fu però esclusivamente di carattere teologioco e dottrinale: San Gregorio di Nissa la considerò infatti anche modello brillante di virtù cristiane e carità ardente, mentre Sant’Ambrogio, celebre vescovo milanese che battezzò suo marito, la definisce “Fidelis anima Deo”. In un panegerico da lui composto, Gregorio di Nissa celebra la sua virtuosa vita, descrivendo Placilla quale ispiratrice del buon operato di Teodosio suo consorte, ornamento dell’impero, promotrice della giustizia, icona della beneficenza. Fu inoltre secondo il suo autorevole parere piena di zeno per la fede, colonna della Chiesa e madre degli indigenti. Teodoreto in particolare esaltò la sua carità e la sua benevolenza verso i più poveri e bisognosi, concretizzatesi non solamente in donazioni di denaro ma in servizio verso di loro.
Santa Placilla ricevette sepoltura presso Costantinopoli, con orazione funebre officiata da Gregorio di Nissa. Ancora oggi i sinassari della Chiesa Ortodossa Greca la commemorano in data odierna quale “santa”, mentre gli Acta Sanctorum redatti dai Bollandisti di tradizione latina si limitarono a riportarla quale “venerabile”.
Autore: Fabio Arduino
Oggi, festa dell'Addolorata, una santa sposa che ha il mio cognome, Adorno!!
Ricorre poi la festa di San Baldo, la cui storia appare leggenda addirittura uccise i suoi genitori...
Conosciamo poi due catechisti indios martiri ed infine la Serva di Dio Lavinia la cui peculiarità e la sua modernità nella Chiesa d’oggi è quella d'essere una cristiana santa con l’anello al dito che testimonia che la via ordinaria del matrimonio e della vita familiare è una via alla beatitudine…
Genova, 1448 –1510
Nasce nel 1447 in una delle principali famiglie genovesi. A sedici anni viene data in moglie a Giuliano Adorno, appartenente ad una importante famiglia ghibellina. Vive una vita frivola e mondana ma dopo un incontro con la sorella suora, decide di cambiare vita e condivide le sue esperienze mistiche e caritative con un piccolo gruppo di figli spirituali. Muore il 15 settembre 1510. Dopo la conversione, la vita di Caterina ha il proprio centro nel rapporto con Cristo. Non si dedica però solo alla contemplazione, ma anche all'azione, rivolgendo il suo impegno concreto soprattutto agli ammalati. Opera nella Compagnia delle dame della Misericordia e inizia a visitare il lebbrosario di san Lazzaro, svolge le mansioni più umili; cura pure i bambini abbandonati e fronteggia varie epidemie di peste. Nel 1497 fonda la prima «Compagnia del divino amore», che sarà il modello per analoghe istituzioni di altre città italiane nel quadro di quella che è stata chiamata la Riforma cattolica. Il suo corpo è conservato nella chiesa genovese della Santissima Annunziata in Portoria. (Avvenire)
Etimologia: Caterina = donna pura, dal greco
Martirologio Romano: A Genova, santa Caterina Fieschi, vedova, insigne per il disprezzo del mondo, i frequenti digiuni, l’amore per Dio e la carità verso i bisognosi e gli infermi.
Nel 1494-95 l’esercito del re francese Carlo VIII ha percorso l’Italia, portando con sé, come dice Francesco Guicciardini, i semi "di orribilissimi accidenti... e infermità fino a quel dì non conosciute". L’infermità che atterrisce è la sifilide. Esisteva già, ma lo scorrazzare degli eserciti l’ha propagata in dimensioni catastrofiche e con effetti ripugnanti. I malati ricchi chiamano i medici in casa, quelli poveri muoiono per le strade, nei fossi. Ma a Genova, nel 1497, emerge un gruppo che si dedica a questi scarti umani, li accoglie, li nutre, li cura. Animatrice: una signora di rango, Caterina Fieschi, moglie del nobile Giuliano Adorno. Li hanno sposati le famiglie e sono due malmaritati, che stanno insieme per ragioni di facciata; e delle avventure di lui parla tutta Genova. Lei però si libera da questa situazione attraverso un’esperienza mistica che la porta a guidare in Genova la reazione evangelica alla decadenza della Chiesa, anche attraverso la dedizione agli abbandonati; a diventare riformatrice con largo anticipo, attirando nell’impresa anche il marito, e dirigendo l’impegno dei rinnovatori verso un obiettivo preciso: vivere l’esperienza dell’amore di Dio andando dai più infelici e disprezzati. "Andava lei e nettava le miserie e brutture di detti infermi e poveri... con puzze quasi intollerabili et trovava anche quelli che dicevano parole terribili di disperazione". Qui c’è un aspetto applicato della sua esperienza, che non si ferma a quest’opera com’è descritta dai suoi discepoli. Caterina è una mistica che si tuffa nella realtà, con singolari doti che nel XX secolo si chiameranno manageriali: cambia organizzazione negli ospedali, cerca il nuovo e il meglio tra medici e cure. Ma parte sempre dall’idea di Dio-Amore, di quest’amore che va trasmesso subito a tutti, cominciando dai disperati. Il notaio e umanista genovese Ettore Vernazza, su impulso di lei, dà vita alla fraternità del Divino Amore, movimento di clero e di laici protesi a una riforma radicale della vita cristiana, che servirà di modello ad altre associazioni simili, tutte fondate sulla riforma interiore da un lato e sullo spendersi dall’altro, in ogni necessità. “Madonna Caterinetta”, come la chiamano, si ammala anche di peste curando una malata. E i suoi discepoli scrivono che, "sanata che fu, ritornò al servizio dell’hospidal con gran cura e diligenzia". Il movimento di riforma cattolica, dall’interno e senza ribellione, reagisce all’indifferenza colpevole di Roma insegnando e facendo, dando coraggio a molti cristiani anche nei tempi più demoralizzanti. Bisogna "piantare in li cori nostri il divino amore, cioè la carità". Questo è l’insegnamento di Caterina, dispensato e vissuto fino alla morte; la ricetta contro l’inerzia, la premessa per la ripresa. Morta nel 1510, Caterina Fieschi Adorno sarà canonizzata da Clemente XII nel 1737.
La Diocesi di Genova ne celebra il culto il 12 settembre.
Autore: Domenico Agasso Fonte:Famiglia Cristiana
La coppia non ebbe figli e poco si sa di questi primi anni: di certo la coppia non era una famiglia esemplare ma il frutto di un matrimonio di comodo. Dopo aver trascorso i primi dieci anni in una condotta di vita spensierata e mondana, venne colta da una conversione religiosa, testimoniata ufficialmente con la sua visione mistica del 24 marzo1473; alla sua conversione fece subito seguito quella del marito. Essi cambiarono completamente vita, andarono ad abitare in una modesta casa nel pressi dell'ospedale di Pammatone ed il marito entrò nel terzo ordine francescano.
† Sens (Francia), 620 ca.
Una leggenda riportata in un manoscritto del priorato di S. Eligio di Parigi, datato del secolo XIV, narra la vita di s. Baldo penitente, che presenta tutti i tratti delle tragedie medioevali, degne di rappresentazioni teatrali di successo.
Nativo della Spagna o del Portogallo, Baldo sin dall’adolescenza aveva avuto il presagio che avrebbe ucciso il padre e la madre, sconvolto, per non macchiarsi di così grave delitto, abbandonò il paese natio ed andò ad abitare in un villaggio di altra regione, dove poi si sposò.
Dopo vari anni, i genitori presi dal desiderio di rivedere il figlio, si misero alla sua ricerca, trovandolo dopo molti tentativi.
Giunti alla sua casa, furono accolti dalla nuora, perché il marito era assente momentaneamente; pur non conoscendoli li trattò con affabilità, li rifocillò e visto la loro spossatezza per il lungo viaggio, li fece coricare insieme nel suo letto matrimoniale; poi uscì alla ricerca del marito.
Baldo tornò invece per altra strada non incontrandola, entrato in casa vide nel suo letto due corpi nella penombra e supponendo che fosse la moglie che lo tradiva con qualche uomo, accecato dalla gelosia e dall’ira, con una scure affilata tagliò loro la testa.
Pochi istanti dopo la moglie tornò e lui si accorse del terribile sbaglio; in espiazione della sua colpa, decise di abbandonare il tetto coniugale e di condurre vita nomade.
Fu pellegrino al Santo Sepolcro in Palestina, alle tombe degli Apostoli a Roma e ad altri celebri santuari; poi attraversò le Alpi e giunse a Sens in Francia (Gallia) di cui era vescovo Artemio, al quale si confidò chiedendo una penitenza.
Il vescovo gli porse il bastone che teneva in mano, ordinandogli di piantarlo sulla cima di un monte vicino alla città, innaffiandolo con l’acqua del fiume Icauna, finché non mettesse radici, rami, fiori e frutti.
Baldo accettò con gratitudine la penitenza, aumentando lo sforzo del trasporto dell’acqua, scegliendo una strada più lunga e aspra, invece di una breve.
Alla sua morte fu sepolto nella cella che si era costruita sulla cima del monte, si ritiene che morì verso il 620; dopo qualche tempo sul tempo fu edificata una chiesa che prese il suo nome.
Nell’ottobre 1081, la chiesa e i terreni circostanti, furono donati dall’arcivescovo di Sens, Richerio, a Guglielmo abate di S. Remigio sempre a Sens, che vi eresse un priorato detto di San Bond a Paron, meta di pellegrinaggi a Pentecoste.
Nel 1674 passò ai Padri Lazzaristi e nel 1854 divenne parrocchia, dove dopo alterne vicende riposano le sue reliquie.
Il culto fiorì in varie zone della Francia, a Parigi e a Soissons, dove è patrono della parrocchia di Pavant con festa al 15 settembre. A Sens invece è festeggiato il 29 ottobre.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: In località Santo Domingo Xagacía in Messico, beati Giovanni Battista e Giacinto de los Ángeles, martiri, che, catechisti, crudelmente percossi per essersi rifiutati di venerare idoli pagani al posto di Cristo, imitando la sua passione meritarono di ottenere il premio della vita eterna.
I due indios zapotechi della Sierra di Oaxaca in Messico, Juan Bautista e Jacinto de Los Angeles, sono stati beatificati da papa Giovanni Paolo II il 1° agosto 2002, nella basilica della Madonna di Guadalupe a Città del Messico.
Essi sono l’esempio più lampante di come si debba tenere fede al proprio battesimo di cristiani, rifiutando in questo caso, l’idolatria anche a costo della propria vita.
La storia dei cristiani martiri, specie dei primi secoli è densa di figure, che hanno affrontato la morte nelle più strazianti forme, pur di non rinunciare alla fede cristiana da poco abbracciata e rifiutando i riti di devozione agli idoli dell’epoca.
Così è successo secoli e secoli dopo con i due indios messicani oggi beati; nacquero intorno al 1660-63 a S. Francisco Cajonos (Oaxaca), erano dei semplici laici sposati, catechisti responsabili di una cappellania rurale, dirigevano il culto ed aiutavano il parroco; inoltre essendo cristiani maturi e di indubbia moralità e fede, avevano l’incarico di ‘fiscales’ cioè avevano il dovere di denunciare ai sacerdoti e alle autorità civili, ogni caso di spergiuro, immoralità, apostasia che venisse compiuto dalla popolazione.
Giacché vi erano stati alcuni casi di idolatria fra gli indios già convertiti al cristianesimo, essi fecero la loro denunzia; la requisizione delle offerte rituali da parte dei militari, fece infuriare la popolazione che decise di incendiare la chiesa e il convento con i padri domenicani dentro, se non gli fossero stati consegnati i due ‘fiscales’.
Il capitano comandante acconsentì e i due indios dopo aver ricevuto i sacramenti, per evitare danni ai padri si consegnarono nelle mani dei rivoltosi; furono frustati, ingiuriati e sollecitati ad abiurare il cristianesimo e ritornare ad adorare i loro idoli ancestrali; al loro diniego furono condotti nella località montuosa di S. Domingo Xagacía e qui uccisi a colpi di bastone e di machete, era il 16 settembre 1700; il monte del martirio porta ancora il nome di “Fiscal-Santo”.
Papa Giovanni Paolo II, durante la cerimonia di beatificazione ha detto: “I due beati costituiscono un esempio di come, senza mitizzare i propri costumi ancestrali, si possa giungere a Dio senza rinunciare alla propria cultura, lasciandosi però illuminare dalla luce di Cristo, che rinnova lo spirito religioso delle migliori tradizioni dei popoli”.
La festa liturgica è stata fissata al 18 settembre, al termine di una suggestiva cerimonia a cui hanno partecipato migliaia di indios delle varie etnie e provenienti da tutto il Messico.
Autore: Antonio Borrelli
Grottammare, Ascoli Piceno, 2 giugno 1588 – Grottammare, Ascoli Piceno, 15 settembre 1623
Lavinia nacque il 2 giugno 1588 a Grottammare da Sigismondo Sernardi e da Emilia Tesei. In quegli anni era Papa, Sisto V, nato nello stesso paese il 13 dicembre 1521. A quanto sembra Lavinia era la prima dei figli: certamente era la maggiore delle sue sorelle Angelella, Porzia e Vincenza. Ha avuto anche un fratello di nome Astolfo.
La madre Emilia si incaricò della formazione spirituale di Lavinia e la educò con somma cura. Nella via della santità Lavinia fu guidata da tre sacerdoti, che lei giudicava come suoi direttori spirituali: Padre Vagnozzo Pica, prete diocesano di Ripatransone e parroco della parrocchia S. Angelo della stessa città; Fra Nicolò Pallotta, francescano di Monteprandone; Don Girolamo Leti, pievano della chiesa del castello di S. Benedetto. E’ nota la grande devozione che Lavinia ebbe verso S. Benedetto Martire, sulla cui tomba spesso si recava a pregare, percorrendo a piedi la strada Lauretana.
Ad appena 15 anni, come era uso a quei tempi, andò sposa a Gio. Marino, figlio di Gio. Antonio, della famiglia dei Giammarini. Dopo sette anni di matrimonio le nacque una figlia, Ifigenia che morì dopo pochi mesi. Dopo qualche tempo ebbe un secondo figlio, cui mise nome Francesco e dopo tre anni le nacque un’altra figlia che chiamò Margherita.
Particolarmente curata fu l’educazione impartita da mamma Lavinia ai suoi figli Francesco che studiò fisica all’Università di Fermo e Margherita che seguì la vita religiosa e si fece Cappuccina a Fermo.
Scrive il Catani: È oltremodo commovente leggere le testimonianze dei confessori di Lavinia, che si trovano davanti un’anima così bella, lontana da ogni peccato e sempre in atteggiamento di preghiera. In realtà la vita di Lavinia non ha nulla di eclatante o di particolarmente grandioso, se si eccettua – e non è poco- questa scelta di unione mistica con Dio, questa prova di fedeltà evangelica, questa possibilità di mettere in pratica, da parte di una donna qualsiasi, per giunta sposata e con figli, la perfezione del discorso della montagna, rivolto non solo agli apostoli ma a tutti i discepoli di Cristo.
Qui sta la peculiarità di Lavinia Sernardi e la sua modernità nella Chiesa d’oggi: è una cristiana santa con l’anello al dito e testimonia che la via ordinaria del matrimonio e della vita familiare è una via alla beatitudine…
Lavinia ci insegna che la vita familiare è vita di santità, vita di virtù eroiche vissute nelle condizioni comuni e ordinarie dell’esistenza umana.
Dalla biografia di p. Bevilacqua non si riesce a diagnosticare di quale malattia morì Lavinia.
Era l’anno 1623, il 15 settembre, all’età di 35 anni, 3 mesi e 13 giorni. I funerali si svolsero nella chiesa della Madonna dei Monti, e lì fu sepolta. Ancor oggi una lapide ne indica la tomba.
Autore: Pietro Pompei
Mielnik, 860 - Tetin, 15 settembre 921
Nata intorno alla metà del IX secolo, diffuse il cristianesimo in Boemia. A 14 anni sposò Borivoj, duca di Boemia. Fu zelante nella diffusione del cristianesimo, in una Boemia ancora pagana. Dopo la morte del marito, distribuì ai poveri la maggior parte dei suoi beni. I nobili boemi affidarono a Ludmilla l'educazione del nipote Venceslao, mentre alla madre del ragazzo, Drahomíra, venne affidato il governo del ducato. Ma in preda alla gelosia la donna accusò Ludmilla di mirare al governo del ducato influenzando Venceslao, verso il quale cercava, invece, di infondergli l'amore verso Dio. Abbandonata la corte di Praga, si rifugiò nel castello Tetín, ma anche qui fu perseguitata: nella notte del 15 settembre 920, un gruppo di assassini guidati dai cortigiani di Drahomíra la strangolarono. Ludmilla aveva 61 anni. Quando il nipote Venceslao divenne duca, fece traslare il corpo della nonna da Tetín a Praga, dove il 10 ottobre 926 le spoglie ricevettero definitiva sepoltura nella basilica di San Giorgio. (Avvenire)
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Praga in Boemia, santa Ludmilla, martire, che, duchessa di Boemia, preposta all’educazione di suo nipote san Venceslao, nel cui animo cercò di far nascere l’amore per Cristo, fu strangolata per congiura della nuora Dragomira e di alcuni nobili pagani.
