Santi & Sposi
MAGGIO
Sommario
Sant'Amatore di Auxerre Vescovo
Santi Orenzio e Pazienza Sposi e martiri
San Sigismondo Re dei Burgundi e martire
Santi Espero, Zoe, Ciriaco e Teodulo Martiri di Attalia
Santi Timoteo e Maura Sposi e martiri
Sant'Ansfrido di Utrecht Vescovo e confessore
Sant'Etelredo Re di Mercia, abate
Beato Bartolomeo Pucci-Franceschi Sacerdote francescano
Beata Jutta (Giuditta) di Sangerhausen Vedova
Beato Alberto da Bergamo Domenicano
Santa Flavia Domitilla Martire
Beata Gisella d'Ungheria Regina, badessa
Sant'Ida (Ita) Monaca a Nivelles
Santi Anastasio, Teopista e figli Sposi e martiri
San PINIANO e ANICIA Lucina e compagni
San Fabio e compagni Martiri in Sabina.
Santi Gualberto e Bertilla Sposi
Sant'Isidoro l'agricoltore Laico
Beata Berta di Bingen Madre di san Ruperto
San Caleb (o Elesbaan, Elsebaan) Re d’Etiopia
Santa Restituta Madre di S. Eusebio di Vercelli
Santi Rolando e ALDA Paladini di Francia, martiri
San Pietro Parenzo Podestà e martire
Beato Enrico VI Re d’Inghilterra, martire
San Costantino il Grande Imperatore
Santi Costantino, Michele e Teodoro di Murom Principi taumaturghi
Santa Rita da Cascia Vedova e religiosa
Beata Maria Domenica Brun Barbantini
Santa Umiltà Badessa Vallombrosana
Sant'Aureliano Martire venerato a Pavia
San Vladimiro Giovanni Battista Principe, martire
Santa Giovanna Moglie di Chuza
Santi Agostino Yi Kwang-hon, Agata Kim Agi e compagni Martiri
San Matteo Nguyen Van Phuong Martire
Beata Margherita Pole Madre di famiglia, martire
Santi Conone (Cuono) e Conello (suo figlio) Martiri ad Iconio
Beata Gherardesca Vedova, monaca camaldolese
Santi Basilio ed Emmelia Sposi
San Ferdinando III Re di Leon e di Castiglia
Beato Tommaso Watkinson Martire
Nel Vangelo Gesù è chiamato 'il figlio del carpentiere'. In modo eminente in questa memoria di san Giuseppe si riconosce la dignità del lavoro umano, come dovere e perfezionamento dell'uomo, esercizio benefico del suo dominio sul creato, servizio della comunità, prolungamento dell'opera del Creatore, contributo al piano della salvezza (cfr Conc. Vat. II, 'Gaudium et spes", 34). Pio XII (1955) istituì questa memoria liturgica nel contesto della festa dei lavoratori, universalmente celebrata il 1° maggio. (Mess. Rom.)
Patronato: Padri, Carpentieri, Lavoratori, Moribondi, Economi, Procuratori Legali
Etimologia: Giuseppe = aggiunto (in famiglia), dall'ebraico
Martirologio Romano: San Giuseppe lavoratore, che, falegname di Nazareth, provvide con il suo lavoro alle necessità di Maria e Gesù e iniziò il Figlio di Dio al lavoro tra gli uomini. Perciò, nel giorno in cui in molte parti della terra si celebra la festa del lavoro, i lavoratori cristiani lo venerano come esempio e patrono.
Sotto la sua protezione si sono posti Ordini e Congregazioni religiose, associazioni e pie unioni, sacerdoti e laici, dotti e ignoranti. Forse non tutti sanno che Papa Giovanni XXIII, di recente fatto Beato, nel salire al soglio pontificio aveva accarezzato l’idea di farsi chiamare Giuseppe, tanta era la devozione che lo legava al santo falegname di Nazareth. Nessun pontefice aveva mai scelto questo nome, che in verità non appartiene alla tradizione della Chiesa, ma il “papa buono” si sarebbe fatto chiamare volentieri Giuseppe I, se fosse stato possibile, proprio in virtù della profonda venerazione che nutriva per questo grande Santo. Grande, eppure ancor oggi piuttosto sconosciuto. Il nascondimento, nel corso della sua intera vita come dopo la sua morte, sembra quasi essere la “cifra”, il segno distintivo di san Giuseppe. Come giustamente ha osservato Vittorio Messori, “lo starsene celato ed emergere solo pian piano con il tempo sembra far parte dello straordinario ruolo che gli è stato attribuito nella storia della salvezza”. Il Nuovo Testamento non attribuisce a san Giuseppe neppure una parola. Quando comincia la vita pubblica di Gesù, egli è probabilmente già scomparso (alle nozze di Cana, infatti, non è menzionato), ma noi non sappiamo né dove nè quando sia morto; non conosciamo la sua tomba, mentre ci è nota quella di Abramo che è più vecchia di secoli. Il Vangelo gli conferisce l’appellativo di Giusto. Nel linguaggio biblico è detto “giusto” chi ama lo spirito e la lettera della Legge, come espressione della volontà di Dio. Giuseppe discende dalla casa di David, di lui sappiamo che era un artigiano che lavorava il legno. Non era affatto vecchio, come la tradizione agiografica e certa iconografia ce lo presentano, secondo il cliché del “buon vecchio Giuseppe” che prese in sposa la Vergine di Nazareth per fare da padre putativo al Figlio di Dio. Al contrario, egli era un uomo nel fiore degli anni, dal cuore generoso e ricco di fede, indubbiamente innamorato di Maria. Con lei si fidanzò secondo gli usi e i costumi del suo tempo. Il fidanzamento per gli ebrei equivaleva al matrimonio, durava un anno e non dava luogo a coabitazione né a vita coniugale tra i due; alla fine si teneva la festa durante la quale s’introduceva la fidanzata in casa del fidanzato ed iniziava così la vita coniugale. Se nel frattempo veniva concepito un figlio, lo sposo copriva del suo nome il neonato; se la sposa era ritenuta colpevole di infedeltà poteva essere denunciata al tribunale locale. La procedura da rispettare era a dir poco infamante: la morte all’adultera era comminata mediante la lapidazione. Ora appunto nel Vangelo di Matteo leggiamo che “Maria, essendo promessa sposa a Giuseppe, si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo, prima di essere venuti ad abitare insieme. Giuseppe, suo sposo, che era un uomo giusto e non voleva esporla all’infamia, pensò di rimandarla in segreto”(Mt 18-19). Mentre era ancora incerto sul da farsi, ecco l’Angelo del Signore a rassicurarlo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,20-21). Giuseppe può accettare o no il progetto di Dio. In ogni vocazione che si rispetti, al mistero della chiamata fa sempre da contrappunto l’esercizio della libertà, giacché il Signore non violenta mai l’intimità delle sue creature né mai interferisce sul loro libero arbitrio. Giuseppe allora può accettare o no. Per amore di Maria accetta, nelle Scritture leggiamo che “fece come l’Angelo del Signore gli aveva ordinato, e prese sua moglie con sé”(Mt 1, 24). Egli ubbidì prontamente all’Angelo e in questo modo disse il suo sì all’opera della Redenzione. Perciò quando noi guardiamo al sì di Maria dobbiamo anche pensare al sì di Giuseppe al progetto di Dio. Forzando ogni prudenza terrena, e andando al di là delle convenzioni sociali e dei costumi del suo tempo, egli seppe far vincere l’amore, mostrandosi accogliente verso il mistero dell’Incarnazione del Verbo. Nella schiera dei suoi fedeli il primo in ordine di tempo oltre che di grandezza è lui: san Giuseppe è senz’ombra di dubbio il primo devoto di Maria. Una volta conosciuta la sua missione, si consacrò a lei con tutte le sue forze. Fu sposo, custode, discepolo, guida e sostegno: tutto di Maria. (…) Quello di Maria e Giuseppe fu un vero matrimonio? E’ la domanda che affiora più frequentemente sulle labbra sia di dotti che di semplici fedeli. Sappiamo che la loro fu una convivenza matrimoniale vissuta nella verginità (cfr. Mt 1, 18-25), ossia un matrimonio verginale, ma un matrimonio comunque vissuto nella comunione più piena e più vera: “una comunione di vita al di là dell’eros, una sponsalità implicante un amore profondo ma non orientato al sesso e alla generazione” (S. De Fiores). Se Maria vive di fede, Giuseppe non le è da meno. Se Maria è modello di umiltà, in questa umiltà si specchia anche quella del suo sposo. Maria amava il silenzio, Giuseppe anche: tra loro due esisteva, né poteva essere diversamente, una comunione sponsale che era vera comunione dei cuori, cementata da profonde affinità spirituali. “La coppia di Maria e Giuseppe costituisce il vertice – ha detto Giovanni Paolo II –, dal quale la santità si espande su tutta la terra” (Redemptoris Custos, n. 7). La coniugalità di Maria e Giuseppe, in cui è adombrata la prima “chiesa domestica” della storia, anticipa per così dire la condizione finale del Regno (cfr. Lc 20, 34-36 ; Mt 22, 30), divenendo in questo modo, già sulla terra, prefigurazione del Paradiso, dove Dio sarà tutto in tutti, e dove solo l’eterno esisterà, solo la dimensione verticale dell’esistenza, mentre l’umano sarà trasfigurato e assorbito nel divino. “Qualunque grazia si domanda a S. Giuseppe verrà certamente concessa, chi vuol credere faccia la prova affinché si persuada”, sosteneva S. Teresa d’Avila. “Io presi per mio avvocato e patrono il glorioso s. Giuseppe e mi raccomandai a lui con fervore. Questo mio padre e protettore mi aiutò nelle necessità in cui mi trovavo e in molte altre più gravi, in cui era in gioco il mio onore e la salute dell’anima. Ho visto che il suo aiuto fu sempre più grande di quello che avrei potuto sperare...”( cfr. cap. VI dell’Autobiografia). Difficile dubitarne, se pensiamo che fra tutti i santi l’umile falegname di Nazareth è quello più vicino a Gesù e Maria: lo fu sulla terra, a maggior ragione lo è in cielo. Perché di Gesù è stato il padre, sia pure adottivo, di Maria è stato lo sposo. Sono davvero senza numero le grazie che si ottengono da Dio, ricorrendo a san Giuseppe. Patrono universale della Chiesa per volere di Papa Pio IX, è conosciuto anche come patrono dei lavoratori nonché dei moribondi e delle anime purganti, ma il suo patrocinio si estende a tutte le necessità, sovviene a tutte le richieste. Giovanni Paolo II ha confessato di pregarlo ogni giorno. Additandolo alla devozione del popolo cristiano, in suo onore nel 1989 scrisse l’Esortazione apostolica Redemptoris Custos, aggiungendo il proprio nome a una lunga lista di devoti suoi predecessori: il beato Pio IX, S. Pio X, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI.