Non vi è alcun dubbio che l’educazione delle persone e dei popoli sia stata tra i fondamenti di tutte le civiltà, che in qualche modo l’uomo è riuscito a studiare ed a inquadrare. Trarre fuori dallo stato primitivo e selvaggio, quindi allevare, è in effetti l’etimologia di educazione. Bisogna stare tuttavia attenti alle varie aggettivazioni che possono venire attribuite alla parola stessa, iniziando proprio dall’aggettivazione di buona e cattiva educazione. Tanti pesanti comportamenti e tanti gravi fatti che accadono ai nostri giorni, anche qui in Italia, rendono tutti convinti come sia urgente una profonda opera di educazione nei riguardi di tutti, dai bambini ai vecchi. Educazione civica, educazione alla legalità, alla tolleranza, alla sobrietà, tanto per citare alcuni aspetti d’attualità.
Esemplare educatore cristiano dei giovani, specialmente nell’apprendistato, può essere indicato San Giovanni Bosco (1815-1888). Protettore dei genitori nell’educare cristianamente i figli può venire segnalato San Cornelio Mac Conchailleadh, arcivescovo irlandese e professore agostiniano del XII secolo. È tuttavia Santa Ludmilla, la patrona degli educatori cristiani e delle madri di famiglia, che si pone qui brevemente in risalto. La madre, dopo avere procreato, è in effetti la prima educatrice, con l’insegnamento e con l’esempio, dei propri figli, formando così il primo importante nucleo della futura loro personalità.
Chi è stato a Praga ricorderà certamente, tra le altre innumerevoli opere monumentali, l’enorme piazza Venceslao, posta in posizione strategica fra la Città Vecchia e la Città Nuova e simbolo dei destini nazionali nonché dell’identità ceca nella storia moderna. Ebbene, là sotto il Museo nazionale campeggia il monumento equestre del patrono San Venceslao (905 ca.- 935), propagatore del cristianesimo in Boemia e assassinato giovane dal diabolico fratello Boleslav. La grande sua statua è contornata dai quattro santi protettori boemi dietro Adalberto e Agnese, davanti Procopio e, non a caso, proprio Ludmilla.
In realtà ella fu la nonna di Venceslao, con un nome che dallo slavo può tradursi in “amata dal popolo“e con la denominazione dopo la morte di “madre dei poveri “ per le sue opere di carità. Nacque verso l’859 in Lusazia, una regione storica situata nell’Europa Centrale e ripartita oggi fra Polonia, Germania e Repubblica Ceca. Il padre Slavibor era duca di Milsko e al duca di Boemia, Borisvoj, Ludmilla andò sposa ancora adolescente nell’873. I due sposi vennero poi battezzati da San Metodio, apostolo degli slavi nel IX secolo, che insieme a San Cirillo verrà proclamato, più di un millennio dopo, patrono dell’Europa Orientale da papa Giovanni Paolo II. La lusaziana ed il boemo ebbero tre figli e tre figlie, impegnandosi per la loro educazione cristiana e prodigandosi contemporaneamente per la diffusione del cristianesimo in quella regione.
Rimasta vedova nell’894, Ludmilla donò tutti i suoi beni ai poveri e si dedicò ad una vita di pietà, vivendo presso il primogenito Vratislao. Allorché questi morì prematuramente nel 916, i nobili affidarono la reggenza del ducato alla moglie Drahomira e l’educazione del primogenito nipotino Venceslao alla nonna cristiana. La reggente, sostanzialmente legata ancora al paganesimo e gelosa dell’influenza della suocera sul bambino, costrinse Ludmilla a ritirarsi nel castello di Tetin. Là poi nel 920 la povera vedova venne fatta strangolare col velo vedovile che portava in testa, su probabile ordine di Drahomira.
Venceslao, appena divenuto maggiorenne ed a sua volta duca, fece traslare le reliquie della nonna, venerate e dispensatrici di miracoli, nella basilica del castello ducale in Praga. Purtroppo tale basilica fu trasformata in museo durante il regime comunista nella Cecoslovacchia.
Santa Ludmilla viene ricordata liturgicamente il 16 settembre.
Autore: Mario Benatti
Pozoblanco, Spanga, 15 ottobre 1890 - Siviglia, Spagna, 16 settembre 1936
Nacque a Pozoblanco, in provincia di Cordova, il 15 ottobre 1890. Frequentò il collegio delle Religiose Concezioniste della città. Nel 1925 andò sposa all'architetto Giovanni Battista Caballero, dal quale ebbe una figlia.
Fin da giovane fece parte dell'Azione Cattolica, delle Conferenze di San Vincenzo de' Paoli, di Confraternite religiose e fu attiva cooperatrice salesiana.
Quando nel 1936 scoppiò la rivoluzione, si offerse vittima al Signore per il trionfo della buona causa. Il 22 agosto, arrestata a Pozoblanco per la sua condizione di donna cattolica, si accomiatò dalla famiglia e specialmente dalla sua bambina, che non si voleva staccare da lei, e fu imprigionata. Il 16 settembre venne condannata a morte con 17 altri cattolici. Incoraggiò tutti e morì perdonando ai suoi carnefici.
Beatificata il 28 ottobre 2007
Fonte:www.sdb.org
Martirologio Romano: A Nagasaki in Giappone, beati martiri Michele Timonoya e suo figlio Paolo, che furono decapitati per la fede.
Etimologia: Riccarda = potente e ricca, dal provenzale
Martirologio Romano: Ad Andlau in Alsazia, nel territorio dell’odierna Francia, santa Riccarda, che, regina, rinunciando al regno di questo mondo, servì Dio nel monastero da lei stessa fondato.
Figlia del conte di Alsazia, sposò verso l’862 Carlo il Grosso, figlio di Lodovico il Germanico; da principessa divenne grande benefattrice di vari monasteri in Germania, Svizzera e Italia e verso l’880 fondò nelle sue proprietà l’abbazia di Andlau nel Basso Reno.
Nell’881 si recò, insieme al marito a Roma dal papa Giovanni VIII per ricevere la corona imperiale e per porre la nuova abbazia sotto la protezione pontificia. Il nuovo imperatore del Sacro Romano Impero prese il nome di Carlo III il Grosso, succedendo a suo padre e a due fratelli e si trovò a governare un territorio quasi uguale a quello di Carlo Magno, purtroppo non con le stesse capacità di governo; non riuscì ad arginare efficacemente le incursioni dei Normanni e venne combattuto dai feudatari, pertanto nella Dieta di Tribur dell’887 fu deposto, trasferitosi in Svevia a Neidingen sul Danubio, vi morì dopo pochi mesi.
L’imperatrice Riccarda già angosciata per la disgrazia e la morte del marito, fu accusata ingiustamente di adulterio con un cancelliere–vescovo, le false accuse si dimostrarono subito infondate, ma Riccarda amareggiata decise di ritirarsi nel monastero di Andlau da lei fondato e retto dalla badessa Rotruda sua nipote.
Visse i suoi ultimi anni in preghiera e opere pie e morì il 18 settembre dell’894 circa. Secondo una leggenda per dimostrare la sua innocenza avrebbe superata l’ordalia del fuoco per cui viene invocata come protettrice contro il fuoco.
Il suo corpo fu sepolto nella stessa abbazia, fino al 1049 quando il papa Leone IX lo fece trasferire nella chiesa abbaziale da lui stesso consacrata. Nel 1350 le fu eretto un monumento sepolcrale che è ancora oggi meta di pellegrinaggi.
Il nome Riccarda / Riccardo, deriva dal provenzale Richart, tratto a sua volta dal tedesco ‘rikja’ (signore) e ‘hart’ (forte).
Autore: Antonio Borrelli
Oggi un Santo vescovo che era guerriero e padre di due figlie di cui una divenne anche Santa.
Martirologio Romano: A Metz in Austrasia, ancora nel territorio dell’odierna Francia, san Goeríco o Abbone, vescovo, che succedette a sant’Arnolfo, il corpo del quale traslò con venerazione in questa città.
I suoi due nomi ci sono stati tramandati sotto forme diverse: il primo, Abbone, nelle varianti Abbo, Appo, Abdo, Albo; il secondo nelle varianti Goerìco, GoherIco, Goderìco. Nei cataloghi ufficiali della diocesi risulta il trentesimo vescovo di Metz, avendo governato quella chiesa dal 625 al 642 o 643. Nei martirologi germanici, in quello di Metz e di altre città della Gallia è ricordato il 19 settembre come «vescovo e confessore, mirabile per santità, amabile coi suoi sudditi». Di lui ci sono pervenute due vite, di poco posteriori al Mille, ma sono di scarso valore storico.
Nacque in Aquitania, tra il 565 e il 575, figlio, a quanto sembra, di Gamardo e forse cugino o nipote del vescovo suo predecessore, sant' Arnolfo, di cui egli riconobbe i resti a Remiremont nel 641 riportandoli a Metz. Si dice abbia avuto due figlie: Vittorina e Precia (o Aprincia), alla quale egli stesso da vescovo impose il velo della verginità e che più tardi divenne santa. Secondo tutti i documenti che ci parlano di lui Abbone fu un valoroso guerriero, riportò numerose vittorie contro i barbari e per le sue straordinarie doti di capitano percorse tutti i gradi della carriera militare, giungendo fino alle più alte dignità. Si dice anche che, ferito in uno scontro, perdette la vista e che sopportò tale infelicità con cristiana pazienza. Recatosi a Metz e datosi a opere di bene, per intercessione di sant' Arnolfo, riacquistò la vista e fu iniziato agli ordini sacri. Nel 625 diventò vescovo di Metz. Qui fece costruire la chiesa di San Pietro infra domum o ad imagines; fu molto onorato dal re Dagoberto, che lo nominò nel suo testamento (636), e tenne corrispondenza con Desiderio, vescovo di Cahors. Nel secolo X, a Metz, esisteva una chiesa in suo onore. Un breviario stampato a Parigi nel 1535 e un breviario del 1554 hanno di lui un Ufficio con nove lezioni; l'Ufficio è tolto dal Comune, ma con tre antifone e orazione propria.
Autore: Andrea Tessarolo Fonte:Enciclopedia dei Santi
Sec. VI
Proveniente da un'onorata famiglia di Bourgesin Francia, abbandonò il mondo per diventare eremita a Berry. Si alimentava soltanto di frutti silvestri e di miele.
Etimologia: Mariano = dedicato a Maria, alla Madonna
Martirologio Romano: Nel territorio di Bourges in Aquitania, in Francia, san Mariano, eremita, che non si nutriva che di frutti selvatici e miele reperito per caso.
Si tratta di un eremita vissuto alla fine del secolo V, si parla di lui in due fonti altrettanto autorevoli, che pur raccontando le poche notizie sulla sua vita, in modo diverso, alla fine si possono benissimo integrare, perché comunque parlano della stessa persona.
Mariano apparteneva ad una onorata famiglia di Bourges in Francia, dopo imprecisate circostanze, lasciò la moglie e rinunciò al mondo per consacrarsi a Dio nella penitenza.
Dopo aver vissuto sei anni in un monastero, si ritirò in eremitaggio nel Berry, vivendo così in solitudine per 44 anni; si nutriva di frutti e miele selvatico; il luogo del suo ritiro è discorde nelle due fonti, una dice vicino al villaggio di Épineuil (oggi Épineuil-le-Fleuriel, nel Cher) e l’altra vicino Évaux (oggi Évaux-les-Bains, nella Creuse) comunque le due località sono distanti fra loro solo 45 km.
Sembrerebbe che sia vissuto ad Épineuil dove ricevé anche la visita di Tetradio, vescovo di Bourges, che consacrò la sua piccola cappella e lo invitò invano a farsi prete.
Verso la fine della sua vita Mariano si spostò, avvicinandosi a pochi km da Évaux, qui riceveva molti visitatori e un giorno che non lo si era trovato, seguirono le orme dei suoi passi e lo si scoprì morto, disteso sotto un albero di mele.
Dopo averlo lavato e rivestito, fu trasportato nel borgo di Évaux seppellendolo nella chiesa, dove ogni anno fu celebrata la sua festa; le sue reliquie sono tuttora nella chiesa di Évaux e sono portate in processione nella domenica seguente il 10 ottobre.
La sua festa è celebrata nella diocesi di Bourges al 19 agosto, data che è inserita nei Martirologi ‘Romano’ e ‘Geronimiano’.
Autore: Antonio Borrelli
Etimologia: Eustachio = ricco di spighe, dal greco
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di sant’Eustachio martire, il cui nome è venerato in un’antica diaconia dell’Urbe.
Il ricco, vittorioso generale Placido, benché pagano, era per sua natura una persona spinta a fare grandi beneficenze, come il centurione Cornelio. La leggenda racconta che un giorno (100-101) andando a caccia, inseguì un cervo di rara bellezza e grandezza e quando questi si fermò sopra una rupe e volgendosi all’inseguitore, aveva tra le corna una croce luminosa e sopra la figura di Cristo che gli dice: “Placido perché mi perseguiti? Io sono Gesù che tu onori senza sapere”.
Riavutosi dallo spavento, il generale di Traiano decise di farsi battezzare prendendo il nome di Eustachio o Eustazio e con lui anche la moglie e i due figli con i nomi di Teopista, Teopisto e Agapio (anch'essi santi).
Ritornato sul monte, riascoltò la misteriosa voce che gli preannunciava che avrebbe dovuto dar prova della sua pazienza. E qui iniziano i guai, la peste gli uccide i servi e le serve e poi i cavalli e il bestiame; i ladri gli rubano tutto.
Decide di emigrare in Egitto, durante il viaggio non potendo pagare il nolo, si vede togliere la moglie dal capitano della nave che se n’era invaghito. Ridisceso a terra prosegue il viaggio a piedi con i figli, che gli vengono rapiti uno da un leone e l’altro da un lupo, ma poi salvati dagli abitanti del luogo; i due ragazzi crescono nello stesso villaggio senza conoscersi.
Rimasto solo, Eustachio si stabilisce in un villaggio vicino chiamato Badisso, guadagnandosi il pane come guardiano, sta lì per 15 anni, finché avendo i barbari violati i confini dell’Impero, Traiano lo manda a cercare per riportarlo a Roma.
Di nuovo comandante delle truppe, arruola soldati da ogni luogo; così fra le reclute finiscono anche i suoi due figli, robusti e ben educati, al punto che Eustachio sempre non riconoscendoli, li nomina sottufficiali, tenendoli presso di sé.
Vinta la guerra, le truppe sostano per un breve riposo in un piccolo villaggio, proprio quello in cui vive coltivando un orto, Teopista, che era rimasta sola dopo la morte del capitano della nave e abitando in una povera casupola; i due sottufficiali le chiedono ospitalità, e nel raccontarsi le loro vicissitudini, finiscono per riconoscersi come fratelli, anche Teopista li riconosce ma non lo dice, finché il giorno dopo presentatasi al generale, per essere aiutata a rientrare in patria, riconosce il marito, segue un riconoscimento fra tutti loro e così la famiglia si ricompone.
Intanto morto Traiano, gli era succeduto Adriano (117), il quale accoglie il vincitore dei barbari con feste e trionfi. Però il giorno dopo si doveva partecipare al rito di ringraziamento nel tempio di Apollo ed Eustachio si rifiuta essendo cristiano; l’imperatore per questo lo condanna al circo insieme ai suoi familiari (140); ma il leone per quanto aizzato non li tocca nemmeno e allora vengono introdotti vivi in un bue di bronzo arroventato, morendo subito, ma il calore non brucia loro nemmeno un capello.
I cristiani recuperano i corpi e gli danno sepoltura, in questo luogo dopo la pace di Costantino (325) fu eretto un oratorio, dove venivano celebrati il 1° novembre.
Questa leggenda ebbe una diffusione straordinaria nel Medioevo e ci è pervenuta in molte redazioni e versioni greche, latine, orientali e lingue volgari, quasi tutte le europee, diverse nei particolari ma concordanti nella sostanza.
La leggenda presenta assonanze ricorrenti nell’agiografia cristiana e nella novellistica popolare; il racconto del cervo compare anche nelle ‘Vite’ di molti santi cristiani e ha radici nella letteratura indiana; le avventure familiari di Eustachio sono un motivo ricorrente in India passato poi nell’antica letteratura greca, araba, giudaica e altre leggende cristiane.
Il culto per il martire Eustachio e familiari è antichissimo e innumerevoli sono le chiese, citazioni, racconti, documenti, ecc. in cui compare il suo nome, già agli inizi del secolo VIII. La sua festa inizialmente al 1° novembre fu spostata al 2 novembre, quando fu istituita la festa di Tutti i Santi e poi dopo l’inserimento della Commemorazione dei Defunti, fu spostata al 20 settembre, data che compare già negli evangeliari dalla metà del sec. VIII.
È protettore dei cacciatori e guardiacaccia e della città di Matera. Il nome deriva dal greco ‘Eystachios’ e significa “producente molte e buone spighe”.
Autore: Antonio Borrelli
L'azione dello Spirito, che soffia dove vuole, con l'apostolato di un generoso manipolo di laici è alla radice della santa Chiesa di Dio in terra coreana. Il primo germe della fede cattolica, portato da un laico coreano nel 1784 al suo ritorno in Patria da Pechino, fu fecondato sulla meta del secolo XIX dal martirio che vide associati 103 membri della giovane comunità. Fra essi si segnalano Andrea Kim Taegon, il primo presbitero coreano e l'apostolo laico Paolo Chong Hasang. Le persecuzioni che infuriarono in ondate successive dal 1839 al 1867, anziché soffocare la fede dei neofiti, suscitarono una primavera dello Spirito a immagine della Chiesa nascente. L'impronta apostolica di questa comunità dell'Estremo Oriente fu resa, con linguaggio semplice ed efficace, ispirato alla parabola del buon seminatore, del presbitero Andrea alla vigilia del martirio. Nel suo viaggio pastorale in quella terra lontana il Papa Giovanni Paolo II, il 6 maggio 1984, iscrisse i martiri coreani nel calendario dei santi. La loro memoria si celebra nella data odierna, perché un gruppo di essi subì il martirio in questo mese, alcuni il 20 e il 21 settembre. (Mess. Rom.)
Etimologia: Andrea = virile, gagliardo, dal greco
Emblema: Palma
Martirologio Romano: Memoria dei santi Andrea Kim Tae-gon, sacerdote, Paolo Chong Ha-sang e compagni, martiri in Corea. In questo giorno in un’unica celebrazione si venerano anche tutti i centotrè martiri, che testimoniarono coraggiosamente la fede cristiana, introdotta la prima volta con fervore in questo regno da alcuni laici e poi alimentata e consolidata dalla predicazione dei missionari e dalla celebrazione dei sacramenti. Tutti questi atleti di Cristo, di cui tre vescovi, otto sacerdoti e tutti gli altri laici, tra i quali alcuni coniugati altri no, vecchi, giovani e fanciulli, sottoposti al supplizio, consacrarono con il loro prezioso sangue gli inizi della Chiesa in Corea.
La Chiesa coreana ha la caratteristica forse unica, di essere stata fondata e sostenuta da laici; infatti agli inizi del 1600 la fede cristiana comparve in Corea tramite le delegazioni che ogni anno visitavano Pechino in Cina, per uno scambio culturale con questa Nazione, molto stimata in tutto l’Estremo Oriente.
E in Cina i coreani vennero in contatto con la fede cristiana, portando in patria il libro del grande padre Matteo Ricci “La vera dottrina di Dio”; e un laico, Lee Byeok grande pensatore, ispirandosi al libro del famoso missionario gesuita, fondò una prima comunità cristiana molto attiva.
Intorno al 1780, Lee Byeok pregò un suo amico Lee-sunghoon, che faceva parte della solita delegazione culturale in partenza per la Cina, di farsi battezzare e al ritorno portare con sé libri e scritti religiosi adatti ad approfondire la nuova fede.
Nella primavera del 1784 l’amico ritornò con il nome di Pietro, dando alla comunità un forte impulso; non conoscendo bene la natura della Chiesa, il gruppo si organizzò con una gerarchia propria celebrando il battesimo e non solo, ma anche la cresima e l’eucaristia.
Informati dal vescovo di Pechino che per avere una gerarchia occorreva una successione apostolica, lo pregarono di inviare al più presto dei sacerdoti; furono accontentati con l’invio di un prete Chu-mun-mo, così la comunità coreana crebbe in poco tempo a varie migliaia di fedeli.
Purtroppo anche in Corea si scatenò ben presto una persecuzione fin dal 1785, che si incrudeliva sempre più, finché nel 1801 anche l’unico prete venne ucciso, ma questo non bloccò affatto la crescita della comunità cristiana.
Il re nel 1802 emanò un editto di stato, in cui si ordinava addirittura lo sterminio dei cristiani, come unica soluzione per soffocare il germe di quella “follia”, ritenuta tale dal suo governo. Rimasti soli e senza guida spirituale, i cristiani coreani chiedevano continuamente al vescovo di Pechino e anche al papa di avere dei sacerdoti; ma le condizioni locali lo permisero solo nel 1837, quando furono inviati un vescovo e due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi; i quali penetrati clandestinamente in Corea furono martirizzati due anni dopo.
Un secondo tentativo operato da Andrea Kim Taegon, riuscì a fare entrare un vescovo e un sacerdote, da quel momento la presenza di una gerarchia cattolica in Corea non mancherà più, nonostante che nel 1866 si ebbe la persecuzione più accanita; nel 1882 il governo decretò la libertà religiosa.
Nelle persecuzioni coreane perirono, secondo fonti locali, più di 10.000 martiri, di questi 103 furono beatificati in due gruppi distinti nel 1925 e nel 1968 e poi canonizzati tutti insieme il 6 maggio 1984 a Seul in Corea da papa Giovanni Paolo II; di questi solo 10 sono stranieri, 3 vescovi e 7 sacerdoti, gli altri tutti coreani, catechisti e fedeli.
Di seguito diamo un breve tratto biografico dei due capoelenco liturgico del gruppo dei 103 santi martiri: Andrea Kim Taegon e Paolo Chong Hasang.
Andrea nato nel 1821 da una nobile famiglia cristiana, crebbe in un ambiente decisamente ispirato ai principi cristiani, il padre in particolare aveva trasformato la sua casa in una ‘chiesa domestica’, ove affluivano i cristiani ed i neofiti della nuova fede, per ricevere il battesimo, scoperto tenne con forza la sua fede, morendo a 44 anni martire.
Aveva 15 anni quando uno dei primi missionari francesi arrivati in Corea nel 1836, lo inviò a Macao per prepararlo al sacerdozio. Ritornò come diacono nel 1844 per preparare l’entrata del vescovo mons. Ferréol, organizzando una imbarcazione con marinai tutti cristiani, andando a prenderlo a Shanghai, qui fu ordinato sacerdote e insieme, di nascosto con un viaggio avventuroso, penetrarono in Corea, dove lavorarono insieme sempre in un clima di persecuzione.
Con la nobiltà del suo atteggiamento, con la capacità di comprendere la mentalità locale, riuscì ad ottenere ottimi risultati d’apostolato. Nel 1846 il vescovo Ferréol lo incaricò di far pervenire delle lettere in Europa, tramite il vescovo di Pechino, ma durante il suo incontro con le barche cinesi, fu casualmente scoperto ed arrestato.
Subì gli interrogatori e gli spostamenti di carcere prima con il mandarino, poi con il governatore e giacché era un nobile, alla fine con il re e a tutti manifestò la fedeltà al suo Dio, rifiutando i tentativi di farlo apostatare, nonostante le atroci torture; alla fine venne decapitato il 16 settembre del 1846 a Seul; primo sacerdote martire della nascente Chiesa coreana.
Paolo Chong Hasang. Eroico laico coreano, era nato nel 1795 a Mahyan, il padre Agostino e il fratello Carlo vennero martirizzati nel 1801, la sua famiglia composta da lui, la madre Cecilia e la sorella Elisabetta, venne imprigionata e privata di ogni bene, furono costretti ad andare ospiti di un parente, ma appena gli fu possibile si trasferì a Seul aggregandosi alla comunità cristiana; perlomeno quindici volte andò in Cina a Pechino in viaggi difficilissimi fatti a piedi, spinto dall’eroismo di una fede genuina, professata nonostante i gravi pericoli.
Collaborò alacremente affinché il primo sacerdote Yan arrivasse in Corea e poi dopo di lui i missionari francesi: il vescovo Imbert ed i sacerdoti Maubant e Chastan.
Fu accolto con la madre e la sorella dal vescovo Imbert, il quale desiderava farlo diventare sacerdote, ma la persecuzione infuriava e un apostata li tradì, facendoli imprigionare.
Paolo Chong Hasang venne interrogato e torturato per fargli abbandonare la religione straniera a cui si era associato, ma visto la sua grande fermezza, venne condannato e decapitato il 22 settembre 1839, insieme al suo caro amico Agostino Nyon, anche lui firmatario di una petizione al papa per l’invio di un vescovo in Corea. Anche la madre e la sorella vennero uccise dopo alcuni mesi.
Il vescovo e i due sacerdoti delle Missioni Estere di Parigi, vennero decapitati anche loro nel 1839.
Ecco l'elenco completo dei coniugi tra i 103 martiri in Corea:
Pietro Yi Ho-yong, laico
+ 25 novembre 1838 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)
Protasio Chong Kuk-bo, laico sposato
+ 20 maggio 1839 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)
Maddalena Kim Ob-i, laica sposata
Anna Pak A-gi, laica sposata
Agata Yi So-sa, laica sposata e sorella di Pietro Yi Ho-Yong
Agata Kim A-gi, laica sposata
Agostino Yi Kwang-hon, laico sposato e catechista
Barbara Han A-gi, laica sposata
Lucia Pak Hui-sun, laica
Damiano Nam Myong-hyok, laico sposato e catechista
Pietro Kwon Tug-in, laico sposato
+ 24 maggio 1839 presso la Piccola Porta Occidentale, Seoul (Corea del Sud)
Giuseppe Chang Song-jib, laico sposato
+ 27 maggio 1839 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)
Barbara Kim, laica sposata
Barbara Yi, adolescente
+ 27 maggio 1839 a Seoul (Corea del Sud)
Rosa Kim No-sa, laica sposata
Marta Kim Song-im, laica sposata
Teresa Yi Mae-im, laica
Anna Kim Chang-gum, laica sposata
Giovanni Battista Yi Kwang-hon, laico e catechista
Maddalena Yi Yong-hui, laica
Lucia Kim Nu-sia, giovane laica
Maria Won Kwi-im, giovane laica
+ 20 luglio 1839 a Seoul
Maria Pak K’un-agi, laica
Barbara Kwon Hui, laica sposata
Giovanni Pak Hu-Jae, laico sposato
Barbara Yi Chong-Hui, laica sposata
Maria Yi Yon-Hui, laica sposata
Agnese Kim Hyo-Ch’u, giovane laica
+ 3 settembre 1839 a Seoul
Francesco Ch’Oe Kyong-hwan, laico e catechista
+ 12 settembre 1839 a Seoul
Lorenzo Maria Giuseppe Imbert, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Esteree Vicario apostolico di Corea
Pietro Filiberto Maubant, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Giacomo Onorato Chastan, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
+ 21 settembre 1839 a Sai-Nam-Hte
Paolo Chong Ha-Sang, laico e catechista
Agostino Yu Chin-Kil, laico sposato
+ 22 settembre 1839 a Seoul
Maddalena Ho Kye-Im, laica sposata
Sebastiano Nam I-Gwan, laico e catechista
Giulitta Kim, laica
Agata Chon Kyong-Hyob, laica
Carlo Cho Shin Ch’ol, laico
Ignazio Kim Che-Jun, laico sposato
Maddalena Pak Pong-Son, laica sposata
Perpetua Hong Kum-Ju, laica sposata
Colomba Kim Hyo-im, laica
+ 26 settembre 1839 a Seoul
Lucia Kim, laica sposata
+ un giorno ignoto di settembre 1839 a Seoul (ricordata con Sebastiano Nam-I-Gwan e compagni)
Caterina Yi, vedova laica
Maddalena Cho, laica, figlia di Caterina Yi
+ un giorno ignoto di settembre 1839 a Seoul (ricordate con Sebastiano Nam-I-Gwan e compagni)
Pietro Yu Tae-Ch’ol, adolescente
+ 21 ottobre 1839 in una prigione di Seoul (Corea del Sud)
Cecilia Yu So-sa, laica sposata
+ 23 novembre 1839, Seoul
Barbara Cho Chung-i, laica sposata
Maddalena Han Yong-i, laica sposata
Pietro Ch’oe Ch’ang-hub, laico sposato e catechista
Benedetta Hyong Kyong-nyon, laica sposata e catechista
Elisabetta Chong Chong-hye, laica
Barbara Ko Sun-i, laica sposata
Maddalena Yi Yong-dok, laica
+ 29 dicembre 1839 a Seoul
Teresa Kim, vedova laica
Agata Yi, giovane laica
+ 9 gennaio 1840 a Seoul
Stefano Min Kuk-Ka, vedovo laico e catechista
+ 20 gennaio 1840 a Seoul
Andrea Chong Hwa-Gyong, laico e catechista
+ 23 gennaio 1840 a Seoul
Paolo Ho Hyob, laico
+ 30 gennaio 1840 a Seoul
Agostino Pak Chong-won, laico sposato e catechista
Pietro Hong Pyong-ju, laico e catechista
Maddalena Son So-byok, laica sposata
Agata Yi Kyong-i, laica
Maria Yi In-dok, giovane laica
Agata Kwon Chin-i, giovane laica sposata
+ 31 gennaio 1840 a Dangkogae
Paolo Hong Yong-ju, laico e catechista
Giovanni Yi Mun-u, laico sposato
Barbara Ch’oe Yong-i, giovane laica sposata
+ 01 febbraio 1840 a Seoul
Antonio Kim Song-u, laico sposato e catechista
+ 29 aprile 1841 a Tangkogae
Andrea Kim Tae-gon, sacerdote
+ 16 settembre 1846 a Sai-Nam-Hte
Carlo Hyon Song-mun, laico e catechista
+ 19 settembre 1846 a Sai-Nam-Hte
Pietro Nam Kyong-mun, laico sposato e catechista
Lorenzo Han I-hyong, laico sposato e catechista
Susanna U Sur-im, vedova laica
Giuseppe Im Ch’i-p’ek, laico sposato
Teresa Kim Im-i, laica
Agata Yi Kan-nan, vedova laica
Caterina Chong Ch’or-yom, laica sposata
+ 20 settembre 1846 a Seoul
Pietro Yu Chong-Nyul, laico sposato
+ 17 febbraio 1866 a Pyongyang
Simeone Francesco Berneux, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere e Vicario apostolico di Corea
Simone Maria Giusto Ranfer de Bretenières, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Pietro Enrico Dorie, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Bernardo Luigi Beaulieu, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
+ 7 marzo 1866 a Sai-Nam-Hte
Giovanni Battista Nam Chong-Sam, laico
+ 7 marzo 1866 a Seoul
Giovanni Battista Chon Chang-Un, laico
Pietro Ch’oe Hyong, laico e catechista
+ 9 marzo 1866 a Nei-Ko-Ri
Marco Chong Ui-Bae, laico, vedovo e catechista
Alessio U Se-Yong, giovane laico
+ 11 marzo 1866 a Seoul
Antonio Daveluy, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere e coadiutore del vicario apostolico di Corea
Martino Luca Huin, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Pietro Aumaître, sacerdote della Società Parigina per le Missioni Estere
Giuseppe Chang Chu-Gi, laico e catechista
Luca Hwang Sok-Tu, laico sposato e catechista
Tommaso Son Cha-Son, laico
+ 30 marzo 1866 a Su-Ryong
Bartolomeo Chong Mun-ho, laico
Pietro Cho Hwa-so, laico sposato, padre di Giuseppe Cho Yun-ho
Pietro Son Son-j, laico sposato e catechista
Pietro Yi Myong-so, laico sposato
Giuseppe Han Won-so, laico e catechista
Pietro Chong Won-ji, giovane laico sposato
+ 13 dicembre 1866 a Tiyen-Tiyon
Giuseppe Cho Yun-ho, giovane laico e catechista, figlio di Pietro Cho Hwa-so
+ 23 dicembre 1866 a Tiyen-Tiyon
Giovanni Yi Yun-Il, laico sposato
+ 21 gennaio 1867 a Daegu
Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flocchini
Anche oggi un santo vescovo sposato, una fondatrice di conventi, un padre di sue santi e un martire!
Martirologio Romano: Ad Apt nella Provenza, in Francia, san Cástore, vescovo, che, desideroso di spiegare la vita monastica ai fratelli di un monastero di nuova fondazione, chiese a san Giovanni Cassiano di comporre le celebri «Conferenze» sugli asceti d’Egitto.
Nacque verso la metà del sec. IV. Sebbene sposato, in pieno accordo con la moglie, abbracciò la vita religiosa e fondò il monastero di Mananque o di San Faustino, presso Cavaillon. Fu eletto vescovo di Apt in Provenza ed è il primo vescovo di questa città di cui si abbia ricordo; ma la fondazione della sede episcopale di Apt doveva essere più antica, perché era stata rappresentata da un prete e da un esorcista al concilio di Arles nel 314. Il terminus ante quem della elevazione di Castore al seggio episcopale di Apt è il 13 giugno 419, giorno in cui è datata una lettera del papa Bonifacio I, che ordinava ai vescovi della Gallia e delle sette province, tra cui è nominato Castore, di giudicare il vescovo Massimo di Valenza.
Il santo Castore intrecciò rapporti epistolari con Giovanni Cassiano, a cui chiedeva consigli in materia di vita monastica, desideroso anche di conoscere gli usi della vita religiosa in Oriente e in Tebaide. Sebbene avesse letto i dodici libri di istituzioni cenobitiche (De institutis Coenobiorum) di Cassiano, Castore gli chiese di raccogliere in un volume le più celebri conferenze dei Padri del deserto: Cassiano si accinse allora a scrivere le Conferenze. Castore morì intorno al 426, prima che Cassiano avesse composto i primi sedici capitoli; quando l'opera fu terminata, fu inviata al vescovo di Fréjus, Leonzio, parente prossimo e forse fratello di Castore, e al monaco Elladio.