Autore: Maria Di Lorenzo
proseguiamo con un vescovo sposo suo malgrado
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Ad Auxerre in Francia, sant’Amatore, vescovo, che si adoperò per estirpare dalla sua città le superstizioni pagane e vi istituì il culto dei santi martiri.
Secondo la sua Vita, contenuta in un manoscritto del sec. IX ma forse scritta nel sec. VII da un certo monaco Stefano Africano in forma romanzata, nacque ad Auxerre nel 344 e fu educato da Valeriano, vescovo della città. Benché sposato per volere dei genitori con la nobile e ricca Marta della città di Langres, visse con lei in perfetta castità e divenne diacono; compì alcuni miracoli e cacciò i demoni che abitavano delle rovine nei dintorni della città. Alla morte di Elladio, successore di Valeriano, fu eletto vescovo e compì il suo ministero con fermezza, estirpando dalla sua diocesi le ultime tracce di paganesimo e vincendo miracolosamente la resistenza di un certo Rutilio a cedere i suoi terreni per la costruzione della nuova cattedrale, dedicata a s. Stefano protomartire; compì anche un viaggio ad Antiochia per riportarne le reliquie dei ss. Ciro e Giulitta. Secondo la leggenda consiglio a farsi diacono e pOi elesse suo successore Germano, potente signore della regione e forse governatore della città, a lui profondamente avverso (Costanzio di Lione dice invece che Germano, ancora laico, alla morte di Amatore, fu acclamato vescovo dal popolo). Amatore morì, dopo un episcopato durato trenta anni, il 1° maggio 418, data ricavabile mediante calcoli complicati, e fu sepolto accanto alla sposa Marta nell'oratorio di Mont-Artre.
Il suo culto si diffuse rapidamente anche in Catalogna, dove Carlo Magno mandò una sua reliquia. L'antica chiesa, eretta sul suo sepolcro nel VI sec., fu distrutta durante la Rivoluzione e le sue reliquie furono disperse.
Amatore era invocato soprattutto come guaritore dei pazzi e degli epilettici, che venivano fatti coricare sul suo sepolcro.
Autore: Alfonso Codaghengo Fonte:Enciclopedia dei Santi
Secondo notizie favolose, uniti in matrimonio, Orenzio e Pazienza ebbero due figli gemelli: Lorenzo e Orenzio. Sarebbero stati visitati nella loro villa di Loret da s. Sisto II papa, che avrebbe portato con sé, a Roma, Lorenzo, più tardi diacono e martire. Morta Pazienza a Huesca, Orenzio si trasferì in Francia insieme al figlio che portava il suo stesso nome, diventato poi vescovo di Auch.
Festeggiati il 1° maggio, sono rappresentati come agricoltori in posizione orante; nel Martirologio Romano vengono commemorati come martiri; sono invocati per ottenere la pioggia e contro le cavallette. Si tratta tuttavia di santi leggendari, il cui culto non è anteriore al sec. XV.
Autore: Antonio Duran Gudiol Fonte:Enciclopedia dei Santi
San Sigismondo, convertitosi dopo aver fatto uccidere il proprio figlio.
Nel giorno di san Giuseppe lavoratore la tradizione ha posto anche la festa di Sigismondo, re dei Burgundi. Figlio del re Gundobaldo, governava il territorio intorno a Ginevra. Si convertì all’inizio del VI secolo per influsso di sant’Avito: fu il primo sovrano di origine gallica ad abbracciare il cristianesimo. Poi, però, si macchiò di un orrendo crimine. Temendo che suo figlio Sigerico congiurasse contro di lui, lo fece uccidere. Subito, però, se ne pentì e si ritirò nel monastero di Aguane, sempre in Svizzera, da lui stesso fondato. Alla sua necessità di espiare si fa risalire la nascita della «Laus perennis», recitata ininterrottamente da monaci che si danno il cambio. I Franchi, che volevano conquistare la Borgogna, ultimo regno indipendente, approfittarono dello scandalo suscitato dall’uccisione di Sigerico per braccare Sigismondo, che fuggì da Aguane, ma fu raggiunto e buttato in un pozzo. Per questo lo si venera come martire. (Avvenire)
Etimologia: Sigismondo = difende con la vittoria, dal tedesco
Emblema: Palma, Corona, Scettro, Globo, Spada, Croce, Pozzo
Martirologio Romano: A Saint-Maurice-en-Valais nella Rezia, nell’odierna Svizzera, deposizione di san Sigismondo, che, re dei Burgundi, convertitosi dall’eresia ariana alla fede cattolica, istituì in questo luogo un coro di monaci che intonava ininterrottamente inni davanti al sepolcro dei martiri, espiò il delitto commesso con la penitenza, le lacrime e i digiuni e trovò la morte nel territorio di Orléans affogato dagli avversari in un pozzo.
La vita di questo santo martire è da annoverarsi fra i grandi santi, pentiti del loro passato. Egli era figlio del re dei Burgundi, Gundobaldo, ma già da principe governava una parte del territorio nazionale con Ginevra come capitale e fu proprio in questo periodo che si convertì al Cattolicesimo (dopo il 501) per opera di s. Avito; fu il primo re barbaro della Gallia a convertirsi.
Nel 516 dopo al morte del padre divenne re, si mostrò un fervente cattolico, prese posizione contro gli ariani chiedendo l’appoggio del lontano imperatore di Costantinopoli, Anastasio.
Ma un grave delitto fermò la sua illuminata opera, egli aveva un figlio Sigerico avuto dalla prima moglie, che non godeva della simpatia della sua seconda moglie, la quale persuase il re che il figlio voleva attentare alla vita del padre per impossessarsi del regno.
Allora Sigismondo fece strangolare il giovane in sua presenza (522), ma appena compiuto l’efferato crimine si gettò sul corpo del figlio piangendo lacrime amare di pentimento; consigliato di piangere su se stesso, Sigismondo per espiare si ritirò in penitenza nel monastero di Aguane in Svizzera da lui stesso fondato.
Questo episodio, che dimostra la passionalità e violenza tipiche dell’epoca barbarica, è narrato da s. Gregorio di Tours nella sua “Historia Franc.”
Al periodo del suo soggiorno ad Agaune si collega la nascita della ‘Laus perennis’, cioè un canto liturgico ininterrotto, cantato da monaci a turno. Il delitto di Sigismondo attirò su di sé e sulla Borgogna una serie di guai; si trovò contro il nonno del giovane Sigerico, Teodorico il Grande e quindi restò senza aiuti davanti alle pretese dei Franchi che volevano conquistare l’ultimo regno germanico indipendente che stava nella Gallia.
Ci fu una guerra e Sigismondo fuggito ad Agaune, fu fatto prigioniero insieme alla moglie e i figli, dal re franco Clodomiro che li riportò ad Orleans. Alla fine furono tutti buttati in un pozzo vicino al villaggio che da allora porta il nome Sigismond (Loiret).
Questo re convertito, che pur avendo commesso un grave delitto, seppe espiare con dure penitenze, subendo poi una morte violenta, fu ben presto considerato un martire e il suo corpo portato ad Agaune e poi finalmente trasferito a Praga.
Tradizionalmente si commemora il 1° maggio. Il suo culto diffuso in Europa e Italia, diede spunto a molte opere artistiche che lo raffigurano nella sua dignità regale; nel 1446 Piero della Francesca lo effigia nel famoso dipinto nel Tempio Malatestiano di Rimini, commissionato da Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Il nome Sigismondo è stato portato da tre re polacchi e da un imperatore tedesco. Deriva dall’antico tedesco Sigismuht e significa “che protegge con la vittoria”.
Autore: Antonio Borrelli
Una intera famiglia!
Attalia (Panfilia), † 120 ca.
Martirologio Romano: Ad Antalya in Panfilia, nell’odierna Turchia, santi martiri Espéro e Zoe, coniugi, e i loro figli Ciriaco e Teodúlo, che, come si racconta, sotto l’imperatore Adriano, essendo schiavi di un pagano, tutti, per ordine del loro stesso padrone, furono dapprima percossi e crudelmente torturati per avere apertamente professato la fede cristiana; infine, gettati in un forno infuocato, resero la loro anima a Dio.
Il ‘Martirologio Romano’, i Sinassari bizantini e gli ‘Acta Sanctorum’ celebrano al 2 maggio i quattro componenti di una unica famiglia, tutti martiri.
Espero e Zoe marito e moglie, Ciriaco e Teodulo loro figli; al tempo dell’Imperatore Adriano (117-138) erano cristiani di Attalia (odierna Adalia) in Panfilia, che insieme alla Cilicia formava dal 43 d. C. una provincia romana dell’Asia Minore.
Essi erano originari italiani e di condizione servile, acquistati da un ricco abitante di Attalia di nome Catlo o Catolo. I due giovani Ciriaco e Teodulo stanchi di servire un padrone pagano, decisero di rivelare al loro padrone di appartenere alla religione cristiana e nell’occasione della nascita di un figlio di Catlo, rifiutarono insieme ai loro genitori Zoe ed Espero, vino e cibo a loro dati, perché temevano che fossero stati offerti prima alla dea Fortuna, molto onorata in quella casa.
Questo rifiuto fece irritare il loro padrone il quale li fece torturare tutti e quattro, facendoli poi morire di sua autorità in una fornace.
Altro non si sa di questi quattro martiri, servi nella vita terrena, ma splendenti di gloria celeste per il loro martirio, subìto per affermare in quel tempo pagano, i principi cristiani, ancor più perché erano uniti da stretta parentela.
A Costantinopoli venivano solennemente festeggiati nelle due chiese a loro dedicate.
Autore: Antonio Borrelli
Ancora una coppia di sposi santa uccisi per la loro fede dopo solo 20 giorni di matrimonio 3 maggio
+ Antinoe, Alto Egitto, 286 circa
Martirologio Romano: Ad Antinoe nella Tebaide in Egitto, santi Timoteo e Maura, martiri.
Larga diffusione ebbe in Oriente il culto dei santi coniugi Timoteo e Maura, martiri nell’Alto Egitto durante la persecuzione del prefetto Arriano. Sono purtroppo assai scarse le notizie certe sulla loro vita terrena. Timoteo era lettore della chiesa di Panapeis nei pressi di Antinoe, mentre sua moglie Maura era un’appassionata studiosa della Sacra Scrittura. Dopo soli venti giorni di matrimonio Timoteo venne portato dinnanzi al governatore e gli fu ingiunto di consegnare i libri sacri in suo possesso, ma egli rifiutò. Anche Maura non accettò il sopruso e si dichiarò piuttosto pronta a morire con il marito. Per entrambi giunse così il momento del martirio, subito presso Antinoe in Tebaide verso l’anno 286. Gli Atti della loro passione narrano inverosimilmente che Timoteo sia stato torturato alle orecchie con attrezzi incandescenti, mentre alla moglie sarebbero stati strappati i capelli. Ambo i coniugi furono poi inchiodati ad un muro, al quale rimasero appesi per ben nove giorni. Il Martyrologium Romanum li commemora il 3 maggio.
Autore: Fabio Arduino
Un altro santo sposo divenuto Vescovo (la moglie, peraltro è anch'essa una santa, santa Ilsunda)
m. 1008 circa
Martirologio Romano: Nel monastero di Fohorst nelle Fiandre, nel territorio dell’odierno Belgio, transito di sant’Ansfrido, vescovo di Utrecht, che, colpito da cecità, si ritirò in questo luogo.
Indicato di volta in volta come conte di Brabante, o di Huy, o di Lovanio, appartenne a una nobile famiglia delle Fiandre, e fu uno degli amici e dei sostenitori più leali dell'imperatore Ottone III. Grandemente stimato per la sua onestà e saggezza, si adoperò a liberare il paese dai briganti che l'infestavano. Nel 992 la moglie di Ansfrido, santa Ilsunda, fondò il monastero di Thorn e vi si ritirò con la figlia Benedetta: fu probabilmente allora che Ansfrido, donato al vescovo di Liegi il suo contado, ricevette la tonsura. Nel 994, alla morte di Baldovino, Ottone III forzò Ansfrido a succedergli sul seggio episcopale di Utrecht. L'imperatore fu anche largo di donativi alla diocesi, come anche il suo successore Enrico II, di cui, anzi, Ansfrido fu uno dei più ascoltati consiglieri. Divenuto cieco, nel 1006 si ritirò nel monastero di Fohorst, più tardi chiamato Heiligenberg (Monte Santo), che egli stesso aveva fondato, e si sottopose alla regola di san Benedetto. Morì verso il 1010, e il suo corpo fu sepolto prima nel monastero e poi nel 1050 fu traslato nella cattedrale di San Paolo ad Utrecht. La festa di Ansfrido cade il 3 maggio.
Autore: Willibrord Lampen Fonte:Enciclopedia dei Santi
Oggi abbiamo un santo sposo Re, crudele e distruttore anche di Chiese e Monasteri, convertitosi e entrato in monastero dopo la morte della moglie!
+ Monastero di Bardney, 716
Figlio del pagano Penda, re di Mercia, Etelredo succedette a Wulfhere nel 674. Durante la guerra contro il re del Kent, distrusse chiese, monasteri e la città di Rochester, ma in seguito, il leone, divenuto agnello, amaramente si pentì dei suoi eccessi. In seguito alla uccisione della moglie Osthryth, avvenuta nel 697, Etelredo, nel 704, dopo un regno di vent’anni, abdicò in favore del nipote Coenred ed entrò nel monastero di Bardney, dove divenne abate e morì nel 716. E’ ricordato il 4 maggio.
Autore: Edward I. Watkin Fonte:Enciclopedia dei Santi
Oggi non ci sono santi sposati, ad esclusione di San Mauronto, che è stato solo fidanzato con una ragazza di nome Ermengarda. Preferì però rompere il fidanzamento per servire Dio nella vita religiosa. Lo segnalo, senza però farne la scheda, solo per la particolarità che è figlio dei santi Abalaldo, ufficiale alla corte di Dagoberto I, e Santa Rictrude, poi badessa di Marchiennes. Come sante sono anche venerate le tre sorelle di Mauronto: Clotsinda, Eusebia e Adalsinda.
Anche oggi abbiamo tre grandi santi. Tutti e tre prima sposati e poi religiosi; verrebbe da dire che il matrimonio sia stato un "incidente" di percorso nella loro vita, ma se leggiamo bene si legge che per la Betata Jutta la scelta del matrimonio fu di origine spirituale: "illuminata da una visione straordinaria scelse la vita matrimoniale, divenendo sposa esemplare", ma anche la Beata Anna Rosa Gattorno: "Già sposa fedele e madre esemplare, senza nulla sottrarre ai suoi figli – sempre teneramente amati e seguiti" emise voti senza "rinnegare" la sua vocazione matrimoniale e familiare. Infine il Betato Bartolomeo di cui si legge: "conciliò infatti durante la sua vita le diverse vocazioni dell’uomo: di sposo, di genitore e di religioso consacrato a Dio". Meditiamo...
Genova, 14 ottobre 1831 - Roma, 6 maggio 1900
Nata a Genova nel 1831 da famiglia agiata, a 21 anni si sposò e si trasferì a Marsiglia. Una serie di tracolli economici e disgrazie, culminate con la morte del marito, la segnarono profondamente. Così si fece strada una nuova vocazione. Sotto la guida del confessore, don Giuseppe Firpo, emise i voti come terziaria francescana. Si dedicò ai poveri e ai figli delle operaie, mantenendo con sé anche i propri. A Piacenza iniziò una nuova famiglia religiosa, la Figlie di Sant'Anna, che subito (1878) andarono anche in missione. Collaborò con il vescovo Scalabrini nell'assistenza alle sordomute. Morì a Roma nel 1900. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Roma, beata Anna Rosa Gattorno, religiosa, che, madre di famiglia, rimasta vedova, si consacrò interamente al Signore e al prossimo e istituì le Figlie di Sant’Anna Madre di Maria Immacolata, adoperandosi in tutti i modi per i malati, gli infermi e l’infanzia abbandonata, nel volto dei quali contemplava Cristo povero.
Nacque a Genova, il 14 ottobre 1831, da una famiglia di agiate condizioni economiche, di buon nome sociale e di profonda formazione cristiana. Fu battezzata lo stesso giorno, nella parrocchia di S. Donato, con i nomi di Rosa Maria Benedetta.
Nel padre Francesco e nella madre Adelaide Campanella, come gli altri loro cinque figli, trovò i primi essenziali formatori della sua vita morale e cristiana. A dodici anni ricevette la Cresima in S.Maria delle Vigne, dall'arcivescovo card. Placido Tadini.
Giovinetta, le fu impartita l'istruzione in casa, come era d'uso nelle famiglie fortunate del tempo. Di carattere sereno, amabile, aperto alla pietà e alla carità, e tuttavia fermo, seppe reagire altresì alla conflittualità del clima politico e anticlericale dell'epoca, che non risparmiò nemmeno alcuni componenti della famiglia Gattorno.
A 21 anni (5 novembre 1852), sposò il cugino Gerolamo Custo, e si trasferì a Marsiglia. Un imprevisto dissesto finanziario turbò ben presto la felicità della novella famiglia, costretta a far ritorno a Genova nel segno della povertà. Disgrazie ancor più gravi incombevano: la primogenita Carlotta, colpita da un improvviso malore, rimase sordomuta per sempre; il tentativo di Gerolamo di far fortuna all'estero si concluse con un ritorno, aggravato da ferale malattia; la gioia degli altri due figli fu profondamente turbata dalla scomparsa del marito, che la lasciò vedova a meno di sei anni dalle nozze (9 marzo 1858) e, dopo qualche mese, dalla perdita dell'ultimo figlioletto.
L'incalzare di tante tristi vicende segnò, nella sua vita, un cambiamento radicale che lei chiamerà la sua "conversione" all'offerta totale di sé al Signore, al suo amore e all'amore del prossimo. Purificata dalle prove, e resa forte nello spirito, comprese il vero senso del dolore, e si radicò nella certezza della sua nuova vocazione.
Sotto la guida del confessore don Giuseppe Firpo, emise i voti privati perpetui di castità e di obbedienza nella festa dell'Immacolata 1858; in seguito anche di povertà (1861), nello spirito del Poverello di Assisi, quale terziaria francescana.
Nel 1862 ricevette il dono delle stimmate occulte, percepito più intensamente nei giorni di venerdì.
Già sposa fedele e madre esemplare, senza nulla sottrarre ai suoi figli – sempre teneramente amati e seguiti – in una maggiore disponibilità imparò a condividere le sofferenze degli altri, prodigandosi in apostolica carità: "mi dedicai con più fervore alle opere pie e a frequentare gli ospedali e i poveri infermi a domicilio, soccorrendoli con sovvenirli quanto potevo e servirli in tutto".
Le Associazioni cattoliche in Genova se la contesero, così che pur amando il silenzio e il nascondimento, fu notato da tutti il carattere genuinamente evangelico del suo tenore di vita.
Nel timore d'essere costretta ad abbandonare i figli, prega, fa penitenza, chiede consiglio. S. Francesco da Camporosso, cappuccino laico, pur mostrandosi trepidante per le gravi tribolazioni che le si profilano, la sostiene, incoraggiandola; similmente il Confessore e l'Arcivescovo di Genova.
Avvertendo però sempre più insistenti i suoi doveri di madre, volle l'autorevole conferma dalla parola stessa di Pio IX, nella segreta speranza di essere sollevata. Il Pontefice, nell'udienza del 3 gennaio 1866, le ingiunse invece di iniziare subito la fondazione. Accettò dunque di compiere la volontà del Signore.
Superate inoltre le resistenze dei parenti e abbandonate le opere di Genova, non senza dispiacere del suo Vescovo, diede inizio a Piacenza, alla nuova famiglia religiosa, che denominò definitivamente "Figlie di S. Anna, madre di Maria Immacolata" (8 dicembre 1866). Vestì l'abito religioso il 26 luglio 1867, e l'8 aprile 1870 emise la professione religiosa insieme a 12 Consorelle.
Nello sviluppo dell'Istituto fu collaborata dal P. Giovanni Battista Tornatore, dei Preti della Missione, il quale, espressamente richiestone, scrisse le Regole e fu poi ritenuto Confondatore dell'Istituto.
Affidata totalmente alla Provvidenza divina, e animata fin dal principio da un coraggioso slancio di carità, Rosa Gattorno diede inizio alla costruzione dell'Opera di Dio, come l'aveva chiamata il Papa, e come la chiamerà sempre anche lei eletta a cooperarvi, in spirito di dedizione materna, attenta e sollecita verso ogni forma di sofferenza e miseria morale o materiale, con l'unico intento di servire Gesù nelle sue membra doloranti e ferite, e di "evangelizzare innanzitutto con la vita".