Prima della Rivoluzione francese la diocesi di Apt lo onorava come uno dei suoi patroni. Mentre in passato la festa in suo onore era celebrata l'11 settembre, attualmente è celebrata il 25 settembre nella diocesi di Avignone e il 2 settembre in quella di Nimes.
Autore: Gilbert Bataille Fonte: Enciclopedia dei Santi
Asti, 1466 circa – 7 settembre 1529
Caterina nacque verso il 1466 da nobile famiglia astigiana e venne destinata dai genitori al matrimonio con un ricco gentiluomo del posto. Ancora trentenne, riuscì a convincere il marito a vestire l'abito francescano, consentendole così di poter entrare nel monastero di Santa Chiara in Alessandria. Nel 1526 fu destinata con cinque consorelle a fondare un nuovo monastero in Asti, che prese il nome di Convento del Gesù. Qui fece la portinaia, ma ben presto divenne famosa per le profezie ed i miracoli che i devoti iniziarono ad attribuirle. Come essa stessa avrebbe profetizzato, rimase vittima della peste e morì il 7 settembre 1529, cantando le lodi a Maria, di cui le compagne in quel momento festeggiavano la natività.
Moabitide (Mar Morto), VIII sec. - Palestina, IX sec.
Di lui non si sa niente di preciso, ma essendo il padre dei santi Teodoro e Teofane (i due fratelli Grapti), si può arrivare all’epoca in cui visse.
I due fratelli subirono la persecuzione dei due imperatori iconoclasti Leone V l’Armeno (813-820) e Teofilo (829-842), quindi Giona sarebbe vissuto verso la seconda metà dell’VIII secolo e la prima metà del IX.
La “Bibliotheca Hagiographica Greca” nella ‘Vita’ dei santi Teodoro e Teofane, non parla dei loro genitori, ma ci dice che essi erano originari della Moabitide, regione ad Est del Mar Morto, quindi anche il loro padre Giona doveva abitare lì, prima di abbandonare il mondo e ritirarsi come i suoi due figli (non si sa se prima o dopo) nella Grande Laura di S. Saba, fondata nel 478 in Palestina, nella valle del Cedron, appunto da san Saba, uno dei più grandi personaggi del monachesimo orientale.
Qui egli visse il resto della sua vita in continua ascesi e virtù, divenendo un modello per tutti; morì in età avanzata e seppellito nella Grande Laura.
I sinassari bizantini celebrano la sua memoria il 21 settembre a volte il 22.
Autore: Antonio Borrelli
Martirologio Romano: Nel villaggio di Benisoda nel territorio di Valencia in Spagna, beati martiri Vincenzo Galbis Gironés, padre di famiglia, ed Emanuele Torró García, che, conformandosi alla passione di Cristo, imitarono nel trionfo del martirio colui che avevano venerato.
Oggi una giornata ricchissima, e tanto lavoro! Iniziamo dai genitori di Giovanni Battista, Sant'Elisabetta fu la prima donna a salutare in Maria la Madre del Redentore non ancora nato. Si può dire che sia la prima credente nella storia del Cristianesimo. Ricordiamo poi Rebecca, Nipote di Abramo, seconda moglie di Isacco, madre di Giacobbe e di Esaù.
Etimologia: Elisabetta = Dio è il mio giuramento, dall'ebraico
Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Zaccaria ed Elisabetta, genitori di san Giovanni Battista, Precursore del Signore. Elisabetta, accogliendo in casa sua Maria, sua parente, piena di Spirito Santo, salutò la Madre del Signore benedetta tra le donne; Zaccaria, sacerdote, pieno di spirito profetico, alla nascita del figlio, lodò Dio redentore e predisse il prossimo avvento di Cristo, che verrà dall’alto come sole che sorge.
I nomi di Santa Elisabetta e San Zaccaria non compaiono nel Calendario della Chiesa, ma per lunga tradizione questo giorno è sacro alla memoria dei genitori del Battista, cioè di Santa Elisabetta e di San Zaccaria, suo sposo.
Troviamo la loro storia nelle prime, mirabili pagine dell'Evangelo di San Luca, nelle quali è tracciato il prologo del più incredibile avvenimento della storia dell'umanità: l'Incarnazione di Dio tra gli uomini.
"Al tempo di Erode, re della Giudea - si legge - c'era un sacerdote di nome Zaccaria, la cui moglie era delle figlie di Aronne e si chiamava Elisabetta. Ambedue erano giusti davanti a Dio e camminavano in modo irreprensibile in tutti i comandamenti e precetti del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile, e tutti e due erano molto avanti con gli anni ".
La mancanza di una discendenza era considerata quasi un'onta, e formava il segreto tormento dell'anziana coppia di Israeliti. Ma un giorno, mentre Zaccaria offriva l'incenso nel Santuario, un Angiolo gli apparve alla destra dell'altare, per annunziargli che le preghiere sue e di Elisabetta erano state finalmente esaudite.
"Tua moglie ti darà un figlio - disse l'Angiolo - al quale metterai nome Giovanni. Egli sarà per te motivo di gioia e di contentezza, e molti gioiranno per la nascita di lui, perché sarà grande nel cospetto del Signore... ".
Così il vecchio sacerdote e la sua sterile moglie vengono a partecipare al sublime evento dell'Incarnazione. Nascerà da loro Giovanni, "profeta dell'Altissimo", il primo e più grande testimone di Cristo nel mondo.
Per aver dubitato delle parole dell'Angelo, Zaccaria resterà muto per tutto il tempo della trepidante maternità di Elisabetta. E fu in quel periodo, trascorsi sei mesi, che Elisabetta ricevette la visita di una lontana parente, Maria di Nazaret, sposa del falegname Giuseppe.
"Entrata in casa di Zaccaria - narra ancora San Luca - Maria salutò Elisabetta. Ed avvenne che, appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino le balzò nel seno, ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo e ad alta voce esclamò: "Benedetta tu sei tra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno... Te beata, che hai creduto, perché si compiranno le cose dette a te dal Signore" ".
Sant'Elisabetta fu così la prima donna a salutare in Maria la Madre del Redentore non ancora nato. Si può dire che sia la prima credente nella storia del Cristianesimo. Maria le risponderà con il meraviglioso cantico di ringraziamento, non a lei, ma alla potenza di Dio, il Magnificat.
Dopo la nascita di Giovanni, la lingua di Zaccaria si scioglierà per poter pronunziare il nome di Giovanni, imposto dall'Angelo al figlio, "profeta dell'Altissimo". E anche Zaccaria pieno di Spirito Santo, alzerà il suo inno di gioia e di benedizione:
"Benedetto sia il Signore, Dio d'Israele, -perché ha visitato e redento il suo popolo; -ha suscitato per noi un potente salvatore - nella casa di David suo servo - come aveva annunziato per bocca dei suoi santi e dei suoi profeti - fin dall'inizio dei tempi". Con la Natività, Elisabetta e Zaccaria spariscono dalle pagine del Vangelo, spariscono dalla storia, scivolano nella penombra che circonda la luce folgorante della Redenzione. Non si sa altro, ma non c'è bisogno di sapere altro per vedere nei due vecchi sposi l'immagine dell'umanità nuova, ideali progenitori di tutti coloro che lodano la misericordia di Dio, benedicono la prescelta tra tutte le donne, e gioiscono nell'amore del suo divino Figliuolo.
Fonte: Archivio Parrocchia
Padre di San Giovanni Battista, S. Zaccaria, come racconta San Luca, al tempo di Erode re della Giudea, era sacerdote del Tempio ed aveva sposato una delle figlie di Aronne, Elisabetta, cugina di Maria.
Etimologia: Zaccaria = memoria di Dio, dall'aramaico
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Commemorazione dei santi Zaccaria ed Elisabetta, genitori di san Giovanni Battista, Precursore del Signore. Elisabetta, accogliendo in casa sua Maria, sua parente, piena di Spirito Santo, salutò la Madre del Signore benedetta tra le donne; Zaccaria, sacerdote, pieno di spirito profetico, alla nascita del figlio, lodò Dio redentore e predisse il prossimo avvento di Cristo, che verrà dall’alto come sole che sorge.
L'unica fonte d'informazione è Lc. 1. Zaccaria era sposo di s. Elisabetta. Ambedue discendenti da famiglie sacerdotali. Zaccaria apparteneva alla ottava classe sacerdotale, quella di Abia, una delle ventiquattro stabilite da David per regolare i turni di servizio settimanale nel santuario (1 Par., 24, 10). Risiedeva nella città sacerdotale di Ain Karem, a sette Km. ad Ovest di Gerusalemme nelle montagne di Giuda, al tempo di Erode il Grande. Zaccaria ed Elisabetta erano «giusti», cioè pii, santi, perché osservavano irreprensibilmente la legge di Dio (Lc, 1, 6). Ciò nonostante non avevano, né potevano avere figli, essendo ambedue ormai vecchi e Elisabetta anche sterile (Lc., 1,7). Però Zaccaria pregava ardentemente per avere la grazia di un figlio. Egli fu ascoltato e ottenne il figlio miracolosamente (Lc, 1, 13). Designato a sorte ad offrire l'incenso nel Santo, sull'altare dell'incenso (onore al quale solo una volta in vita poteva essere ammesso un sacerdote [Tamid, V, 2]) e mentre il popolo pregava negli atri del tempio, l'angelo Gabriele apparsogli alla destra dell'altare dell'incenso, gli annuncia che, secondo la sua preghiera, Dio gli concederà un figlio da Elisabetta, al quale dovrà porre il nome di Giovanni. Egli avrà la missione di preparare la via al Messia, non berrà bevande alcooliche e sarà motivo di gioia per molti. Sarà grande davanti a Dio. Zaccaria stenta a credere alle parole dell'angelo, perciò chiede un segno che ne comprovi la verità. L'angelo di risposta presenta le sue credenziali, mettendo in risalto la sua dignità di assistente davanti a Dio e di ambasciatore per la missione a Zaccaria, a cui predice che rimarrà muto fino alla nascita del figlio, per non aver creduto alle sue parole. Questo mutismo doveva servire a Zaccaria come segno richiesto. Subito Zaccaria rimase muto. Il popolo comprese che egli aveva avuto una visione nel Santo. Terminato il suo turno settimanale, Zaccaria torna ad Ain Karem e poco dopo Elisabetta concepisce. Tutta compresa del miracolo che si era realizzato in lei, si tiene nascosta nel silenzio per cinque mesi. Dio però lo fa noto alla Santissima Vergine, sua parente, per mezzo dello stesso angelo Gabriele per confermare che a Dio nulla è impossibile. La Vergine si reca a Nazareth da Elisabetta nel quinto mese di gravidanza di lei e vi rimane fino alla nascita del figlio. Nell'ottavo giorno, durante la circoncisione, contro la proposta dei parenti che volevano imporgli il nome di Zaccaria, Elisabetta propone il nome Giovanni e Zaccaria conferma scrivendo il nome su di una tavoletta.
Immediatamente Zaccaria cessò di essere muto e forse anche sordo, fu ripieno di Spirito Santo e cantò il sublime cantico Benedictus, nel quale si esalta la misericordia di Dio nel visitare e redimere il suo popolo per mezzo di un discendente della casa di David, conforme alle profezie ed al giuramento fatto ad Abramo. Rivolgendosi al bambino predice che sarà profeta dell'Altissimo e preparerà la via al Signore per illuminare quelli che sono nelle tenebre e guidarli alla salvezza nella visita di colui che sorge dall'alto.
Alcuni vorrebbero considerare il racconto di Luca Midrashico. Però questa ipotesi è molto lontana dall'essere solidamente provata.
Dopo questi avvenimenti Zaccaria non ricorre più nel N. T. ma solo nella tradizione apocrifa. L'identificano infatti o con Zaccaria figlio di Barachia ucciso tra il tempio e l'altare (Mt., 23, 35), oppure lo fanno uccidere dai Giudei perché difendeva il diritto della Vergine ad abitare con le vergini nell'atrio del tempio (cf. Origene, Comm. in Mt., in PG, XIII, coll. 1631 sg.), oppure sarebbe stato ucciso dai sicari di Erode nella strage degli innocenti (Protoevangelo di Giacomo, XXIII-XXIV).
Nella vita di Zaccaria c'è un'ombra. È incredulo all'annunzio celeste della nascita di un figlio per la quale aveva pregato con molto ardore. Per credere ha bisogno di un segno. Non si può peraltro condannare per la richiesta di questo segno, poiché non vengono ripresi per la stessa cosa Abramo (Gen., 13, 8), Gedeone (Giud., 6, 36-37) ed Ezechia (2 Reg., 20, 8) e perché lo stesso Dio lo propone a Mosè (Es., 3, 12) e ad Acaz (Is., 7, 11). Zaccaria non dubitava che Dio potesse esaudire la sua preghiera, ma forse egli dubitava della realtà della visione angelica e perciò l'angelo presenta le sue credenziali ma allo stesso tempo con il mutismo gli dà una punizione che è anche un segno.
Per il resto Zaccaria è canonizzato da Luca (1, 6) come uomo giusto, scrupoloso, osservante della legge di Dio e sacerdote esemplare, dotato anche dello spirito di profezia e degno di essere padre di colui che è il più grande dei nati di donna (Lc, 7, 28), più che un profeta, il precursore del Messia (Lc., 7, 26-27; Mt., 11, 9-11).
CULTO. Il Martirologio Romano commemora Zaccaria al 5 nov., seguendo Floro. Beda lo pone al 6 sett.I Greci lo commemorano al 5 sett.; l'invenzione delle sue reliquie l'11 febb. Esse furono portate a Costantinopoli il 415, ma non si sa da dove. Il 28 ott. si commemora la dedicazione della basilica di S. Zaccaria a Costantinopoli. A Roma Zaccaria è onorato sempre al 6 nov., specialmente nella basilica Lateranense, dove si custodisce una reliquia del suo capo.
Autore: Bonaventura Mariani
ICONOGRAFIA. Sebbene talvolta confuso, nelle più antiche rappresentazioni, col profeta omonimo (v. ad esempio, i mosaici della Cappella Palatina di Palermo), Zaccaria viene, nella sua personalità di padre del Battista, raffigurato con le vesti e contrassegni sacerdotali, e gli sono dati come attributi l'incensiere e un cartiglio o una tavoletta recante il nome di Giovanni.
Di questa figura venerabile e imponente abbiamo numerose rappresentazioni e tra esse ricorderemo la statua della cattedrale di Meissen (XIII sec.), quelle della chiesa dedicata appunto a S. Zaccaria in Venezia (sec. XIV) e un dipinto del Ribera (sec. XVII) del Museo di Rouen. Ma più frequenti sono le immagini in cui Zaccaria compare in qualche modo collegato agli episodi relativi alla nascita del Battista. Lo ritroviamo infatti dapprima come personaggio secondario nella scena della Visitazione: nelle sculture della cattedra di avorio di Massimiano a Ravenna, in cui è presente, con s. Giuseppe, all'incontro fra Maria ed Elisabetta, nella miniatura del Breviario Grimani (sec. XV) della Bibl. Marciana di Venezia, nella miniatura del sec. XV del libro di Ore di Etienne Chevalier a Chantilly e nel dipinto del Rubens (sec. XVII) nella Gall. Borghese di Roma.
Ma la figura di Zaccaria acquista maggior rilievo quando si giunge al tema della nascita del Precursore: lo vediamo, ad esempio, barbuto, paludato in vesti solenni nel ciclo di affreschi del sec. XI della chiesa di S. Pietro a Tuscania (Viterbo) o in quelli del sec. XIII, ispirati alla Leggenda Aurea, opera di Lorenzo e Jacopo Salimbeni a Urbino.
A queste serie particolarmente interessanti vanno aggiunte rappresentazioni dovute a mano illustre, come, ad esempio, i bassorilievi della chiesa di Notre-Dame di Clermont-Ferrand (sec. XII), l'affresco di Giotto in S. Croce a Firenze, la formella delle porte di bronzo di Andrea Pisano del Battistero di Firenze e, ancora, l'affresco del Ghirlandaio in S. Maria Novella e il dipinto di Andrea del Sarto nel Chiostro degli Scalzi, sempre a Firenze.
Vanno poi segnalate in particolare le scene relative alla leggenda propria del santo e in special modo al martirio, che trova una delle sue più antiche rappresentazioni nella miniatura del Me-nologio di Basilio II (sec. XI) e che poi compare frequentemente nelle serie di episodi già ricordati.
Autore: Caterina Colafranceschi Fonte: Enciclopedia dei Santi
23 settembre (24 dicembre)
Nipote di Abramo, seconda moglie di Isacco, madre di Giacobbe e di Esaù.
Etimologia: Rebecca = avvince (gli uomini) con la bellezza, dall'ebraico
Nipote, moglie, cugina, madre di patriarchi, Rebecca è una delle più interessanti figure femminili della Bibbia; essa quasi come un filo d’unione, è presente nel racconto biblico, che narra di Abramo del quale era nipote, di Isacco suo cugino e poi sposo, di Giacobbe ed Esaù dei quali era la madre.
Rebecca il cui nome in ebraico “Ribqah” ha il significato di ‘corda’ e in senso figurato “che avvince con la sua bellezza”, compare per la prima volta nel Libro della Genesi al cap. 24,15, ripetendosi sporadicamente fino al cap. 28.