Nacquero varie opere di servizio ai poveri e agli infermi di qualsiasi malattia, alle persone sole, anziane, abbandonate, ai piccoli e agli indifesi, alle adolescenti e alle giovani "a rischio", cui provvedeva a far impartire un'istruzione adeguata, e al successivo inserimento nel mondo del lavoro. A queste forme si aggiunse ben presto l'apertura di scuole popolari per l'istruzione ai figli dei poveri, e altre opere di promozione umano-evangelica, secondo i bisogni più urgenti del tempo, con una fattiva presenza nella realtà ecclesiale e civile: "Serve dei poveri e ministre di misericordia" chiamava le sue figlie; e le esortava ad accogliere come segno di predilezione del Signore il servizio ai fratelli, compiendolo con amore e umiltà: "Siate umili …, pensate che siete le ultime e le più miserabili di tutte le creature che prestano alla Chiesa il loro servizio …, e hanno la grazia di farne parte".
A meno di 10 anni dalla fondazione, l'Istituto ottenne il Decreto di Lode (1876) e l'approvazione definitiva, nel 1879. Per le Regole, si dovette attendere fino al 26 luglio 1892.
Molto stimata e apprezzata da tutti, collaborò a Piacenza anche con il vescovo, mons. Scalabrini, ora beato, soprattutto nell'Opera a favore delle Sordomute, da lui fondata.
Nel 1878, inviava già le prime Figlie di S. Anna in Bolivia, poi in Brasile, Cile, Perù, Eritrea, Francia, Spagna. A Roma, dove aveva iniziato l'opera sua dal 1873, organizzò scuole maschili e femminili per i poveri, asili nido, assistenza ai neonati figli delle operaie della Manifattura dei tabacchi, case per ex prostitute, donne di servizio, infermiere a domicilio ecc. Ivi sorse la Casa generalizia, con l'annessa chiesa.
In tutto, alla sua morte, 368 Case nelle quali svolgevano la loro missione 3500 Suore.
Così visse fino al febbraio del 1900, quando colpita da una grave influenza, si peggiorò rapidamente: il suo fisico, messo a dura prova da penitenze, frequenti estenuanti viaggi, fitta corrispondenza epistolare, preoccupazioni e grandi dispiaceri, non resse più. Il 4 maggio ricevette il Sacramento degli infermi, e due giorni dopo, il 6 maggio, alle ore 9, compiuto il suo pellegrinaggio terreno, si spense santamente nella Casa generalizia.
La fama di santità che già l'aveva circondata in vita, esplose in occasione della sua morte e crebbe, ininterrottamente, in tutte le parti del mondo.
Espressione di un singolare disegno di Dio, nella sua triplice esperienza di sposa e madre, vedova, e poi religiosa-Fondatrice, Rosa Gattorno ha ben onorato la dignità e il "genio della donna" nella sua missione al servizio della umanità e della diffusione del Regno. Pur sempre fedele alla chiamata di Dio, e autentica maestra di vita cristiana ed ecclesiale, rimase soprattutto essenzialmente madre: dei suoi figli, che costantemente seguì; delle Suore, che profondamente amò; e dei bisognosi, dei sofferenti e degli infelici, nel cui volto contemplò quello stesso di Cristo, povero, piagato, crocifisso.
Il suo carisma si è diffuso nella Chiesa col sorgere di altre forme di vita evangelica: Suore di vita contemplativa; Associazione religiosa Sacerdotale; Istituto secolare e Movimento ecclesiale di laici, attivamente operante nella Chiesa in quasi tutte le parti del mondo.
Montepulciano, 6 maggio 1330
Martirologio Romano: A Montepulciano in Toscana, beato Bartolomeo Pucci-Franceschi, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che, lasciati per amore di Dio la moglie, i figli e tutti i suoi beni, si fece poverello di Cristo.
Bartolomeo nacque a Montepulciano nella seconda metà del XIII secolo. Il Padre, Puccio di Francesco, aveva i due nomi del suo casato di cui si hanno notizie già nel secolo XII.
Di famiglia nobile, dunque, il Beato sposò la figlia del Capitano Tommaso del Pecora, Millia, da cui ebbe quattro figli. Possiamo immaginare una famiglia ideale che, sebbene vivesse nell’agiatezza, era attenta ad aiutare i poveri, soprattutto nei momenti di carestia. Nel 1290, quando i figli raggiunsero la maggiore età, Bartolomeo poté abbracciare la vocazione religiosa entrando nel nell’Ordine dei Frati Minori del convento cittadino di S. Francesco. Da ricco si fece povero, per amore di Cristo, e se molti lo ammiravano dovette però sopportare il disprezzo di quanti lo consideravano un pazzo. Soprattutto i ragazzi, per strada, lo fecero più volte bersaglio di insulti. Seguendo il suo esempio anche la moglie fece in seguito voto di castità.
L’umile francescano condusse il resto della sua esistenza tra preghiere, visioni della Madonna e degli angeli. Considerato dai suoi concittadini un’anima eletta, operò ancora in vita alcuni miracoli. Fra Bartolomeo morì, molto anziano, il 6 maggio 1330. Sepolto nella chiesa del convento, le due chiavi dell’urna, per secoli, furono custodite sia dal frate guardiano che dai discendenti della sua famiglia. Le reliquie furono poi trasferite, nel 1930, nella chiesa di S. Agostino in cui si trovano tuttora. Il 24 giugno 1880 Papa Leone XIII ne aveva confermato il culto “ab immemorabili”. L’esempio del Beato Bartolomeo è singolare, conciliò infatti durante la sua vita le diverse vocazioni dell’uomo: di sposo, di genitore e di religioso consacrato a Dio.
Autore: Daniele Bolognini
Sangerhausen (Turingia), XIII sec. – Kulmsee (Prussia), 6 maggio 1255
La beata Jutta (in ital. Giuditta) è la patrona della Prussia (regione storica della Germania settentrionale). Nacque nei pressi di Sangerhausen in Turingia, verso gli inizi del XIII secolo e la più antica ‘Vita’ della beata Jutta, fu compilata nella prima metà del Seicento dal gesuita padre Federico Schembek e scritta in lingua polacca; l’autore consultò costantemente una documentazione canonica su santa Jutta, redatta nel 1275, quindi quasi contemporanea.
La vita si può così riassumere; sin dalla prima fanciullezza Jutta fu favorita da speciali grazie divine, poi illuminata da una visione straordinaria scelse la vita matrimoniale, divenendo sposa esemplare di un cavaliere al seguito del langravio Enrico di Raspe.
Purtroppo dopo qualche anno, il marito morì durante un pellegrinaggio in Terra Santa; rimasta vedova poté dedicarsi con maggiore zelo alla preghiera e specialmente alla cura dei lebbrosi, attività in cui raggiunse forme eroiche.
La missione di Jutta nella Prussia Orientale, che allora era da poco feudo dell’Ordine Teutonico, prende un particolare interesse storico-culturale; qui si sacrificò nella solitudine e nella preghiera per quelle popolazioni da poco convertite, confortando e assistendo i neofiti, curandoli anche nelle malattie più ripugnanti.
La presenza in Prussia di Jutta originaria della Turingia, è per gli studiosi interessante argomento per studiare le relazioni tra i due Stati dell’epoca.
È un po’ incerta la data della sua morte, avvenuta presumibilmente a Kulmsee (Prussia) il 6 maggio 1255, vigilia dell’Ascensione.
Il vescovo di Kulmsee, approvò subito dopo la morte il culto di Jutta; il clero locale nel 1275 inviò a Roma una regolare Informazione Canonica per il riconoscimento ufficiale di una canonizzazione che sembra però mai avvenuta.
Il culto per la beata si attenuò con il passare del tempo, ma venne ripreso nel 1636 per opera del vescovo Giovanni Lipski, il quale il 15 dicembre del 1637, fece una ricognizione canonica della tomba della beata esistente nella cattedrale di Kulmsee, ma i resti mortali di Jutta non furono trovati.
Nei pressi del sepolcro, ancora nel XVII secolo esisteva un’antica pittura, sotto la quale una scritta riportava la proclamazione di s. Jutta a Patrona della Prussia.
Autore: Antonio Borrelli
Villa d’Ogna, 1214 c. - Cremona, 1279
Nacque intorno al 1214 a Villa d'Ogna (Bg) da una famiglia di modesti contadini. Laborioso e pio si sposò senza mai tralasciare le opere di pietà e di carità. La sua illimitata generosità verso i poveri rese estremamente dura la convivenza con sua moglie. Anche i compaesani fecero convergere su di lui il loro astio fino a costringerlo ad allontanarsi dal suo paese natio e a riparare a Cremona. Qui entrò nel Terz'Ordine secolare e spese le sue fatiche a favore dei più poveri e in opere di pietà.
Etimologia: Alberto = di illustre nobiltà, dal tedesco
Martirologio Romano: A Cremona, beato Alberto da Bergamo, contadino, che sopportò con pazienza i rimproveri della moglie per la sua eccessiva generosità verso i poveri e, lasciati i campi, visse povero come frate della Penitenza di San Domenico.
Alberto da Bergamo fu un modesto fiore del giardino Gusmano e il più bell’esempio di quella santità a cui ogni cristiano è chiamato e che in nulla esce dall’ordinario. Egli fu semplice agricoltore del territorio bergamasco, dove nacque, all’inizio del XIII° secolo, a Villa d’Ogna. Fin dall’infanzia camminò nelle vie di Dio, mettendo soprattutto in pratica il grande precetto della carità. Per consiglio e per volontà dei suoi contrasse matrimonio, ma non trovò nella sua compagna, né comprensione, né affetto; tuttavia la sua pazienza fu inalterabile. Venendogli contestato il possesso di alcune terre da persone potenti, per amore di pace, lasciò il suo paese e si ritirò a Cremona, dove visse del lavoro delle sue mani. Aggregatosi al Terz’Ordine di San Domenico si dedicò senza posa alle opere di misericordia, essendo solito sostenere che sempre si trova il tempo di fare il bene quando si vuole. Egli predicò eloquentemente con le opere, dando l’esempio luminoso di quella carità cosi poco compresa e ancor meno praticata da tanti cristiani, che pur si dicono praticanti. Alberto presentì l’ora della sua morte, il 7 maggio 1279, spirando serenamente, confortato dagli ultimi Sacramenti. Molto popolo accorse a venerare il sacro corpo, attirati dal suono miracoloso delle campane che suonarono senza essere toccate. Un fatto straordinario avvenne al momento della sua sepoltura: via via che si scavava la fossa la terra si pietrificava, sicché si pensò di seppellirlo nel Coro della Chiesa dove si rese celebre per grazie e miracoli. Papa Benedetto XIV il 9 maggio 1748 ha approvato il culto resogli “ab immemorabili”.