Il patriarca Abramo, molto vecchio e avanzato negli anni, essendo stato benedetto da Dio in ogni cosa, decise di dare una moglie al figlio Isacco per assicurare una discendenza alla sua stirpe; così incaricò il capo dei suoi servi Eliezer, persona di grande fiducia, di cercare una sposa adatta, escludendo le donne della terra di Canaan, i cui abitanti erano dediti al culto degli idoli; anzi secondo il principio dell’endogamia, in uso presso le tribù seminomadi, la donna doveva appartenere ad una tribù dalle comuni origini dello sposo.
Quindi il servo si avviò, con una carovana di dieci cammelli e con molti doni, verso la regione dell’alta Mesopotamia, dov’era la parentela di Abramo, giungendovi verso sera.
Si recò al pozzo, luogo preferito abitualmente nel mondo orientale, per conversare, riunirsi, contrattare e incontrarsi; per il suo simbolismo di fecondità e di vita, il pozzo era considerato il luogo ideale presso il quale combinare un matrimonio.
Qui mentre attendeva, che le donne e le fanciulle come di consueto, a sera venissero ad attingere l’acqua, il servo pregò il Signore di dare un segno per riconoscere la futura sposa di Isacco, anzi è lui stesso a stabilirlo “Ebbene la giovinetta alla quale dirò ‘Abbassa per favore la tua anfora e lasciami bere’ e quella dirà ‘Bevi e anche ai tuoi cammelli darò da bere’, sarà quella che tu hai destinata al tuo servo Isacco, e da questo conoscerò che tu hai usato benevolenza al mio padrone!”.
Così sin dal primo approccio deve essere chiaro, che sarà Dio a guidarlo nella scelta, perché la donna che sarà moglie del futuro patriarca Isacco, fa parte anch’essa del disegno e della promessa divina.
E mentre era in attesa, ecco avvicinarsi al pozzo ad attingere l’acqua, la giovinetta di nome Rebecca, che era figlia di Betuel, a sua volta figlio di Milca e di Nacor, fratello di Abramo; avvenente di aspetto, vergine, gradevole nei modi; Rebecca risalì con l’anfora riempita, allora Eliezer le andò incontro chiedendole per favore un po’ d’acqua da bere; la ragazza subito gli porse l’anfora dicendo: “Bevi, signor mio! Anche per i tuoi cammelli attingerò, finché abbiano bevuto abbastanza”.
E così fece, versando nell’abbeveratoio per gli animali, l’acqua rimasta nell’anfora e ritornando al pozzo per riempirla di nuovo, finché non si fosse colmato a sufficienza per dissetare i cammelli.
Il servo di Abramo rimase sul bordo ad ammirare l’operato della ragazza, convinto che quella era la sposa cercata; le offrì dei doni in oro e Rebecca si presentò dicendo della sua parentela e lo invitò a riposarsi per la notte nella sua casa.
Ritornata dai suoi, Rebecca mostrò alla madre e al fratello maggiore Labano, i doni ricevuti; la figura del fratello Labano entra nel racconto biblico con l’atteggiamento del padrone di casa, nonostante fosse ancora vivo il padre Betel; egli mette in atto la prassi del “fratiarcato”, cioè il predominio del fratello maggiore nei confronti delle sorelle ancora nubili, pertanto Labano si recò al pozzo, dov’era il servo di Abramo in attesa e lo invitò con cortesia ad essere ospite con tutta la carovana nella sua casa.
Con atto di umiltà e servizio nei confronti dell’ospite, Labano fece la lavanda dei piedi e diede il via alla cena dell’accoglienza.
Ma Eliezer volle prima dire il motivo della sua presenza, cominciando con il raccontare le vicende del suo padrone Abramo, che aveva avuto da Sara sterile, l’atteso erede Isacco; si vede che pur essendo Labano e Rebecca pronipoti di Abramo, non erano informati sui dettagli della vita del loro zio; allora le distanze erano abissali e i contatti difficili.
Poi il servo proseguì nel raccontare l’incarico ricevuto di trovare una sposa per Isacco, fra la parentela di Abramo e il suo giuramento di adempiere a ciò; inoltre l’incontro al pozzo con Rebecca e la convinzione che il Signore avesse disposto tutto ciò.
A questo punto il servo domandò ai familiari se la giovane verrà concessa ad Isacco; la risposta affermativa venne non solo da Labano il fratello, ma anche dal padre Betuel, inserito a questo punto nel racconto biblico: “È dal Signore che la cosa procede, non possiamo parlarti né in male né in bene. Ecco Rebecca davanti a te; prendila e va’ e sia la moglie del figlio del tuo padrone, così come ha parlato il Signore”.
Il giorno dopo, Eliezer volle ripartire per tornare da Abramo e avuto il consenso anche di Rebecca, lasciò la casa che l’aveva ospitato, seguito da lei accompagnata solo dalla balia.
I suoi familiari nel salutarla proferirono l’antica rituale benedizione: “O tu, sorella nostra, diventa migliaia di miriadi e la tua stirpe conquisti la porta dei suoi nemici!”.
Il racconto della Bibbia si sposta poi nel deserto meridionale del Negheb, con Isacco che stava rientrando dalla zona del pozzo di Lacai-Roi, il quale alzando gli occhi vide all’orizzonte avvicinarsi la carovana do Eliezer; anche Rebecca lo vide, scivolò dal cammello e domandò al suo accompagnatore chi fosse quell’uomo che veniva loro incontro e il servo rispose: “È il mio padrone”, allora Rebecca si coprì il viso con il velo che nascondeva il viso delle donne.
Dopo aver ascoltato dal servo tutto l’accaduto, Isacco accompagnò la cugina Rebecca nella tenda che era stata di sua madre Sara, perché ormai era lei la ‘principessa’ del clan; poi la prese come moglie e l’amò.
Termina così il lungo capitolo 24 della Genesi, tutto dedicato alla figura di Rebecca; poi si continua a parlare di lei in modo più diradato nei capitoli seguenti.
Quando sposò Rebecca, Isacco aveva 40 anni e come già successo per sua madre Sara, moglie di Abramo, anche la sua sposa dopo molti anni non gli dava figli, pertanto supplicò il Signore per lei e Dio l’esaudì e Rebecca divenne incinta a 60 anni.
Questo essere sterile delle mogli dei patriarchi e più un fatto simbolico che reale, il cui valore sta ad indicare che i futuri figli, saranno un dono straordinario del Signore; così fu per Abramo e Sara riguardo il figlio Isacco; per Isacco e Rebecca per i gemelli Esaù e Giacobbe; per Giacobbe e Rachele per il figlio Giuseppe, ecc.
Rebecca ebbe una gravidanza abbastanza pesante, perché i due gemelli si urtavano l’un l’altro dentro di lei; alla sua domanda perché ciò avveniva, il Signore rispose. “Due nazioni sono nel tuo grembo e due popoli dalle tue viscere si separeranno. Un popolo prevarrà sull’altro popolo e il maggiore servirà il minore”.
Al parto nacquero due gemelli, il primo uscì rossiccio di peli e fu chiamato Esaù, il secondo uscì nell’atto di trattenere il fratello per il calcagno e fu chiamato Giacobbe.
Una volta cresciuti, questi due gemelli prenderanno professioni diverse come diversi erano i loro caratteri; Esaù era un forte cacciatore e per questo preferito da Isacco, Giacobbe invece amava la tranquillità della tenda e preferito da Rebecca.
A questo punto ci fermiamo con il racconto biblico, che prosegue con la storia propria di Esaù e Giacobbe e degli episodi che caratterizzarono i loro rapporti, come il cedere del diritto di primogenitura da parte di Esaù, per un piatto di lenticchie; l’inganno per ottenere la ‘benedizione’ di Isacco ormai cieco, su Giacobbe al posto del fratello, ecc.
Rebecca ormai anziana, compare in secondo piano a fianco del figlio Giacobbe, nell’atto di spingerlo a ricevere la benedizione del padre-patriarca al posto di Esaù; poi ancora la si incontra mentre saluta e benedice Giacobbe mandato a Paddan-Aram, nella casa di suo fratello Labano, per sfuggire all’ira e vendetta del fratello Esaù.
Isacco morì verso i 180 anni, di Rebecca non viene detto che età avesse quando morì, certamente meno del marito, che come tutti i patriarchi, furono benedetti da Dio con una lunga vita, proprio per il loro compito di guida del popolo di Dio.
E anche Rebecca come le altre mogli di patriarchi, fu portatrice della benedizione divina, pertanto fu seppellita nella tomba di Makpela a Hebron, in terra di Canaan, accanto ad Abramo, Sara e Isacco suo marito.
Per tradizione Rebecca, considerata fra le figure sante e benedette della Bibbia, viene ricordata il 23 settembre, giorno della celebrazione anche di un’omonima martire spagnola del I secolo.
Si può aggiungere che nella liturgia Romana, essa viene ricordata anche il 24 dicembre, insieme a tutti i santi antenati di Cristo del Vecchio Testamento.
Montreal, 19 febbraio 1800 - 23 settembre 1851
Nasce a Montreal nel Canada, il 18 febbraio del 1800. All'età di 23 anni sposa un coltivatore di mele dal quale avrà tre figli. Ma Emilie vedrà morire tutti i componenti della famiglia. Anche se afflitta per le dure prove subite, non si ripiega su se stessa e sulla sofferenza, ma cerca e trova nella Vergine Addolorata e nella Croce il modello sul quale orientare tutta la vita. Decide di aprire il cuore e la dimora ai più bisognosi: la sua casa diventerà «La casa della Provvidenza». Nasce allora la famiglia religiosa delle suore della Provvidenza, che vedranno il loro numero crescere e moltiplicarsi. Fino a quando la stessa fondatrice morirà, vittima della epidemia del colera del 1851, soltanto otto anni dopo l'inizio della comunità della Provvidenza. Oggi le suore sono attive in Canada, negli Stati Uniti, nel Cile, in Argentina, ad Haiti, nel Camerun, in Egitto, nelle Filippine e a El Salvador. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Montréal nel Québec in Canada, beata Maria Emilia Tavernier, religiosa, che, perduti il marito e i figli, si dedicò all’assistenza dei bisognosi e fondò la Congregazione delle Suore della Provvidenza al servizio degli orfani, degli anziani e dei malati di mente.
Emilie Tavernier nacque a Montreal il 19 febbraio 1800 da genitori modesti ma virtuosi e lavoratori. Ella è l'ultima di una schiera di 15 figli nati dall'unione Tavernier-Maurice. I genitori partirono ben presto per il cielo lasciando però ai loro figli una educazione cristiana segnata dalla presenza della Provvidenza nella loro vita.
All'età di 4 anni, Émilie fu affidata alle cure di una zia paterna che riconobbe subito nella sua pupilla una sensibile e amorevole tendenza verso i poveri e i derelitti.
Così verso suo fratello rimasto vedovo, sente il dovere di andare ad aiutarlo — ella ha già 18 anni — e non chiede remunerazione, mette solo la condizione di poter avere sempre, una tavola preparata per i mendicanti che si presentassero, — tavola che essa con amore chiamò: «la Tavola del Re».
Nel 1823, Émilie sposa Jean-Baptiste Gamelin, di professione «coltivatore di mele». In lui ella aveva trovato un amico dei poveri, in pieno accordo con le sue aspirazioni. Émilie e suo marito ebbero tre figlioli ma la sua gioia fu offuscata dalla loro morte e da quella di suo marito con il quale viveva felice e fedele al loro impegno matrimoniale.
Anche se afflitta per le varie prove subite, essa non si ripiega su se stessa e la sua sofferenza, ma cerca e trova nella Vergine Addolorata, il modello sul quale orientare tutta la sua vita.
La sua preghiera e la contemplazione della Vergine Maria ai piedi della croce apre per lei la via alla pratica di una carità piena di compassione per tutti coloro che si trovano in preda alle sofferenze di ogni genere. Saranno queste persone ora a prendere il posto dei suoi figli e di suo marito.
Un povero handicappato mentale e la sua madre aprono la lista di coloro che saranno i suoi beneficiari non solo delle risorse lasciatele da suo marito ma anche del suo tempo, della sua dedizione, del suo benessere, del suo tempo libero e della sua stessa salute. La sua casa diventa la loro casa e cercherà di aumentare i locali per accogliere gli indigenti, le persone anziane, gli orfani, i prigionieri, gli immigrati, i senza lavoro, i sordomuti, i giovani o le coppie in difficoltà, gli handicappati fisici e intellettuali, tutti conoscono bene la sua dimora che spontaneamente chiamano: «Casa della Provvidenza», perché essa stessa Émilie è una «vera provvidenza».
A casa, come nelle prigioni, presso gli ammalati e anche dai sani, Émilie è accolta col sorriso perché porta conforto e assistenza. Essa è veramente il Vangelo in azione: «Ciò che voi farete al più piccolo del miei fratelli l'avrete fatto a me».
Parenti ed amici si stringono attorno a lei per assecondarla ed aiutarla; altri invece, vedendola aprire altre case, interpretano male la sua opera fino a dire: «La Signora Gamelin non ne aveva abbastanza di matti che se ne aggiungono altri!».
Durante un periodo di 15 anni, essa moltiplicherà i suoi atti di eroismo e di dedizione, sotto lo sguardo benevolo, riconoscente e compiaciuto del Vescovo Jean-Jacques Lartigue prima, e poi del secondo Vescovo di Montreal, Monsignore Ignace Bourget. Una esistenza così preziosa per le sue pecorelle non doveva sparire ma bensì assicurare la sua continuità.
In occasione di un viaggio a Parigi, Monsignore Bourget nel 1841 sollecita dei rinforzi tra le suore di San Vincenzo de' Paoli per l'opera della signora Émilie Gamelin e per mettere le basi di una nuova comunità religiosa. Alla risposta affermativa, Montreal vede sorgere un nuovo edificio per accoglierle. Ma all'ultimo momento le religiose attese non vengono e la Provvidenza prepara altri piani.
L'opera della Signora Émilie Gamelin continuerà a dispetto di tutto!
Il Vescovo Monsignore Bourget si rivolgerà alla propria diocesi e le giovani ragazze canadesi verranno inviate alla Signora Gamelin. Ella le formerà all'opera della carità compassionevole che lei vive con amore, devozione e sacrificio, e alla missione di Provvidenza, che essa proclama coi fatti, più eloquenti delle parole.
Nella Casa della Provvidenza, le suore della Provvidenza incominciano la loro opera nella Chiesa di Montreal, e Émilie Tavernier-Gamelin si unirà al gruppo delle prime religiose, prima come novizia, poi come Madre e Fondatrice. La prima professione religiosa ebbe luogo il 29 marzo 1844.
I bisogni dei poveri, degli ammalati, degli emigranti, ecc. non cessano di aumentare in una città e in una società in via di sviluppo.
La comunità nascente conoscerà delle ore oscure quando i morti in tempo di epidemie vedranno diminuire gli effettivi e quando il Vescovo Bourget metterà in dubbio, sotto l'influenza di una religiosa ombrosa e sospettosa, la buona volontà della superiora. Ma la Fondatrice resterà salda ai piedi della croce sull'esempio della Vergine Addolorata, suo modello sin dalle ore penose della sua vedovanza. Il Vescovo stesso riconoscerà la sua grandezza d'animo e la sua generosità spinte sino all'eroismo.
La nuova comunità si svilupperà per rispondere ai bisogni del momento. Le Suore della Provvidenza vedranno il loro numero crescere e moltiplicarsi sino a 50, e quando la Fondatrice stessa soccomberà, vittima della epidemia del colera del 1851, 8 anni soltanto dopo l'inizio della comunità della Provvidenza, le sue figlie raccoglieranno dalle sue labbra morenti, l'ultimo testamento della loro Madre: umiltà, semplicità, carità, soprattutto carità.
Dopo un tale modesto inizio, ben 6147 giovani ragazze si sono impegnate alla sequela di Émilie Tavernier-Gamelin. Oggi queste suore si trovano in Canadà, negli Stati Uniti, nel Cile, in Argentina, ad Haïti, nel Cameroun, in Egitto, nelle Filippine e a El Salvador.
Il Santo Padre Giovanni Paolo II promulgò il decreto sulle virtù eroiche il 23 dicembre 1993. Dopo il riconoscimento ufficiale di un miracolo attribuito alla sua intercessione, avvenuto il 18 dicembre 2000, il Sommo Pontefice la proclama beata il 7 ottobre 2001, proponendola al popolo di Dio come modello di santità per una vita spesa al servizio dei fratelli e sorelle più poveri della società, e fissa la sua festa liturgica al 23 settembre, giorno anniversario della sua morte, avvenuta il 23 settembre 1851.
Fonte: Santa Sede
Sofía Ximénez Ximénez nacque a Valencia il 15 ottobre 1876. Ricevette la prima comunione e la cresima nel Collegio del Sacro Cuore delle Suore Carmelitane. Si sposò nel 1905 nella Cappella di “Nuestra Señora de los Desamparados” con il sig. Carlo del Río Díez de Bulmesnella, già vedovo e padre di tre figli, con il quale ebbe quattro figli. La vita di famiglia fu molto religiosa. Rimase vedova il 27 maggio 1927. Membro dell’Azione Cattolica, partecipò ad altre associazioni apostoliche. Si dedicò alla formazione dei poveri e alla carità, essendo un’ottima catechista. Nella persecuzione religiosa accolse a casa sua tre religiose: sua sorella, una sua figliastra e una sua cugina, carmelitana della Carità. Fu imprigionata e fucilata il 23 settembre 1936 a Benicalap (Valencia) insieme a suo figlio Luis, ritenuto prete, alla sua figliastra e a sua sorella. La sua beatificazione è stata celebrata da Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001.