Autore: Franco Mariani
I-II secolo
Vissuta tra il primo e il secondo secolo, sono poche le informazioni su di lei. A parte una leggendaria Passio, non anteriore al V secolo, sia Eusebio sia Dione Cassio raccontano che sarebbe stata perseguitata sotto Diocleziano. Da Eusebio sappiamo che Flavia, nipote di Flavio Clemente, uno dei consoli di Roma (95 d.C.), per la sua fede in Cristo fu deportata a Ponza dove dovette soffrire, secondo San Girolamo, un lungo martirio. Dione Cassio ci dice, invece, che fu moglie di Flavio Clemente e che perse la vita per la propria fede. Una iscrizione conservata oggi nella basilica dei Ss. Nereo e Achilleo conferma queste ultime affermazioni, precisando che Flavia Domitilla era “neptis“ nipote di Vespasiano, padre di Domiziano, e che fu moglie di Flavio Clemente.
Etimologia: Flavia = dai capelli biondi, dal latino
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Roma, commemorazione di santa Domitilla, martire, che, nipote del console Flavio Clemente, accusata durante la persecuzione di Domiziano di aver rinnegato gli dèi pagani, per la sua testimonianza di fede in Cristo fu deportata insieme ad alcuni altri nell’isola di Ponza, dove consumò un lungo martirio.
Eusebio di Cesarea, nella Storia Ecclesiastica (III, 18, 4) scrive: «Tramandano che nell'anno quindicesimo di Domiziano, Flavia Domitilla, nipote, per parte della sorella, di Flavio Clemente, che fu allora uno dei consoli di Roma (95 d.C), insieme con numerose altre persone fu deportata nell'isola di Ponza per avere confessato Cristo». A sua volta, Dione Cassio, nella Historia romana (LXVII, 13-14), afferma che l'imperatore Domiziano «tolse la vita, con molti altri, anche a Flavio Clemente, benché fosse suo cugino e avesse in moglie Flavia Domitilla, ella pure sua consanguinea. Tutti e due furono accusati di ateismo, e di ciò anche altri, sviatisi dietro le costumanze dei Giudei, ebbero condanna, chi di morte, chi di confisca. Domitilla fu soltanto relegata nell'isola di Pandataria».
Dai citati passi dei due storici, dunque, risulta che, sul finire del I sec, due matrone, aventi l'una e l'altra il nome di Domitilla e imparentate l'una e l'altra con la famiglia imperiale dei Flavi, furono condannate per la loro adesione alla fede cristiana. Dione Cassio, per l'esattezza, parla nei confronti della Domitilla relegata a Pandataria (oggi Ventotene), non di Cristianesimo, bensì di «ateismo», ma è noto che questa era l'accusa rivolta dagli idolatri ai primi seguaci di Cristo.
Alcuni studiosi, fra i quali il Mommsen, l'Aubé e lo Styger, ritennero di poter identificare in una sola persona le due Domitille, supponendo errori o confusioni degli storici ma, il De Rossi sostenne giustamente la diversità dei due personaggi, ristabilendo la genealogia delle loro famiglie. E questa conferma che la Domitilla citata da Eusebio, era nipote di Flavio Clemente, mentre quella ricordata da Dione Cassio era moglie del console martire, dal quale ebbe sette figli. A tal proposito, di grande importanza è l'iscrizione mutila ritrovata nel sec. XVIII nell'area del Cimitero sulla Via Ardeatina e che qui riportiamo con le integrazioni proposte dal Mommsen: «tatia baucyl (la...nu) / trix septem lib (erorum pronepotum) / divi vespasian(i filiorum FI. Clementis et) flaviae DOMiTiL (lae uxoris eius, divi) / vespasiani neptis a (ccepto loco e) / ius beneficio hocSEPULCHRU (m feci) / MEIS LIBERTIS lIBERTABUSpo (sterisque eorum) ». L'iscrizione, conservata oggi nella parete di fondo della basilica dei SS. Nereo e Achilleo in detto Cimitero, precisa, dunque, che Tazia Baucilla, nutrice dei sette figli di Flavio e di Flavia Domitilla, ottenne da quest'ultima il terreno per un sepolcro. Nel documento epigrafico si precisa, inoltre, che Flavia Domitilla era «neptis», cioè nipote di Vespasiano, padre di Domiziano, confermando, così, l'affermazione di Dione Cassio secondo la quale la moglie di Flavio Clemente era «consanguinea» dello stesso Domiziano.
In merito, poi, alle «confusioni» nelle quali sarebbero incorsi gli storici nell'indicare i luoghi di relegazione delle due Domitille, Umberto Fasola sottolinea che le isole di Ponza e di Ventotene erano troppo tristemente note per essere confuse l'una con l'altra. A Ponza, infatti, furono relegati le figlie di Caligola e un figlio di Germanico e a Ventotene furono confinate Giulia, figlia di Augusto, Agrippina, moglie di Germanico e Ottavia moglie di Nerone.
La venerazione per la Flavia Domitilla relegata a Ponza è antichissima: s. Girolamo (Ep. ad Eustoch. 108) dice che la vedova Paola, nel suo viaggio verso Oriente, visitò nell'isola il luogo dove la santa «longum martyrium duxerat». Peraltro, il nome di Domitilla non figura né nella Depositio Martyrum, né nel Martirologio Geronimiano: la festa di essa, al 12 magg., non è anteriore al IX sec. e fu introdotta nei libri liturgici per influsso del Martirologio di Floro, il quale la incluse nel suo elenco probabilmente per errore, scambiando un flavi(us) ricordato nel Geronimiano sotto la data del 7 magg.
Le notizie su Flavia Domitilla che figurano nella passio leggendaria (V-VI sec.) non hanno alcuna attendibilità: fra l'altro, in essa, si parla di due «eunuchi», Nereo e Achilleo, i quali avrebbero convertito Domitilla alla fede cristiana, mentre dal carme damasiano dedicato ai due martiri sappiamo che essi prima della conversione erano militari a servizio del persecutore. L'esistenza, però, delle due Domitille e la loro condanna all'esilio per aver abbracciato il Cristianesimo sono fatti inoppugnabili, come dimostrano chiaramente i documenti. Il corpo d'una Flavia Domitilla è venerato nel titolo dei SS. Nereo ed Achilleo, traslatovi da S. Adriano dal Baronio.
Autore: Alessandro Carletti Fonte:Enciclopedia dei Santi
+ Niedernburg, Germania, 1060 c.
La beata Gisella, figlia di Enrico II di Baviera e di Gisella di Borgogna, nacque alla fine del X secolo e sposò nel 996/997 il primo re d’Ungheria Stefano il Santo. Fu la prima ed importante collaboratrice del marito, nell’opera di conversione al cattolicesimo degli ungheresi, fondando ed arricchendo con parecchi doni i monasteri e le chiese del regno. Nel 1031 le morì il figlio Emerico e nel 1038 perse anche il marito. Ma le sventure proseguirono quando il successore di Stefano, Pietro Orseolo, la privò dei suoi beni. Gisella fu costretta nel 1045 a lasciare l’Ungheria. Tornò in Baviera e si ritirò nel monastero benedettino di Niedenburg presso Passau, dove diventò badessa. Morì intorno al 1060 e sepolta nello stesso monastero. (Avvenire)
Martirologio Romano: Nel monastero di Niedernburg nella Baviera, in Germania, beata Gisella, che, sposata con santo Stefano re d’Ungheria, aiutò il marito nell’opera di propagazione della fede e, dopo la sua morte, spogliatasi di tutti i suoi beni e in esilio dal regno, si ritirò in questo monastero, di cui fu poi badessa.
La beata Gisella, figlia di Enrico II di Baviera e di Gisella di Borgogna, nacque alla fine del X secolo e sposò nel 996/997 il primo re d’Ungheria Stefano il Santo.
Fu la prima ed importante collaboratrice del marito, nell’opera di conversione al cattolicesimo degli ungheresi, fondando ed arricchendo con munifici doni i monasteri e le chiese del regno.
Nel 1031 le morì il figlio Emerico e nel 1038, quando aveva 42 anni, le morì anche il santo coniuge; vennero in seguito dei momenti ancora tristi, perché il successore di Stefano, Pietro Orseolo, la privò dei suoi beni; perciò fu costretta nel 1045 a lasciare l’Ungheria.
Tornò in Baviera e si ritirò nel monastero benedettino di Niedenburg presso Passau, dove diventò badessa. Morì intorno al 1060 e sepolta nello stesso monastero; la sua tomba fu oggetto di pellegrinaggi e venerazione dei fedeli; nel 1908 si è tenuta una ricognizione delle reliquie.
Nonostante che nei Martirologi Benedettini è segnalata come beata al 7 maggio, Gisella non ebbe mai un culto ufficiale.
Il nome Gisella è documentato fin dall’VIII secolo, diffuso soprattutto nel Nord Italia, proprio dai residenti dell’Alto Adige nella variante Gisela e nel Nord Europa e Francia.
Il nome è di origine germanica e significa ‘eroina, campionessa’.
Autore: Antonio Borrelli
m. Nivelles (Francia), 8 maggio 652
Sposa di Pipino di Landen, madre di Gertrude di Nivelles e di Begge, costruì nel 640 il monastero di Nivelles, per consiglio di s. Amando ponendovi la propria figlia Gertrude come badessa. Morì dodici anni piú tardi (l'8 magg. 652) e fu sepolta nella chiesa di S. Pietro. La sua festa si celebra l'8 maggio.