Bologna, 1472 - Bologna, 23 settembre 1520
La beata Elena esprime in modo mirabile il carisma della vedovanza cristiana, fervente di preghiere e di opere di carità. Nata a Bologna nel 1472 dall'illustre famiglia Duglioli, manifestò una precoce propensione per la vita nascosta, l'orazione, l'impegno assiduo al servizio del prossimo. A quindici anni, pur desiderando entrare nel monastero delle Clarisse del Corpus Domini, fu data in sposa al notaio Benedetto Dall'Olio, con il quale visse santamente e in profonda sintonia spirituale. Dotata di un singolare discernimento dello spirito divenne consigliera degli umili e dei potenti. Attinsero alla sua saggezza e preghiera di intercessione personalità insigni come Giulio II e Leone X. Predisse il giorno del proprio esodo pasquale, avvenuto in Bologna il giorno di santa Tecla vergine, il 23 settembre 1520. Il suo corpo incorrotto è custodito in San Giovanni in Monte, nella cappella di santa Cecilia fatta costruire dal vescovo di Pistoia per ispirazione della Beata stessa. Leone XIII nel 1828 confermò il suo culto.
Etimologia: Elena = la splendente, fiaccola, dal greco
Martirologio Romano: A Bologna, beata Elena Duglioli Dall’Olio, che, dopo un matrimonio vissuto in mirabile armonia con il marito, rimasta vedova, condusse una vita esemplare.
Questa vedova bolognese non ha avuto, purtroppo, fin dagli inizi, biografi molto obbiettivi: nel tentativo di esaltarne la figura, essi hanno, infatti, inventato particolari quanto mai fantastici. Secondo questi scrittori la Duglioli sarebbe stata la figlia dell'imperatore dei Turchi, Maometto II, trasferitasi in Occidente all'età di cinque anni. Quivi avrebbe poi condotta una vita innocente e santa, per cui Dio la gratificò di numerose visioni e del dono della profezia. Dopo la morte il suo corpo sarebbe rimasto incorrotto. In realtà, ella nacque a Bologna nel 1472 da Silverio Duglioli, notaio, e da Pentesilea Boccaferri, bolognese.
Fu educata molto cristianamente; da giovane manifestò il proposito di emettere il voto di verginità (per questo qualche biografo la chiama vergine), ma dalla madre fu spinta al matrimonio. A diciassette anni sposò Benedetto Dall'Olio di quarant'anni col quale convisse per circa sei lustri in mirabile unione ed in piena concordia. E' stato affermato che nella vita matrimoniale visse sempre in assoluta verginità, ma il fatto non ha documenti sicuri. Dopo la morte del marito trascorse il resto della vita vedovile in modo esemplare. Morì il 23 settembre 1520 e fu sepolta a Bologna nella chiesa di S. Giovanni in Monte.
La fama della sua santità spinse la popolazione a tributarle solenne culto ogni anno al 23 settembre, culto ricordato perfino da Pietro Aretino che parla di ex voto di ogni sorta visti attorno al sepolcro di "Santa Beata Lena Dall'Olio a Bologna". P. Lambertini (Benedetto XIV) riferisce questa testimonianza dello Aretino, quando si occupa del culto immemorabile della Duglioli. Leone XII formalmente confermò detto culto nel 1828.
Autore: Gian Domenico Gordini Fonte:Enciclopedia dei Santi
José Ferragud Girbés, fedele laico, nacque ad Algemesí (Valencia) il 10 ottobre 1887 e fu battezzato il 12 ottobre 1887 nella chiesa parrocchiale di San Giacomo Apostolo. Si sposò il 21 gennaio 1914 con la sig.na Josefa Borrás Borrás ed ebbero otto figli. Contadino di comunione quotidiana e di molta preghiera, aderì a diverse associazioni di apostolato e fu molto noto per il suo impegno nel Sindacato degli operai cattolici. Il 27 luglio fu imprigionato e trascorse la sua prigionia nella serenità orante che veniva dalla sua fede profonda. Il 24 settembre 1936 ad Alcira (Valencia) subì il martirio al grido di: “Viva Cristo Re!”, dopo aver perdonato i suoi assassini. La sua beatificazione è stata celebrata da Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001.
Martirologio Romano: Ad Alzira, nello stesso territorio in Spagna, beato Giuseppe Raimondo Ferragud Girbés, martire, che, padre di famiglia, cadde per Cristo vittima dei persecutori della fede.
Avviamo oggi la giornata con San Cleofa addirittura zio di Gesù e padre di ben tre apostoli!!! Poi ricordiamo il martirio di una intera famiglia, quella dei Santi Paolo, Tatta ed i loro 4 figli. Andiamo poi alla Beata Ermengarda, due volte sposa e due volte vedova e infine fondatrice di abbazie!
sec. I
Cleofa, o Cleofe, o Alfeo (tali nomi sono la trascrizione del nome ebraico Halphai), marito di Maria di Cleofa e forse fratello di San Giuseppe, era padre di Giacomo il Minore, di Giuseppe e di Simone. Fu tra i primi discepoli a rivedere il Signore dopo la risurrezione, come San Luca ci riferisce. Cleofa ed un suo condiscepolo erano sulla strada di Emmaus e Gesù si avvicinò spiegando loro le Scritture. Essi lo riconobbero solo quando, sedutisi a mensa con lui, Gesù prese del pane, lo benedisse e lo spezzò. Non si hanno altre informazioni sicure su di lui. Secondo la tradizione Cleofa venne trucidato in Emmaus per mano di Giudei, nella casa di compatrioti che lo detestavano perché andava predicando la Risurrezione di Cristo.
Etimologia: Cleofa = dal volto glorioso, dal greco
Martirologio Romano: Commemorazione di san Cleofa, discepolo del Signore, al quale ardeva il cuore, quando, mentre era in viaggio con un altro discepolo, Cristo apparve la sera di Pasqua e spiegò loro lungo la via le Scritture; fu anche colui che nel villaggio di Emmaus riconobbe il Signore nell’atto di spezzare il pane.
Cleofa (o Cleofe o Clopa) è uno dei due discepoli che il giorno della risurrezione di Gesù, tornandosene a Emmaus al termine delle celebrazioni pasquali, furono raggiunti per strada e accompagnati dal Risorto, che riconobbero soltanto dopo essere rincasati e avergli generosamente offerto ospitalità. "Noi speravamo che egli sarebbe stato colui che avrebbe liberato Israele; invece...". Nelle parole che i due discepoli rivolgono allo sconosciuto c'è l'eco di una delusione comune agli apostoli in quell'ora della prova. "Tuttavia alcune donne, che sono fra noi, ci hanno fatto assai meravigliare".
Da questo spiraglio di speranza lo sconosciuto fa penetrare la luce della "buona novella", spiegando loro le Scritture e poi, accolto il loro invito: "Rimani con noi, perché si fa sera e il giorno sta per finire", si rivela loro "allo spezzare del pane", il gesto eucaristico dell'ultima cena, cui perciò anche Cleofa dovette esser presente. Ma non è questo il solo privilegio di cui poteva andar fiero. Se diamo un'occhiata all'etimologia del suo nome, scopriamo che Cleofa e Alfeo sono la trascrizione e la pronuncia dello stesso nome ebraico Halphai, oppure due nomi portati dalla stessa persona. Presumibilmente perciò Cleofa-Alfeo è il padre di Giacomo il Minore e di Giuseppe, fratelli, cioè cugini, del Signore. Nel Vangelo di Giovanni, Maria, madre di Giacomo e Giuseppe, viene detta sposa di Cleofa e sorella, in senso più o meno proprio, della Madre di Gesù.
La sua fortunata posizione in seno alla famiglia del Signore sembra abbia altri risvolti. Lo storico palestinese Egesippo afferma che Cleofa è fratello di S. Giuseppe e padre di Giuda e Simone, eletto, quest'ultimo, a succedere a Giacomo il Minore, come vescovo di Gerusalemme. Tirando le somme, possiamo identificare nel commosso discepolo di Emmaus il Cleofa che Giovanni dice marito della sorella della Madonna, quella Maria di Cleofa presente con le altre pie donne al dramma del Calvario.
Poiché Maria di Cleofa è madre di Giacomo il Minore, di Giuseppe, di Giuda e di Simone, ne segue che Cleofa è loro genitore. Padre di tre apostoli! Secondo Eusebio e S. Girolamo, Cleofa era nativo di Emmaus. E ad Emmaus, secondo un'antica tradizione, Cleofa, "testimone della risurrezione", fu trucidato dai suoi compaesani, intolleranti del suo zelo e della sua certezza di fede nel Messia risorto. S. Girolamo ci assicura che già nel IV secolo la sua casa era stata trasformata in chiesa. Il Martirologio Romano ha inserito il suo nome nella data odierna e ne conferma il martirio avvenuto per mano dei Giudei.
Autore: Piero Bargellini
+ Damasco, Siria, in epoca incerta
Martirologio Romano: A Damasco in Siria, santi martiri Paolo e Tatta, coniugi, Sabiniano, Massimo, Rufo ed Eugenio, loro figli, che, accusati di essere cristiani, percossi e torturati con altri supplizi, resero infine l’anima a Dio.
Quasi tutte le storie di santità relative ad intere famiglie, consistenti ormai in parecchi casi dopo duemila anni di cristianesimo, sono purtroppo cadute tristemente in oblio.
Uno di questi casi è costituito dai santi coniugi Paolo e Tatta, che con i loro figli Sabiniano, Massimo, Rufo ed Eugenio furono chiamati a testimoniare la loro fede cristiana sino allo spargimento del loro sangue. Gli sposi e l’intera loro prole furono accusati di essere cristiani, cosa oggi ritenuta banale ma non così scontata in un mondo allora ancora permeato di paganesimo.
Furono allora oggetto di durissime torture ed infine, ormai stremati, resero l’anima a Dio presso Damasco in Siria. E’ invece storicamente impossibile datare con certezza il periodo in cui avvenne il loro glorioso martirio, che è comunque collocabile senza ombra di dubbio nei primissimi secoli dell’era cristiana.
Ciò non toglie che l’intrepida testimonianza di questi martiri possa ancora essere valida nel mondo odierno, in cui il valore della famiglia è talvolta messo seriamente in discussione. Il nuovo Martyrologium Romanum ha dunque ritenuto opportuno continuare a riportarne la commemorazione in data 25 settembre.
Autore: Fabio Arduino
25 settembre e 31 maggio
Angers, XI sec. – Larrey (Digione), 1 giugno 1147
Personaggio storico oltremodo singolare; per le tante caratteristiche della sua vita, che la portarono alla fine a ricevere il culto di Beata.
Contessa di nascita, sposa e vedova una prima volta, sposa e vedova una seconda volta, madre affettuosa e premurosa, reggente del ducato, monaca, poi impegnata in politica, conciliatrice delle fazioni in lotta, di nuovo monaca cistercense, pellegrina, fondatrice di monastero.
Ermengarda, il cui nome deriva dall’antico provenzale Ermenjardis, tratto dal tedesco arcaico “Irmingard” e significa “protetta da Irmin, ossia il dio Odino”, nacque verso la metà del secolo XI ad Angers, da Folco IV conte d’Angiò.
Giovanissima, secondo le usanze del tempo, sposò Guglielmo IX conte di Poitiers, del quale rimase vedova dopo alcuni anni, nel 1093 si risposò con Alano Fergent, duca di Bretagna.
Quando il duca suo marito, partì per la Crociata, Ermengarda governò da reggente la Bretagna e si curò dell’educazione del figlio minore Conano.
Al ritorno dalla Crociata, Alano ormai malato e scosso nello spirito, decise, come capitava spesso in quei tempi, di lasciare la guida del ducato e di ritirarsi nel monastero di Redon; anche la pia moglie volle seguirlo nella sua scelta e ormai autonomo il figlio, si ritirò nel duplice monastero femminile e maschile di Fontevrault, sotto la direzione del beato Roberto d’Arbrissel (1111).
Alla morte del suo sposo Alano, Ermengarda uscì dal monastero per assumere personalmente un ruolo politico di conciliatrice, nella provincia di Bretagna sconvolta dagli intrighi di corte e dagli interessi dei nobili.
San Bernardo da Chiaravalle (1091-1153), riformatore dei cistercensi, le indirizzò parecchie lettere amichevoli, rendendole omaggio per il suo senso di giustizia, fondato sulla fede cristiana.
E dalle mani del santo, nel 1129, ricevette il velo delle monache cistercensi nel priorato di Larrey, presso Digione.
Su invito del fratello Folco, divenuto re di Gerusalemme, Ermengarda compì un rapido viaggio come pellegrina in Palestina. Al suo ritorno in Bretagna, fondò l’abbazia cistercense di Buzay, presso Nantes, di cui fu primo abate Nivardo, fratello di s. Bernardo.
Ermengarda morì a Larrey il 1° giugno 1147 e fu sepolta a Redon dove già era stato tumulato il marito Alano.
Il Menologio di Citeaux la commemora il 25 settembre, mentre nel nuovo “Menologio Cistercense” è ricordata al 31 maggio, ma senza alcun titolo.
Autore: Antonio Borrelli
25 settembre (Chiese Orientali)
+ 12 settembre 1624
Santa Ketevan era la moglie del re Davide di Kakezia e madre del successore di quest'ultimo, il re Teimuraz. Essa fu perseguitata a motivo della sua fede dal re di Persia, lo scià musulmano Abbas I, e trascorse quasi dieci anni imprigionata nella città di Shiraz. Qui Ketevan incontrò alcuni missionari agostiniani portoghesi, che rimasero tanto impressionati dalla sua fedeltà al cristianesimo da proporne dopo la sua morte la canonizzazione al papa. A lungo imprigionata e posta dinnanzi all'alternativa fra la conversione all'islam e la morte, Ketevan non esitò a consegnarsi ai suoi aguzzini che la uccisero dopo lunghe torture il 12 settembre 1624. Reliquie di questa santa martire e sovrana georgiana, sono venerate anche dalla Chiesa Cattolica.
La Chiesa georgiana ricorda nella data odierna 25 settembre, corrispondente al 12 settembre del calendario giuliano, la martire Ketevan, una delle sante più popolari della Georgia.
Ketevan era moglie del re Davide di Kakezia e madre del successore di quest'ultimo, il re Teimuraz. Essa fu perseguitata a motivo della sua fede ortodossa dal re di Persia, lo scià musulmano Abbas I, e trascorse quasi dieci anni imprigionata nella città di Shiraz. Qui Ketevan incontrò alcuni missionari agostiniani provenienti dal Portogallo, che furono a tal punto impressionati dalla sua testimonianza di fedeltà al cristianesimo, da proporne dopo la morte la canonizzazione da parte del papa di Roma.
Dopo averla tenuta a lungo imprigionata senza veder mai venir meno la sua fede né quella dei suoi compagni, lo scià decise di porla dinanzi all'alternativa tra la conversione all'islam e la morte. Ketevan non ebbe dubbi, e si consegnò nella pace ai suoi aguzzini, che non le risparmiarono una lunga serie di torture prima di infliggerle il colpo decisivo.
Ketevan morì il 12 settembre del 1624, e la sua fama si diffuse ben al di là della chiesa georgiana. Una parte dei suoi resti mortali fu infatti portata nelle Indie occidentali dai missionari cattolici; si parla di sue reliquie giunte fino alla cittadina belga di Namur.
La martire Ketevan, per la sua singolare vicenda, rappresenta perciò in modo emblematico l'unità della chiesa che già esiste quando vi sono uomini e donne che testimoniano fino all'estremo la loro fedeltà all'Evangelo.
PREGHIERA
Colpita dal desiderio di Dio,
ti facesti carico di molte sofferenze
e patisti con coraggio
ogni sorta di tortura.
Tu che al posto
di un effimero regno terrestre
hai guadagnato
il regno senza fine dei cieli.
tre volte beata Ketevan,
prega Cristo Dio
per la salvezza delle nostre anime.
Fonte:Il Libro dei Testimoni
+ Valladolid, Spagna, 1420
Figlia del Re di Portogallo, la Beata Beatrice, sposò Giovanni I° Re di Castiglia, fece molto per l’Ordine Mercedario e l’onorò con la sua vita santa di grandi virtù.
Infine si ritirò nel monastero di Sant’Antolino a Valladolid finché arricchita di celesti doni morì santamente nell’anno 1420 ed il suo corpo fu sepolto nella chiesa dello stesso monastero.
L’Ordine la festeggia il 25 settembre.
Martirologio Romano: A Seul in Corea, passione dei santi Sebastiano Nam I-gwan e nove compagni, martiri, che per la fede cristiana furono decapitati dopo atroci torture; vengono commemorate con loro anche le sante martiri Lucia Kim, Caterina Yi, vedova, e sua figlia Maddalena Cho, vergine, che, messe in carcere per Cristo, in un giorno ignoto di questo mese morirono per i supplizi patiti.
Anche oggi i santi sposi ci accompagnano... Iniziamo con una martire della guerra civile spagnola, Herminia che fu uccisa col marito nel 1936. Poi incontriamo un altro Vescovo sposato e Santo, lo avevamo già incontrato parlando di sua moglie Valeria e dei figli Gervasio e Protasio. Infine conosciamo uno sposo "sui generis", il Conte Elzeario, che ha "osservata la verginità e tutte le altre virtù insieme a sua moglie, la beata Delfina" che sposò verso i 18 anni nel 1299 per volere del re Carlo II d’Angiò, così pur non volendo, "si incontrarono due anime belle, che riluttanti al matrimonio, stabilirono di comune accordo, di conservare la loro castità."
Herminia Martínez Amigó, nacque in Spagna il 31 luglio 1887 a Puzol (Valencia) e fu battezzata nella stessa chiesa parrocchiale Santos Juanes dove il 24 febbraio del 1916 si sposò. Ebbe due figlie, morte nell'infanzia. Di famiglia agiata si dedicò alle opere di carità verso i poveri. Fondò una società per la cura dei malati poveri nella sua città e in essa impegnò tutti i suoi beni, aderendo all'Azione Cattolica. Malata di cuore non poté dare voce al suo desiderio di partecipare tutti i giorni all'Eucaristia, recitando, però, sempre il Rosario. Fu imprigionata insieme a suo marito ed entrambi furono uccisi il 27 settembre 1936 a Gilet, durante la persecuzione religiosa che contraddistinse la Guerra civile spagnola. È stata beatificata da Papa Giovanni Paolo II l'11 marzo 2001 insieme ad altri 232 martiri spagnoli, testimoni della fede, che vennero giustiziati nel tentativo di annientare la Chiesa cattolica nella nazione iberica. (Avvenire)
Martirologio Romano: Nel villaggio di Gilet nel territorio di Valencia sempre in Spagna, beate martiri Francesca Saveria (Maria) Fenollosa Alcayna, religiosa del Terz’Ordine delle Cappuccine della Sacra Famiglia, e Erminia Martínez Amigó, madre di famiglia, che, nella stessa persecuzione, confermarono con il loro sangue la fedeltà al Signore.
Martirologio Romano: A Milano, san Caio, vescovo.
Secondo una leggenda milanese del sec. XI, contenuta nella Datiana historia, Caio sarebbe stato discepolo di san Barnaba e vescovo di Milano per ventidue anni, dal 63 all'85.
Avrebbe operato numerose conversioni, tra le quali quelle di san Vitale, di sua moglie Valeria e dei figli Gervasio e Protasio, martirizzati durante la persecuzione di Nerone. Nel quinto anno del suo episcopato Caio si sarebbe recato a Roma per rendere visita di omaggio agli apostoli Pietro e Paolo, ma, durante il viaggio, per arcana intuizione, seppe che essi erano stati uccisi. La sede dell'attività apostolica del vescovo è collocata presso la basilica di Sant'Eustorgio, mentre il suo giorno di morte è indicato al 31 dicembre. Caio sarebbe stato sepolto nel giardino di un certo Filippo, facoltoso signore milanese da lui convertito al cristianesimo, nel quale era stato aperto un cimitero per i cristiani poveri.
In realtà, però, san Barnaba non si recò mai a Milano e, del resto, Caio fu vescovo della città tra la fine del sec. II e l'inizio del III, succedendo al primo vescovo sant'Anatalone. Gli antichi cataloghi milanesi, inoltre, lo dicono morto il 26 settembre e sepolto o presso la basilica di San Babila, ad Concilia Sanctorum, o nella basilica di San Nabore, poi demolita, nei pressi della basilica di Sant'Ambrogio. Il Liber notitiae sanctorum Mediolani (sec. XIV, posteriore ai cataloghi citt.), invece, ricorda la morte di Caio al 27 settembre, data della attuale celebrazione liturgica. Nel 1571 san Carlo Borromeo curò la ricognizione delle reliquie di Caio, che riposano ora in S. Ambrogio.
Secondo il Savio, Caio appartenne alla gens Valeria, cospicua famiglia di Milano, una delle prime convertitasi al cristianesimo; lo stesso autore sostiene anche la storicità della trasformazione dell'hortus Philippi in cimitero cristiano: è infatti nelle vicinanze di Sant'Ambrogio, ove sembra si debba collocare l'hortus, che si trova il più antico cimitero cristiano di Milano.
Autore: Antonio Rimoldi Fonte: Enciclopedia dei Santi
Martirologio Romano: A Parigi in Francia, sant’Elzeáro di Sabran, che, conte di Ariano, osservata la verginità e tutte le altre virtù insieme a sua moglie, la beata Delfina, morì in ancor florida età.
Un santo laico del XIII secolo, francese di nascita, sposo casto, condottiero di esercito, difensore del papa, è compatrono di Ariano Irpino città dell’Avellinese, di cui porta il titolo di conte.
Elzeario, il cui nome nei vari processi di canonizzazione è modificato in vari modi fra latino, lingua volgare e francese, nacque ad Apt in Provenza fra il 1284 e il 1287, primogenito di Ermengao de Sabran conte di Ariano e di Laudana d’Albe de Roquemartine.
Studiò presso lo zio Guglielmo de Sabran, abate del monastero benedettino di S. Vittore in Marsiglia. Per volere del re Carlo II d’Angiò, dovette sposare verso i 18 anni nel 1299, la futura beata Delfina di Signe, così pur non volendo, si incontrarono due anime belle, che riluttanti al matrimonio, stabilirono di comune accordo, di conservare la loro castità.
Elzeario, morto il padre, ereditò fra l’altro il titolo di conte d’Ariano, quindi venne in Italia, in Irpinia, per prendere possesso della contea, ma l’accoglienza di quel popolo fu ostile, in quanto contrario al vassallaggio, preferendo dipendere direttamente dal re.
Fu suo merito e per le virtù professate, che riuscì a conquistare l’amore del popolo, per questo fu apprezzato dal re di Napoli Roberto d’Angiò, che quando nel 1312, fu necessario inviare dei soldati in aiuto del papa assediato a Roma dall’esercito dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, ne affidò il comando ad Elzeario.
Fu inoltre incaricato di delicate missioni presso la corte di Francia, dove nel 1323, durante uno di questi incarichi, si ammalò gravemente, tanto da morire a Parigi il 27 settembre 1323 a soli 38 anni; fu sepolto ad Apt nella chiesa dei Francescani, di cui era fedele Terziario.
La sua fama di grande uomo di carità, specie nell’assistenza ai lebbrosi, si diffuse largamente al punto di attirare l’interesse dei pontefici dell’epoca e fu proprio papa Urbano V, che era suo figlioccio di battesimo, che ne riconobbe la santità, ma che venne poi proclamata ufficialmente il 5 gennaio 1371 dal suo successore papa Gregorio XI.
Le sue reliquie furono trasferite nel 1791 dalla chiesa francescana di Apt, alla cattedrale della città, dove sono tuttora venerate, insieme a quelle della sua casta sposa, la beata Delfina.
Ha culto liturgico in Apt, in Avignone, nella Badia di S. Vittore di Marsiglia, nell’Ordine Francescano e in Ariano Irpino, dove nel giorno della sua festa il 27 settembre, si tiene un’antichissima fiera con grande partecipazione di popolo.
Autore: Antonio Borrelli
Alcoy, Spagna, 11 dicembre 1897 – Benillup, Spagna, 28 settembre 1936
Martirologio Romano: Nella cittadina di Benillup nel territorio di Alicante sempre in Spagna, beata Amalia Abad Casasempere, martire, che, madre di famiglia, durante la persecuzione contro la fede raggiunse la corona del martirio per la sua testimonianza resa a Cristo.
Amalia Abad Casasempere, fedele laica, nacque l’11 dicembre 1897 ad Alcoy, nei pressi di Alicante in Spagna. Fu battezzata il medesimo giorno, cresimata il 6 ottobre 1906 e ricevette la prima comunione il 22 maggio 1907 nella chiesa parrocchiale del paese. Il 6 settembre 1924 convolò a nozze con il capitano dell’esercito Luis Maestre Vidal, dal quale ebbe tre figlie, di cui una andò poi missionaria in Africa. Il focolare domestico era impregnato di una profonda religiosità. Amalia collaborò con numerose Associazioni apostoliche, specialmente con l’Azione Cattolica. Rimase vedova nel 1927, dopo soli tre anni di matrimonio.
Allo scoppio della guerra civile e della persecuzione religiosa accolse in casa sua due religiose e si dedicò anche alla visita dei cattolici incarcerati, incoraggiandoli nel mantenere viva la loro fede ed aiutandoli anche materialmente. Imprigionata infine anch’essa, fu sottoposta a diverse vessazioni ed ebbe a soffrire parecchio la fame. Fu infine martirizzata presso Benillup il 28 settembre 1936.
Papa Giovanni Paolo II l’11 marzo 2001 elevò agli onori degli altari ben 233 vittime della medesima persecuzione, tra le quali la Beata Amalia Abad Casasempere, che viene commemorata dal Martyrologium Romanum nell’anniversario del suo martirio.
Autore: Fabio Arduino
† Nagasaki, 1633-37
Nella prima metà del secolo XVII (1633-1637) sedici martiri, Lorenzo Ruiz e i suoi compagni, versarono il loro sangue per amore di Cristo nella città di Nagasaki in Giappone. Questa gloriosa schiera di appartenenti o associati all'Ordine di san Domenico, conta nove presbiteri, due religiosi fratelli, due vergini consacrate e tre laici fra cui il filippino Lorenzo Ruiz, padre di famiglia (m. 29 settembre 1637). Invitti missionari del Vangelo tutti quanti, pur di diversa età e condizione, contribuirono a diffondere la fede di Cristo nelle Isole Filippine, a Formosa e nell'Arcipelago Giapponese. Testimoniando mirabilmente la universalità della religione cristiana e confermando con la vita e con la morte l'annunzio del Vangelo, essi sparsero abbondantemente il seme della futura comunità ecclesiale. Giovanni Paolo II ha beatificato questi gloriosi martiri il 18 febbraio 1981 a Manila (Filippine) e li ha iscritti nel catalogo dei santi il 18 ottobre 1987. (Mess. Rom.)
Martirologio Romano: Santi Lorenzo da Manila Ruiz e quindici compagni, martiri, che, preti, religiosi e laici, dopo aver seminato la fede cristiana nelle isole Filippine, a Taiwan e nel Giappone, per ordine del comandante supremo Tokugawa Yemitsu subirono in giorni diversi a Nagasaki in Giappone il martirio per amore di Cristo, ma vengono oggi celebrati tutti in un’unica commemorazione.
SANTI MARTIRI DOMENICANI IN GIAPPONE
Si tratta di uno stuolo di 16 martiri per la fede, uccisi a Nagasaki in Giappone negli anni 1633-37; facendo seguito al numeroso gruppo di 205 martiri che donarono la loro vita, sempre a Nagasaki-Omura, negli anni 1617-32.
Essi furono vittime della persecuzione scatenata il 28 febbraio 1633, dallo “shogun” (supremo capo militare della nazione), Tokagawa Yemitsu; che con il suo (Editto n. 7), colpiva gli stranieri che “predicano la legge cristiana e i complici in questa perversità, che devono essere detenuti nel carcere di Omura”.
I sedici missionari contavano nove padri Domenicani, tre Fratelli religiosi domenicani, due Terziarie domenicane, di cui una anche Terziaria Agostiniana, due laici, di cui uno padre di famiglia.
Avevano svolto apostolato attivo nel diffondere la fede cristiana nelle Isole Filippine, a Formosa e in Giappone; e appartenevano in diverso grado alla Provincia Domenicana del Santo Rosario, allora detta anche delle Filippine, la cui fondazione risaliva alle Missioni in Cina del 1587 e che al principio del 1600, aveva istituito una Vicaria in Giappone.
Essi furono catturati a gruppi o singolarmente, e rinchiusi nel carcere di Nagasaki e in quel quinquennio, in vari tempi ricevettero il martirio.
Dal 1633 era stata introdotta una nuova tecnica crudele di supplizio, a cui venivano sottoposti i condannati e così lasciati morire e si chiamava “ana-tsurushi”, cioè della forca e della fossa: si sospendeva il condannato ad una trave di legno con il corpo e il capo all’ingiù, e rinchiuso in una buca sottostante fino alla cintola, riempita di rifiuti; lasciandolo agonizzare e soffocare man mano per giorni.
Ma dal 1634 i cristiani prima di subire questo martirio, venivano sottoposti ad atroci tormenti come l’acqua fatta ingurgitare in abbondanza e poi espulsa con violenza e poi con la trafittura di punte acuminate tra le unghie ed i polpastrelli delle mani.
Certo la malvagità umana, quando si sfrena nell’inventare forme crudeli da infliggere ai suoi simili, supera ogni paragone con la ferocia delle bestie, che perlomeno agiscono per istinto e per procacciarsi il cibo.
I sedici martiri erano di varie nazionalità: 1 filippino, 9 giapponesi, 4 spagnoli, 1 francese, 1 italiano.
Nel 1633 furono uccisi padre Domenico Ibáñez de Equicia, nato nel 1589 a Régil (Guipuzcoa) in Spagna e il catechista fratello cooperatore giapponese Francesco Shoyemon, ambedue morti il 14 agosto.
Il 17 agosto furono uccisi padre Giacomo Kyushei Gorobioye Tomonaga, giapponese e Michele Kurabioye, catechista cooperatore giapponese.
Il 19 ottobre morirono padre Luca Alonso Gorda, spagnolo nato nel 1594 a Carracedo (Zamora) e Matteo Kohioye, fratello cooperatore catechista giapponese, nato ad Arima nel 1615.
Nell’anno 1634 furono uccise le due Terziarie Domenicane, l’11 novembre Marina di Omura giapponese, ospite dei missionari, bruciata viva a fuoco lento e Maddalena di Nagasaki giapponese, nata nel 1610 (già Terziaria Agostiniana) morta il 15 ottobre.
Il 17 novembre perirono padre Giordano Giacinto Ansalone, italiano della Sicilia, nato nel 1589; padre Tommaso Hioji Rokuzayemon Nishi giapponese, nato a Hirado nel 1590; e padre Guglielmo Courtet, francese.
Nell’anno 1637 furono martirizzati padre Antonio González spagnolo, nato a León, morto il 24 settembre; poi padre Michele de Aozaraza, nato nel 1598 a Oñata (Guipuzcoa) in Spagna e padre Vincenzo Shiwozuka giapponese, morti il 29 settembre; insieme a loro anche i due laici Lorenzo Rúiz, filippino di Manila, padre di famiglia, sacrestano dei Domenicani e Lazzaro di Kyoto, giapponese.
Sul martirio del gruppo si tennero negli anni 1637 e 1638 due processi diocesani, i cui ‘Atti’ ritrovati solo all’inizio del XX secolo, resero possibile la ripresa della Causa presso la Santa Sede.
Essi furono beatificati da papa Giovanni Paolo II il 18 febbraio 1981 a Manila nelle Filippine, essendo Lorenzo Rúiz il protomartire di quella Nazione e canonizzati a Roma dallo stesso pontefice il 18 ottobre 1987.
Autore: Antonio Borrelli
Blois, 1318-19 - Auray 1364
Figlio di Guido di Châtillon conte di Blois e di Margherita di Valois, sorella di Filippo VI di Francia, sposò (1337) Giovanna di Penthièvre, figlia di Guido, secondogenito di Arturo II di Bretagna. Alla morte, senza eredi diretti, di Giovanni III, figlio primogenito di Arturo, si aprì la lotta per la successione tra Carlo e Giovanni di Montfort, figlio di secondo letto di Arturo. La questione fu risolta dalla Corte dei pari di Francia con un verdetto favorevole a Carlo (1341), che non fu però accettato da Giovanni. Ne seguì tra i due pretendenti (a Giovanni, morto nel 1345, si sostituì poi il figlio omonimo), appoggiati rispettivamente da Filippo VI di Francia ed Edoardo III d'Inghilterra, una lunga guerra, che si innestò in quella dei Cent'anni e che terminò, dopo varie vicende tra cui una lunga prigionia di Carlo (1347-56; dal 1348 nella Torre di Londra) e alcuni tentativi di pace, nel 1364 con la sconfitta e la morte di Carlo in battaglia e l'assegnazione del ducato a Giovanni di Montfort. La fama di santità di cui Carlo si era circondato in vita, si consolidò dopo la sua morte, sì che Urbano V dette inizio (1369) al processo di canonizzazione, continuato poi sotto Gregorio XI ma forse mai giunto a conclusione. Comunque Pio X (1904) ne confermò il culto come beato.
Martirologio Romano: Presso Vannes sulla costa della Bretagna, beato Carlo da Blois, uomo pio, mite e umile: duca di Bretagna, avrebbe desiderato entrare tra i Frati Minori, ma, costretto a difendere la propria sovranità contro un nemico, forte nelle difficoltà, subì una lunga carcerazione e fu ucciso in combattimento presso Auray.