Etimologia: Ida = battaglia, guerriera, dall'anglosassone
Il nome “Ida” compare già nella mitologia greca, ove designa un monte dell’isola di Creta nel quale secondo il mito, Gea, la dea terra, avrebbe nascosto il piccolo Giove, per sottrarlo al padre Saturno, il tempo, vorace divoratore di ogni cosa ed addirittura dei propri figli. In realtà alla santa venerata oggi fu conferito il nome germanico “Itta”, che solamente in un secondo momento fu assimilato ad “Ida”. Itta apparteneva al popolo dei Franchi, che a quel tempo era ancora un popolo di rudi guerrieri. Figlia del conte di Aquitania, ancora alquanto giovane sposò il beato Pipino di Landen, maestro di palazzo del re Dagoberto II d’Austrasia e dunque uno dei maggiori dignitari del regno. Dopo il primogenito Grimoldo, che successe al padre Pipino, nacquero due figlie Begga e Gertrude, che furono rispettivamente badesse di Andenne-sur-Meuse e di Nivelles e sono venerate anch’esse come sante. La cura della famiglia non distolsero però Itta dalle sue devozioni religiose e dai suoi impegni spirituali. Cresciuti i figli, Itta e Pipino, anziché investire le loro ricchezze in beni da trasmettere agli eredi, preferirono dedicarsi alla fondazione di un grande monastero benedettino investendo così le loro risorse. Vide così la luce il monastero femminile di Nivelles nel Brabante, cioè nell’attuale Belgio, tra Bruxelles e Charleroi. Tra le prime ad entrarvi per vivere seco ndo la Regola di San Benedetto vi fu Gertrude, loro giovanissima figlia, che dichiarò dinnanzi alla corte franca di scegliere la vita religiosa e di preferire l’obbedienza al Creatore piuttosto che l’autorità regia. Pare infatti che il re Dagoberto stesse ipotizzando un matrimonio con lei. Entrata nel monastero, ne venne eletta badessa all’età di appena vent’anni per le sue eccezionali qualità. Alla morte di Pipino, anche sua madre Itta si congedò dalla vita del mondo e si ritirò come semplice monaca nel monastero di Nivelles. Deposte le vesti di fondatrice, Itta divenne esempio vivente di come la santità si possa trasmettere non solo con il sangue, da genitori a figli, ma anche nel verso contrario a quello naturale, dai figli ai genitori. Così a Nivelles, in una clima di profonda spiritualità, si invertirono i normali rapporti tra genitori e figli. La madre, anziana e sapiente, si trovò a doversi sottomettere umilmente e silenziosamente alla figlia e la giovane fanciulla, investita di una autorità trascendente dalla sua giovane età, divenne guida saggia e discreta di colei che l’aveva generata nella carne. Questo incredibile cammino le portò a santificarsi entrambe vicendevolmente. Quando Ida morì, l’8 maggio 652, il monastero di Nivelles perse non solo la sua fondatrice, ma soprattutto la più modesta tra le sue religiose e la badessa Gertrude perse, oltre che la propria madre, la più obbediente delle sue figlie spirituali.
Autore: Fabio Arduino
«Visse nel paese di Hus» (Giobbe 1,1), che molti autori identificano con la regione posta tra l'Idumea e l'Arabia settentrionale. Tutto fa credere che non fosse ebreo, ma «retto, timorato di Dio» (1,1; 2,3). Era al colmo della ricchezza e della felicità quando improvvisamente fu colpito da una serie di disgrazie che lo privarono in breve tempo di ogni suo avere e perfino dei figli (1,13-19). Semplici le sue parole di rassegnazione davanti alla perdita delle cose e delle persone piú care: «Jahweh ha dato e JIahweh ha tolto: il nome di Jahweh sia benedetto» (1,21). Colpito da una malattia che lo riduce tutto una piaga, non perde la sua calma, neppure davanti allo scherno e alla derisione della moglie (2, 7-10). Cacciato di casa, è costretto a passare i suoi giorni in mezzo ad un letamaio. Qui lo trovano tre amici che, informati della sua disgrazia, sono accorsi a confortarlo. A questo punto il libro introduce un lunghissimo dialogo (3-41) che discute in forma alta mente poetica il problema dell'origine cioè del dolore nel mondo. La vita di Giobbe dopo la prova è compendiata dal libro sacro in pochissimi versetti (42, 11-17). Riebbe i suoi armenti, generò di nuovo sette figli e tre figlie, visse ancora altri 140 anni. (Avvenire)
Etimologia: Giobbe = perseguitato, sopporta le avversità, dall'ebraico
Martirologio Romano: Commemorazione di san Giobbe, uomo di mirabile pazienza in terra di Hus.
E' una figura molto nota nella Bibbia e nella tradizione cristiana come modello di santità e di pazienza. Egli "visse nel paese di Hus" (1, 1), che moltissimi autori identificano con la regione posta tra l'Idumea e l'Arabia settentrionale. Era "l'uomo piú facoltoso di tutti gli Orientali" e possedeva cammelli, buoi, asini e schiavi in grandissima quantità ( 1, 3 ). Tutto fa credere che non fosse ebreo, uomo intemerato nei costumi, "retto, timorato di Dio e alieno dal male" (1, 1; 2, 3). Ebbe sette figli e tre figlie e nella sua famiglia esercitò funzioni sacerdotali offrendo ogni sette giorni sacrifici per ciascuno dei suoi figli (1, 5; 42, 8). Era al colmo della ricchezza e della felicità quando improvvisamente fu colpito da una lunga serie di disgrazie che lo privarono in breve tempo di ogni suo avere e perfino dei figli (1, 13-19). Bellissime, pur nella loro lapidaria semplicità, le sue parole di rassegnazione davanti alla perdita delle cose e delle persone piú care: "Iahweh ha dato e Iahweh ha tolto: il nome di Iahweh sia benedetto" (1, 21) Colpito da una ributtante malattia che lo riduce tutto una piaga, non perde la sua calma, neppure davanti allo scherno e alla derisione della moglie (2, 7-10). Cacciato di casa, è costretto a passare i suoi giorni in mezzo ad un letamaio. Qui lo trovano tre amici che, informati della sua disgrazia, sono accorsi a confortarlo.
A questo punto il libro introduce un lunghissimo dialogo (3-41) che, partendo dal caso concreto del protagonista discute in forma alta mente poetica quel grave problema che non ha mai cessato di assillare l'umanità, l'origine cioè del dolore nel mondo, includendo in questa trattazione "gli oggetti piú nobili della conoscenza e coscienza umana, quali Dio e l'uomo, la giustizia e l'ingiustizia, la felicità e la sventura, il destino e il senso della vita". Gli interlocutori sono Giobbe stesso e i suoi tre amici: Eliphaz il Themanita, Baldad il Suhita e Saphar il Naamatita (2, 11); nella seconda parte interviene anche un certo Eliu e infine Dio mede simo che si rivela in una mirabile teofania.
Prende per primo la parola Giobbe che, in un monologo sinceramente drammatico, sfoga tutto il suo dolore maledicendo il giorno della sua nascita e chiedendosi, quasi smarrito, perché mai all'uomo viene data la vita, quando poi è condannato ad essere infelice (3). Giobbe ignora che la sua è una prova ostinatamente voluta da Satana e che Dio ha soltanto permessa (1, 6-12; 2, 1-7). Il problema, quindi, è impostato con molta chiarezza e senza nessuna pregiudiziale, perché egli lo sente angosciosamente come lo sentirebbe qualunque altro, che, pur avendo piena fiducia in Dio, anzi forse proprio per questo, non sa trovare un per ché al suo dolore straziante. La discussione che ne segue risente forse un po' troppo della simmetria con cui l'autore del libro ha voluto disporre gli interventi dei tre interlocutori, facendo in modo che ad ogni loro discorso (otto in tutto) ne corri sponda un altro del protagonista (altri otto). Ma d'altra parte, questo procedimento non manca di una sua funzione perché permette di far risaltare sempre piú chiaramente nel corso della discussione l'innocenza di Giobbe e la sua santità.
Il principio su cui si basano tutti gli interventi dei tre amici è quello della teologia tradizionale dell'antico Israele. Dio è buono e giusto. La rivelazione, la ragione e l'esperienza dimostrano che egli, come premia i buoni ricolmandoli di ogni felicità, cosí punisce i cattivi assoggettandoli al dolore e alle calamità della vita. Applicando questo principio, essi fanno intendere a Giobbe, prima velatamente, ma poi con sempre maggiore asprezza, che alla radice delle sue disgrazie deve essere necessariamente qualche grave peccato, forse un delitto occulto. Non è difficile a Giobbe dimostrare con l'esperienza dei fatti come spesso l'empio è felice mentre il pio è sventurato. Ma risultando inutili le sue argomentazioni, non gli resta che protestare ripetutamente la sua innocenza, implorare la pietà degli amici e appellarsi al giusto giudizio di Dio (4-3 1).
Cosi la via è aperta al quarto interlocutore, Eliu, il quale prospetta una nuova soluzione del problema facendo vedere come il dolore, oltre che punire il peccato, può servire anche a prevenirlo o a purificare l'uomo che se ne è reso colpevole (32-37 ). Finalmente dall'alto di una nube Dio stesso fa sentire la sua parola ammonitrice (38-41) e a Giobbe non resta che umiliarsi davanti all'infinita e imprescrutabile sapienza di lui, gettandosi "sulla polvere e sulla cenere" (42, 6). I tre amici sono condannati ad offrire un sacrificio di espiazione per il loro ingiusto e crudele comportamento nei riguardi di Giobbe e questi, proclamato innocente, viene restituito alla sua antica felicità nel godimento di beni due volte superiori a quelli che aveva avuto precedentemente (42, 7-10).
La vita di Giobbe dopo la prova è compendiata dal libro sacro in pochissimi versetti (42, 11-17). Riebbe i suoi armenti, generò di nuovo sette figli e tre figlie, visse ancora altri centoquarant'anni e "vide i suoi figli e i figli dei suoi figli fino alla quarta generazione e morí vecchio e pieno di giorni" (42, 16-17). Alla laconicità di questo testo si cercò molto presto di supplire con amplificazioni e aggiunte, come quelle della versione greca dei Settanta e quelle dell'apocrifo giudeo Testamento di Giobbe, probabile opera del sec. II d. C. che conosce perfino i nomi dei figli di Giobbe, riferisce i suoi discorsi e ne descrive poeticamente la morte. La tradizione cristiana, però, preferí sempre restare fedele alla pura e semplice figura biblica di Giobbe, considerandolo modello di santità e spesso anche tipo del Cristo sofferente. Dai Padri antichi in genere è chiamato "profeta" e da qualcuno anche "martire" per le sue molte sofferenze. Il suo esempio di straordinaria pazienza fu proposto all'imitazione dei fedeli già da s. Clemente Romano e poi da s. Cipriano da Tertulliano e da tanti altri, sia in Oriente sia in Occidente.
Il suo nome compare già nel Martyr. Hieror. e successivamente in tutti gli altri martirologi La sua immagine, poi, ricorre spesso negli affreschi degli antichi cimiteri cristani e in numerosissimi sarcofagi d'Italia e della Gallia.
La pellegrina Eteria ci parla di una chiesa eretta in onore di Giobbe nella città di Carneas, ai confini tra l'Arabia e l'Idumea, e sulla sua origine narra il seguente episodio. Al vescovo di quella città, considerata come terra natale di Giobbe, si presentò un giorno un monaco dicendogli di aver ricevuto, in una visione, l'ordine di scavare in un luogo determinato. Il vescovo allora, assecondando il desiderio del monaco, fece iniziare i lavori di scavo e quasi subito si trovò una grande caverna, lunga cento m., alla fine della quale vi era una lapide con il nome di Giobbe che ne indicava il sepolcro. Sul luogo fu poi iniziata la costruzione della chiesa, che, peraltro, non fu mai portata a termine completamente.
Giobbe fu venerato anche in Occidente. Gli furono dedicate delle chiese, come a Venezia, a Bologna e in Belgio, degli ospedali, dei lebbrosari, ecc Nella liturgia latina è soltanto ricordato nel breve elogio del Martirologio Romano il 10 maggio Le liturgie orientali invece hanno anche un Ufficio in suo onore, e precisamente il 27 aprile in Abissinia, il 6 maggio nelle Chiese greca e melchita, il 22 maggio a Gerusalemme e il 29 agosto nella Chiesa copta.
Autore: Adalberto Sisti Fonte:Enciclopedia dei santi
Anche oggi giornata ricchissima di santi sposi e di intere famiglie di santi! Per prima ricordiamo l'intera famiglia dei Santi Anastasio, Teopista e figli; quindi un'altra coppia annoverata fra i martiri, ma che morì di morte naturale, Piniano e Anicia Lucina; quindi i santi Gualberto e Bertilla (peraltro genitori delle sante Aldegonda e Valtrude) e infine San Gengolfo, martire, ucciso dalla propria moglie e patrono degli Uomini mal maritati!
+ Camerino, Macerata, 251
Emblema: Palma
Intere famiglie, in ormai duemila anni di cristianesimo, hanno dovuto affrontare il martirio testimoniando così sino allo spargimento del oro sangue la fede in Cristo. Coppie di sposi con i loro figli, come per esempio: Flaviano e Dafrosa, Marcellino e Mannea, Paolo e Tatta, Eustachio Placido e Teopista, Catervio e Severina, Claudio e Ilaria, Mario e Marta, Fileto e Lidia, Mauro e Beneria, i servi di Dio Jozef e Wiktoria Ulma, parecchie coppie di sposi giapponesi; per quanto riguarda le Chiese Ortodosse si segnalano Nicola II ed Aleksandra, ultimi zar russi, ed il sacerdote Metrofane Tzi con sua moglie Tatiana, vittime della rivolta dei Boxer in Cina. Tutti questi coniugi con le rispettive proli costituirono validi modelli di famiglie cristiane, pronte a tutto per non tradire gli insegnamenti evangelici.
In data odierna è invece commemorata una famiglia marchigiana, il cui culto è assai diffuso in tale zona, ma non è più riconosciuto dal Martyrologium Romanum. Sant’Anastasio era di Camerino, paese oggi in provincia di Macerata, e secondo gli Atti sulla sua vita era un corniculario, cioè ispettore di giustizia.
Convertitosi di fronte alla serenità e sicurezza con cui il giovane San Venanzio, suo compaesano, affrontò il martirio, si fece battezzare dal sacerdote Porfirio con tutti i suoi familiari: la moglie Teopista ed i figli Aradio, Evodio (Ebodi), Callisto, Felice, Eufemia e Primitiva.
Sull’esempio di Venanzio, anch’essi furono chiamati a scegliere se vedere salva la propria vita terrene o preferire quella del Cielo. Optando per la seconda scelta, il loro martirio si consumò nel 251 sulla via Lata, fuori dalla porta orientale di Camerino.
Il Martirologio Romano li commemorava in passato l’11 maggio, mentre la diocesi di Camerino ancora oggi li ricorda il giorno seguente.
Autore: Fabio Arduino
Martirologio Romano: A Roma al ventiduesimo miglio della via Salaria, sant’Ántimo, martire.
ANTIMO, prete, MASSIMO, BASSO, FABIO, martiri sulla VIA SALARIA in SABINA, SISINNIO, diacono, DIOCLEZIANO e FIORENZO, martiri ad OSIMO nel PICENO, FALTONIO PINIANO e ANICIA LUCINA, santi, confessori.
Questi martiri, venerati in luoghi diversi, sono collegati fra loro dagli Acta S. Anthimi. Faltonio Piniano, sposo di Anicia Lucina pronipote dell'imperatore Gallieno, era stato inviato dagli imperatori Diocleziano e Massimiano come proconsole nell'Asia. Scosso dalla fine miseranda del suo consigliere Cheremone, persecutore dei cristiani, era caduto egli stesso in gravissima malattia. La moglie, fallite tutte le cure, decise di rivolgersi ai cristiani ancora in prigione e chiedere loro la guarigione del marito. Vi erano tra gli altri il prete Antimo, il diacono Sisinnio e ancora Massimo, Basso, Fabio, Diocleziano (Dioclezio) e Fiorenzo. Antimo assicurò che il malato sarebbe guarito se avesse abbracciato il Cristianesimo, e così avvenne.
Piniano allora liberò quanti più cristiani poté, nascondendoli nelle proprietà che aveva nella Sabina e nel Piceno. Una sua terra presso Osimo fu data a Sisinnio, Diocleziano e Fiorenzo, i quali, tre anni dopo, non avendo voluto sacrificare agli idoli, furono lapidati a furor di popolo. Antimo, nascosto in una villa di Piniano lungo la via Salaria, al XXII miglio, avendo guarito e convertito un sacerdote del dio Silvano e fatto distruggere il simulacro di questa divinità, fu accusato al proconsole Prisco: gettato nel Tevere con una pietra al collo, ne uscì incolume. Fatto decapitare da Prisco, fu sepolto nell'oratorio dove era solito pregare. Massimo, erede dello zelo apostolico di lui, fu decollato poco dopo, il 19 o 20 ottobre, ed egli pure sepolto nel suo oratorio, al XXX miglio della Salaria. Basso, che vi intratteneva i fedeli per incoraggiarli alle nuove prove, fu arrestato, ma, rifiutandosi di sacrificare a Bacco e Cerere, fu massacrato dal popolo nel mercato di Forum Novum. Fabio, invece, fu consegnato al consolare, che, dopo averlo torturato, lo fece decapitare lungo la stessa via. Piniano e Anicia Lucina morirono di morte naturale a Roma.
I critici sono discordi intorno al tempo in cui furono composti questi Atti (certo non prima della fine del V sec. e non dopo il IX) e se risultino dalla fusione di più documenti agiografici preesistenti oppure siano opera di una sola mano. Sono invece tutti d'accordo con il Delehaye nel giudicarli fittizi e favolosi. Raggruppano, infatti, sub Diocletiano diversi personaggi, che invece ebbero vicende e culto del tutto indipendenti. Il prete s. Antimo compare nel Martirologio Geronimiano l'11 maggio con l'indicazione: “Romae... via Salaria miliario XXII natale sancti Antimi”, sviluppata nel Martirologio Romano con particolari desunti dagli Acta S. Anthimi. Il suo culto era particolarmente vivo a Cu res Sabinorum e anche altrove; diverse chiese s'intitolarono al suo nome. Egli compare in altre leggende come vescovo di Terni, di Spoleto e di Foligno. Nel sinodo romano del 501 il vescovo di Cures si sottoscrive episcopus ecclesiae S. Anthimi. S. Gregorio Magno nel 593 affidò Cures a Grazioso vescovo nomentano. A Montalcino in Toscana sorgeva il celebre monastero di S. Antimo, dove sarebbero state trasportate le spoglie del martire.
Mentre lo Schuster non dubita che Antimo sia un santo locale, il Delehaye invece lo identifica col vescovo omonimo di Nicomedia, commemorato nel Geronimiano il 27 aprile. Alla data dell'11 maggio lo stesso testo ricorderebbe l'ingressus reliquiarum o il natalis basilicae del martire orientale nella cittadina di Cures. Il Lanzoni, pur ammettendo la possibilità della cosa, non la trova sufficientemente provata e lo stesso Delehaye onestamente riconosce che la sua è solo una congettura, non suffragata da validi argomenti. Invece, il Lanzoni troverebbe più fondata tale supposizione a proposito di Massimo, Fabio e Basso, martiri di Forum Novum o Vescovio di Torri, pure ricordati nel Martirologio Romano l'11 maggio. Si ignora completamente il luogo della loro sepoltura. Secondo gli Acta S. Anthimi il dies natalis di s. Massimo cadeva il 19 o 20 ottobre. Ora proprio il 19 o 20 ottobre un s. Massimo martire era venerato nell'antica Forconio, la cui sede vescovile nel 1256 fu trasferita a L'Aquila, il 27 ottobre a Penne nell'Abruzzo, l'11 a Teramo e il 30 a Cuma nella Campania e a Comsa nel Sannio. Non è impossibile che a Forum Novum si venerassero soltanto delle reliquie di s. Massimo. Due famosi martiri africani si chiamavano appunto Basso e Fabio, come i compagni di s. Massimo. Ora si sa che molte chiese d'Italia, specialmente quelle del centro-meridione, amavano arricchirsi delle reliquie dei martiri africani. L'11 maggio il Martirologio Romano commemora anche i martiri osimani Sisinnio, Diocleziano e Fiorenzo, due dei quali, Diocleziano e Fiorenzo, compaiono nel Martirologio Geronimiano il 16 maggio. Non si sa se il nome di Sisinnio manchi per errore dei copisti o sia presente negli Acta S. Anthimi per influsso di quelli di s. Marcello papa. Comunque le reliquie di tutti e tre, conservate nell'antico monastero di S. Fiorenzo, nel 1437 furono trasportate nella cattedrale di Osimo. Di Faltonio Piniano non sappiamo niente di più di quel che dicono gli Acta S. Anthimi. Lucina, sua sposa, è la ricca matrona, il cui nome ricorre in molti Atti di martiri, da quelli dei ss. Processo e Martiniano a quelli di s. Marcello papa, ed è ricordata nel Martirologio Romano il 30 giugno.