Nacque nel 1320 da Guido di Châtillon e da Margherita di Valois, sorella del re di Francia, Filippo VI. Unì alle doti fisiche e intellettuali profonde virtù cristiane: pietà, umiltà, spirito di sacrificio. Il 4 giugno 1337 fu dato come sposo a Giovanna di Penthièvre, nipote del duca di Bretagna e sua erede presuntiva. Morto il 30 aprile 1341 Giovanni III di Bretagna, Carlo, per difendere i diritti della moglie, dovette scendere in armi contro Giovanni di Montfort, fratellastro del defunto, che rivendicava per sé il ducato. Questa lotta di successione, un capitolo della guerra «dei cent'anni», trasformò la Bretagna in un campo di battaglia dove si affrontarono Francia e Inghilterra, alleate dei due partiti avversi. Carlo, leale cavaliere, si fece un dovere di combattere, anche se la sua indole lo avrebbe portato a una vita di contemplazione e di preghiera. Scriverà: «Sarebbe stato meglio che io fossi frate minore, perché il popolo di Bretagna non può aver pace a causa dei nostri contrasti e tuttavia io non posso farci nulla senza il consiglio dei baroni».
Dal 1341 al 1347 la guerra gli fu favorevole: in questo periodo apportò nella chiesa dei Francescani di Guingamp abbellimenti sontuosi e fece costruire una cappella reale dedicata a san Luigi d'Angiò. Ma il 20 giugno 1347 cadde prigioniero nella battaglia della Roche-Derrien. Conobbe allora una lunga e dolorosa cattività a Londra (1348-56): in quegli anni scrisse la biografia del suo santo prediletto, Ivo, di cui aveva ottenuto dal papa la canonizzazione. Liberato, poté godere di una pace relativa: nel 1363 la guerra riprese nonostante gli arbitrati e, il 29 novembre 1364, Carlo soccombette nella battaglia di Auray. Il suo corpo, rivestito del cilicio, fu inumato presso i Francescani di Guingamp. Subito il popolo lo venerò come santo, ma fu sette anni dopo la sua morte che Giovanna di Penthièvre fece intraprendere le pratiche per ottenere la canonizzazione di Carlo, nonostante gli sforzi contrari di Giovanni IV di Montfort. Il papa Gregorio XI, trascurando l'opposizione del duca, aprì il processo apostolico che si tenne dal 9 settembre al 18 dicembre 1371 e di cui si conserva copia degli atti nel ms. Vat. Lat. 4025. Le guerre e lo scisma di Occidente fermarono la procedura, ma la causa fu ripresa il 4 settembre 1892: il 14 dicembre 1904, Pio X confermò il culto immemorabile reso a Carlo dichiarandolo beato.
Il culto verso di lui fu organizzato, fin dall'inizio, dai Francescani. Andata distrutta (1591), durante le guerre di religione, la chiesa di Guingamp, il corpo di Carlo fu trasportato nella nuova chiesa della Madonna delle Grazie, fuori di città, che divenne meta frequentatissima di pellegrinaggi. Vi si conservano ancora, in un modesto reliquiario, offerto nel 1753 dal duca di Châtillon, resti del beato.
Viene festeggiato il 20 giugno a Blois; e il 30 ottobre nelle diocesi di Bretagna.
Autore: Hubert Claude Fonte:Enciclopedia dei Santi
795 – 29 settembre 855
Sacro Romano Imperatore, re d'Italia dal 818 al 839, era il figlio maggiore dell'imperatore Ludovico il Pio e di sua moglie Irmengarda. Si sa poco dei primi anni della sua vita, che trascorse probabilmente alla corte di suo nonno Carlomagno, fino al 815 quando fu inviato a governare la Baviera. Quando Ludovico divise l'Impero tra i suoi figli nel 817, Lotario fu incoronato imperatore aggiunto ad Aquisgrana ed ebbe una certa superiorità sui fratelli. Nell'821 sposò Irmengarda (che morirà nel 851), ed il 5 aprile 823, fu incoronato imperatore da Papa Pasquale I a Roma. Nell'855 si ammalò seriamente, e disperando della guarigione, rinunciò al trono, divise la sua terre tra i suoi tre figli e il 23 settembre entrò nel monastero di Prüm, dove morì giorni dopo. Fu seppellito a Prüm, dove le sue spoglie furono trovate nel 1860. Il suo culto, prettamente locale, non fu mai confermato ufficialmente dalla Chiesa.
+ Nagasaki, Giappone, 29 settembre 1637
Martirologio Romano: A Nagasaki in Giappone, passione dei santi martiri Michele de Aozaráza, Guglielmo Courtet, Vincenzo Shiwozuka, sacerdoti dell’Ordine dei Predicatori, Lazzaro di Kyoto e Lorenzo da Manila Ruiz, padre di famiglia, che, tenuti in prigione per oltre un anno per il nome di Cristo, subirono il supplizio della croce e infine la decapitazione. La loro memoria, insieme a quella di altri compagni, si celebra il giorno precedente a questo.
Lorenzo Ruiz è il protomartire delle Filippine, il paese più cattolico dell'Estremo Oriente, ma il suo martirio insieme ad altri 15 compagni non si consumò nella sua terra, bensì nel Giappone.
La fedeltà dei cristiani giapponesi
La lunga e feroce persecuzione contro i cristiani in Giappone li aveva privati di sacerdoti, ma non aveva distrutto la loro fede. Quando nel 1634 alcuni commercianti spagnoli sbarcarono nelle isole Okinawa, i fervorosi cristiani, che qui si trovavano, li scongiurarono di mandar loro dei missionari. Essi avrebbero trovato il modo di introdurli segretamente nelle altre isole per portare conforto alle comunità cristiane che vivevano in clima di catacombe.
L'appello arrivò al provinciale dei domenicani a Manila e questi nel giro di due anni riuscì a preparare un gruppo di missionari e a noleggiare una piccola nave che doveva partire in segreto per Okinawa, avendo il governatore spagnolo proibito l'invio di personale in Giappone per le tensioni politiche tra i due paesi.
I sei missionari
La comitiva era composta da sei persone. II responsabile della missione, candidato a diventare vescovo del Giappone, era p. Antonio Gonzalez, spagnolo, professore di teologia, che dal 1631 stava studiando la lingua giapponese. Lo seguivano subito il p. Guglielmo Courtet, francese, anch'egli professore di teologia che sin da giovane sognava di sostituire i missionari francescani e gesuiti martirizzati in Giappone; il p. Michele de Aozaraza, spagnolo, che aveva lavorato con successo come missionario nell'isola di Luzón; e il p. Vincenzo Shiwozuka della Croce, che da ragazzo era fuggito dal Giappone, forse da Nagasaki, e nelle Filippine era diventato sacerdote, prendendosi cura soprattutto dei cristiani giapponesi riparati in questo paese e insegnando la lingua della sua terra ai missionari. Non gli parve vero quando gli si presentò l'occasione di tornare nel suo paese per aiutare i cristiani perseguitati e si unì con entusiasmo al gruppo del p. Gonzalez. A questi si aggiunse anche un altro giapponese, un laico, Lazzaro da Kioto. Era stato cacciato dalla sua città nel 1632 perché era cristiano e malato di lebbra. Ora si offriva per fare da guida e da interprete ai missionari. Infine anche Lorenzo Ruiz si accodò al gruppo per puro caso.
Lorenzo era nato a Binondo (Manila) intorno al 600 da madre tagala e padre cinese. Era vissuto molto legato al convento dei domenicani, facendo parte della confraternita del Rosario, ed era diventato un notaio di fama in città. Era sposato e aveva due figli. Mentre si stava preparando il viaggio dei missionari, si trovò coinvolto in un fatto criminale non meglio identificato ed era ricercato dalla polizia. Per sfuggire alla cattura e nel desiderio di trovare un nuovo posto di lavoro dove poi trasferirsi con tutta la famiglia, chiese e ottenne di partire con i missionari, ma senza alcuna intenzione apostolica.
Dopo un mese di fortunosa navigazione la comitiva toccava l'isola di Okinawa, accolta molto bene dai cristiani del posto. Non riuscendo a nascondere il loro fervore, dopo alcuni mesi, nel settembre del 1636, furono individuati come cristiani e vennero arrestati e trasportati a Nagasaki per il processo.
Le torture e gli interrogatori
Secondo il costume del paese i prigionieri venivano torturati con metodi particolarmente disumani. Li si costringeva ad ingoiare con un imbuto una grande quantità d'acqua per poi fargliela rigettare facendo violenta pressione sul loro ventre; si conficcavano loro dei pezzettini di canna di bambù sotto le unghie e negli organi sessuali; venivano sospesi coi piedi a una forca immergendone il capo in una fossa di rifiuti chiusa attorno al collo da due pezzi di legno circolari. Erano poi esposti in una gabbia sulla piazza o trasportati per le vie della città per essere scherniti dalla folla.
Le torture erano così crudeli che il p. Vincenzo, in un momento di debolezza, si disse pronto a rinunziare alla fede cristiana. Lo stesso avvenne con Lazzaro. Ma quando a sera i missionari si ritrovarono da soli in carcere, i due chiesero perdono a tutti e riaffermarono la volontà di morire martiri.
Il 23 settembre ricominciarono gli interrogatori e le torture. Quando chiesero a Lorenzo Ruiz se era disposto a rinnegare la fede per salvare la sua vita, egli rispose con decisione che era pronto a morire per il suo Signore: «Vorrei dare - disse - mille volte la mia vita per lui. Non sarò mai apostata. Potete uccidermi se volete. La mia volontà è di morire per Dio».
I prigionieri furono condannati a morte e, condotti sulla collina della città di Nagasaki, furono sottoposti alla tortura della forca e della fossa. Resistettero tre giorni senza che nessuno rinnegasse la fede. I carnefici, stanchi di attendere e desiderosi di prendere parte a una battuta di caccia, li decapitarono. Era il 29 settembre 1637. Quando la notizia del loro martirio giunse a Manila, il popolo e le autorità vollero onorare solennemente la loro memoria.
Fonte: Il Libro dei Testimoni
Gandia, Spagna, 28 ottobre 1510 - Roma, 30 settembre 1572
Nato nel 1510 a Gandia, in Spagna, fu paggio presso la Corte di Carlo V. Si sposò con Eleonora de Castro da cui ebbe otto figli. Nonostante gli impegni che la carica di Viceré della Catalogna comportava, non tralasciò di condurre una vita spirituale intensa. Morta la moglie, entrò nella Compagnia di Gesù e, divenuto sacerdote, alternò la predicazione alla scrittura di trattati spirituali. Rinunciò alla carica di cardinale ma accettò gli incarichi importanti per la Compagnia, come quello di Commissario Generale. Sue caratteristiche furono l'umiltà, la mortificazione e una grande devozione all'Eucarestia e alla Vergine. Fondatore delle prime missioni dell'America Latina spagnola, vigilò sullo spirito originale dei gesuiti. Morì nel 1572. (Avvenire)
Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: A Roma, san Francesco Borgia, sacerdote, che, morta la moglie, dalla quale aveva avuto otto figli, entrò nella Compagnia di Gesù e, lasciati gli onori terreni e rifiutati quelli ecclesiastici, eletto preposito generale, restò celebre per austerità di vita e spirito di preghiera.
Francesco Borgia, nato in Spagna nel 1510, smentì la mala fama che la propria potente famiglia si era acquistata in epoche precedenti. Infatti, pur avendo posizione mondana elevata e vita pubblica movimentata, egli riuscì a raggiungere, attraverso disparate vicende, la pienezza di una santità priva di ogni sospetto.
Il padre volle fare di lui un perfetto uomo di mondo, schernendo le sue inclinazioni religiose. E il ragazzo imparò le norme cavalleresche, ma studiò anche la filosofia; maneggiò le armi, ma non trascurò i libri; fu paggio presso la Corte imperiale, ma si fece terziario francescano.
La sua carriera fu brillante e movimentata. Era benvoluto da Isabella di Portogallo e dal marito Carlo V, il potentissimo Imperatore sui cui Regni "non tramontava mai il sole". Egli lo nominò marchese di Lombai; ella gli dette in sposa Leonora di Castro, dalla quale ebbe otto figli. Fu eletto Gran Cavallerizzo dell'Imperatore e Grande Scudiero dell'Imperatrice. L'erede, Filippo II, lo ebbe come amico e confidente. Viaggiava in portantina, leggendo però San Paolo e Giovanni Crisostomo. Impartiva lezioni di cosmografia all'Imperatore, che poi accompagnò in una guerra contro i Francesi. Ammalatosi e creduto in punto di morte, quando guarì prese l'abitudine alla Confessione e alla Comunione frequenti. Fu spinto verso una maggiore chiarezza spirituale dalla perdita della protettrice, l'Imperatrice Isabella, e dalla vista del suo volto decomposto dalla morte. Trovò allora una saggia e sicura guida spirituale nel Beato Giovanni d'Avila.
Proprio in quel tempo giungeva al culmine della sua carriera, con la nomina a Viceré di Catalogna. Per quattro anni si adoperò faticosamente per mutar volto a quella provincia, inquieta e ribelle, perché povera e mal governata. E quando, nominato Gran Maggiordomo e Consigliere di Stato, avrebbe potuto godere tranquillamente l'alta posizione, ritirandosi nel suo Ducato di Gandia, la morte dell'ancor giovane moglie lo spinse a quel passo che pose fine in modo imprevisto alla sua fortunata vicenda mondana.
Entrò nella Compagnia fondata da pochi anni dal conterraneo Ignazio di Loyola, e nel 1548 pronunziò i voti solenni. Considerando la sua eccezionale personalità, il Papa gli permise di restare nel mondo, per occuparsi dei figli del suo Ducato. Ma due anni dopo, Francesco Borgia rinunciò solennemente ai beni e alle cariche.
Avrebbe aspirato ad una vita ritirata e contemplativa, ma era una carta troppo importante per il giovane Ordine. Per obbedienza,- accettò perciò gli incarichi più laboriosi e impegnativi, e non deluse le speranze che la Compagnia riponeva in lui.
Con la sua saggezza, l'ammirazione di cui godeva, e l'aiuto di doni soprannaturali, Francesco Borgia contribuì all'espansione europea, anzi mondiale, della Compagnia di Gesù, preparando il rinnovamento cattolico della seconda metà del secolo.
Fu terzo Generale della Compagnia dopo Sant'Ignazio. Ne rinnovò le Costituzioni e ne fissò le pratiche spirituali. A Roma, fondò i principali Istituti dell'Ordine in rapido accrescimento. E viaggiò infaticabilmente fino alla vigilia della morte, venerato ambasciatore di carità e di concordia, autorevole consigliere di Imperatori, Re e Principi, per tornare finalmente a morire nella sua cella romana, nel 1572, riscattando il nome della famiglia dei Borgia con una gloria senza confini.
Fonte: Archivio Parrocchia
Etimologia: Sofia = sapienza, saggezza, dal greco
Emblema: Palma
S. Sofia è venerata insieme alle figlie Pistis, Elpis, Agape, nomi greci che tradotti sono Sapienza, Fede, Speranza, Carità. Tutte e quattro martiri sotto Traiano; la più antica notizia sulla loro esistenza e venerazione risale alla fine del sec. VI, come autore il presbitero Giovanni, il quale raccolse gli olii sui sepolcri dei martiri romani al tempo di s. Gregorio Magno (590-604); egli dice, in contraddizione, che esse erano venerate sulla via Aurelia con nomi greci e sulla via Appia con nomi latini.
E questo alternarsi di conoscenza e citazioni và avanti nei secoli successivi, una volta coi nomi greci e una volta coi nomi latini. Al tempo di papa Paolo I (760), i corpi delle sante martiri, sepolte sulla via Aurelia furono trasferiti nella chiesa di s. Silvestro in Campo Marzio.
I loro nomi furono inseriti al 1° agosto nel Martirologio di Usuardo, mentre nel 1500 il Baronio li inserisce nel Martirologio Romano ma dividendole: le tre figlie al 1° agosto e la madre al 30 settembre. Qualche studioso mette in dubbio l’esistenza reale delle quattro sante, volendo inserirle invece come figure allegoriche delle virtù di cui portavano il nome. Nell’arte hanno avuto un loro spazio abbastanza importante sia in Oriente che in Occidente, in particolare per quanto riguarda s. Sofia che come già detto significa Sapienza Divina, a lei furono intitolate specie in Oriente le più belle e grandi chiese tra cui S. Sofia di Costantinopoli, S. Sofia di Salonicco, S. Sofia di Bulgaria; queste grandi e bellissime realizzazioni dell’arte bizantina erano rivolte non tanto alla figura della santa ma a ciò che lei impersonava cioè la Sapienza Divina.
Il culto della madre e delle tre simboliche figlie Fede, Speranza, Carità è sopravvissuto anche lì dove il Cristianesimo ha subito gli eventi storici come Costantinopoli, Kiev, Novograd, Salonicco dove le grandi chiese intarsiate di mosaici, di troni, corone, scettri d’oro tempestati di gemme, sono ancora oggi visibili.
In Occidente questa regina si è trasformata in una pietosa matrona che protegge le sue figlie sotto il suo mantello, proprio come certe belle raffigurazioni della Madonna della Misericordia, mentre le giovani martiri tengono in mano lo strumento del loro martirio (fornace, clava), Fede ha le mani giunte in preghiera.
Il nome Sofia derivante dal greco Sophia (Sapienza) si diffuse in Occidente prendendo in Russia e Bulgaria il nome di Sonia poi anch’esso diffusosi in Europa.
Autore: Antonio Borrelli