Autore: Ireneo Daniele Fonte: Enciclopedia dei Santi
Nicomedia, III sec. – Curi in Sabina, 305
Il martirio di questo santo è accomunato a quello di un gruppo di martiri e confessori, radunati attorno al maestro, sant'Antimo. Le notizie pervenuteci si leggono nella «Passio sancti Anthimi» che fu scritta fra il V e IX secolo. Alla fine del III secolo era proconsole dell'Asia Minore Faltonio Piniano, sposato con Anicia Lucina. Antimo riuscì a convertire Piniano e sua moglie al cristianesimo e, richiamati a Roma da Diocleziano, i due portarono con loro il sacerdore e i suoi discepoli. Per sottrarli alle possibili persecuzioni, Piniano decise di allontanarli da Roma, mandandoli in due vasti poderi di sua proprietà. Il diacono Sisinnio con Dioclezio e Fiorenzo, andarono ad Osimo nel Piceno, mentre Antimo, Massimo, Basso e Fabio furono inviati presso la città sabina di Curi. Da qui presero a evangelizzare la regione, non senza scontrarsi però con i culti pagani diffusi nelle campagne. Il gruppo di cristiani venne così arrestato. Sant'Antimo fu decapitato l'11 maggio 305 e sepolto nell'Oratorio di Curi in cui era solito pregare. Anche i suoi discepoli vennero uccisi. Tra questi Fabio fu consegnato al console che dopo averlo fatto torturare, lo condannò alla decapitazione lungo la stessa via Salaria. (Avvenire)
Fabio riprende il nome gentilizio latino “Fabius”, presente anche nel femminile Fabia, che pare essere un soprannome forse di origine etrusca, derivato da ‘faba’ la ‘fava’.
Fabio e Fabia furono nomi che godettero presso i romani di un certo favore; dalla ‘gens’ patrizia “Fabia” discese Quinto Fabio Massimo, detto ‘il Temporeggiatore’, che fu a capo dell’esercito romano contro Annibale nella Seconda Guerra Punica.
Dopo qualche secolo di dimenticanza, questi nomi sembrano oggi ritrovare l’antica diffusione, specie la forma maschile, assieme ai derivati Fabiano, Fabiana e Fabiola.
Il nome Fabio è ampiamente distribuito nel Nord e nel Centro Italia, particolarmente nella provincia di Cagliari.
In campo cristiano, volendo restringere la ricerca al solo nome Fabio, abbiamo solo tre santi con questo nome: s. Fabio il Vessillifero, martire di Cesarea di Mauritania (31 luglio), s. Fabio e compagni martiri venerati a Vienna (27 maggio) e s. Fabio e compagni martiri in Sabina (11 maggio) e di quest’ultimo parliamo in questa scheda.
Bisogna subito dire che di s. Fabio singolarmente non si sa quasi niente, perché il martirio è accomunato ad un gruppo di martiri e confessori i cui nomi sono: Antimo prete, Massimo levita, Fabio, Basso suoi discepoli martiri sulla Via Salaria in Sabina, Sisinnio diacono, Dioclezio e Fiorenzo martiri ad Osimo nel Piceno, Faltonio Piniano e Anicia Lucina sposi, morti di morte naturale a Roma.
Le notizie pervenuteci si leggono nella “Passio sancti Anthimi” che fu scritta fra il V e IX secolo, ritenuta dagli studiosi abbastanza leggendaria e fantasiosa; nel primo Medioevo qualche agiografo, per dare una consistenza maggiore alle poche notizie pervenute su uno o più martiri, li riuniva in un'unica ‘Passio’ dalle ingarbugliate e fantasiose vicende.
Così avvenne per sant’Antimo e i suoi compagni, fra i quali vi è quel san Massimo levita, destinato a diventare compatrono con san Vittorino, della diocesi dell’Aquila.
Alla fine del III secolo era proconsole dell’Asia Minore Faltonio Piniano, sposato con Anicia Lucina, imparentata con l’imperatore Gallieno.
Consigliere di Piniano era un certo Cheremone che odiava i cristiani e aveva giurato di distruggerli con la loro religione. Per le sue insinuazioni, il presbitero Antimo e i suoi discepoli furono gettati in carcere, ma Cheremone non poté godere a lungo della persecuzione in atto, perché un giorno attraversando sul cocchio proconsolare le vie di Nicomedia, cadde rovinosamente e ancor più miseramente morì.
Ciò terrorizzò Piniano, formalmente responsabile della persecuzione e la sua angoscia gli provocò una grave malattia dalla quale i medici non riuscivano a guarirlo.
Lucina la moglie, che già da tempo si sentiva attratta dalla nuova religione, pensò di consultare Antimo, lo fece liberare con i discepoli e condurre al palazzo consolare; qui gli promise la libertà e cospicue ricompense se avesse guarito il marito.
Antonio rispose che una sola cosa poteva guarirlo, che si fosse fatto cristiano. Piniano non solo accettò ma si dimostrò un catecumeno attento e sincero, cosicché Antimo riuscì ad ottenere da Dio la sua guarigione e poi lo battezzò con tutta la famiglia.
Verso il 303 Faltonio Piniano ritornò a Roma, richiamato dall’imperatore Diocleziano (243-313), ma prima di partire riuscì a convincere Antimo e i suoi discepoli a seguirlo nella capitale dell’impero; naturalmente il suo arrivo non passò inosservato e ben presto si diffuse la notizia che aveva condotto con sé dei cristiani.
Per sottrarli alle possibili persecuzioni, Piniano decise di allontanarli da Roma, mandandoli in due vasti poderi di sua proprietà. Il diacono Sisinnio con Dioclezio e Fiorenzo, andarono ad Osimo nel Piceno, mentre Antimo, Massimo, Basso e Fabio furono inviati presso la città sabina di Curi.
Naturalmente non rimasero ad oziare, uscirono dal loro rifugio e ambedue i gruppi presero ad evangelizzare la regione; Antimo sempre seguito dai suoi discepoli, operò anche un miracolo, liberando dal demonio un sacerdote pagano; l’invasato distruggeva tutto ciò che gli capitava a tiro, ma si calmò solo al richiamo di Antimo che gli era andato incontro senza retrocedere.
L’ossesso una volta guarito, per dimostrare la sua riconoscenza e la nuova fede che aveva abbracciato, atterrò l’idolo del dio Silvano, incendiando anche il bosco a lui sacro. I pagani furiosi denunciarono il grave oltraggio al proconsole Prisco, incolpando di ciò il prete Antimo, il quale fu arrestato con i discepoli.
Seguirono interrogatori, torture, prodigi, che in questa scheda omettiamo, rimandando alla scheda propria di S. Antimo prete.
S. Antimo fu decapitato l’11 maggio 305 e sepolto nell’Oratorio di Curi in cui era solito pregare; la stessa sorte toccò al suo erede nello zelo apostolico Massimo, decapitato il 19-20 ottobre 305 e sepolto nel suo Oratorio al XXX miglio della Salaria; Basso che intratteneva i fedeli incoraggiandoli, fu arrestato e avendo rifiutato di sacrificare a Bacco e Cerere, fu massacrato dal popolo nel mercato di Forum Novum; invece Fabio fu consegnato al console che dopo averlo fatto torturare, lo condannò alla decapitazione lungo la stessa via Salaria.
Sisinnio, Dioclezio e Fiorenzo, sempre nel 305, non avendo voluto sacrificare agli dei, furono decapitati dal popolo. Infine Piniano e Lucina morirono naturalmente nella loro casa di Roma.
S. Antimo, s. Basso e s. Fabio sono ricordati l’11 maggio, gli altri in giorni diversi.
Autore: Antonio Borrelli
VII secolo
Sono onorati l’11 maggio. Bertilla era di stirpe nobile ed aveva sposato un certo Gualberto che era forse il domesticus del re Clotario (626-27) di cui parla la Cronaca di Fredegario. Da essi nacquero le ss. Aldegonda e Valtrude.
Autore: Albert D’Haenens Fonte: Enciclopedia dei Santi
m. Avallon (Borgogna, Francia), 11 maggio 760
Nacque da una delle più illustri famiglie della Borgogna. I suoi genitori furono i principali fautori della sua educazione cristiana, e quando morirono, il santo dovette iniziare ad occuparsi delle terre ereditate che seppe amministrare con prudenza e saggezza. Giunto all'età di sposarsi, Gengolfo prese in sposa una ragazza appartenente a un nobile casato. Questa, però, dimostrò presto di non possedere tutte le virtù del suo santo marito. Essendo uno dei principali signori di Borgogna Gengolfo prese parte come cavaliere alle numerose guerre intraprese da Pipino il Breve. In seguito preferì dedicarsi alla predicazione del Vangelo in Frisia, fatto che giustifica la devozione nei suoi confronti presente ancora al giorno d'oggi in Olanda. Su di lui, infatti, si narrano episodi straordinari. Rientrato a casa, Gengolfo scoprì di essere stato tradito dalla moglie. Decise di non sottoporre a giudizio la donna ma la sistemò in altro luogo provvedendo al suo sotentamneto e si ritirò nel suo castello presso Avallon, vicino a Vézelay. Qui venne raggiunto da un assassino mandato dalla moglie. Morì l'11 maggio 760. (Avvenire)
Patronato: Uomini mal maritati, Varennes (Francia), Avallon (Francia), Saint-Gingolph (Francia)
Emblema: Palma, Cavallo
Martirologio Romano: A Varennes nel territorio di Langres in Francia, san Gengolfo.
San Gengolfo nacque da una delle più illustri famiglie della Borgogna. I suoi genitori furono i principali fautori della sua educazione cristiana, consistendo la loro ricchezza non solo in beni terreni ma anche in preziose virtù. Passò la sua infanzia e la sua prima giovinezza in una perfetta innocenza, tutto assorto negli studi di lettere e nell’esercizio della pietà cristiana. La sua giovinezza fu inoltre caratterizzata dalla sua grande onestà e dal suo estremo pudore: Gengolfo era infatti solito fuggire la compagnia dei libertini e tutti quegli oggetti che avrebbero potuto ledere il fiore della sua castità. Egli preferiva piuttosto visitare le chiese, apprendere la Parola di Dio, meditarla nel segreto del suo cuore e dedicarsi alla lettura di libri spirituali che gli potessero essere di aiuto nel far proprio l’insegnamento evangelico. Era praticamente impossibile udire dalla sua bocca parole indiscrete od inutili. Grazie alla sua innata modestia, il suo viso lasciava trapelare la profonda devozione che lo animava.
Morti i suoi genitori, il santo dovette iniziare ad occuparsi delle terre ereditate che, ben lontano da spese superflue di alcun genere, seppe amministrare con prudenza e saggezza, rivelando così capacità inaudite nell’arte dell’economia e nel governo domestico. Le chiese ed i poveri furono poste assolutamente al centro delle sue attenzioni. Egli pensava infatti che questo potesse essere il modo migliore per testimoniare il senso di riconoscenza che provava verso Dio per tutto ciò che gli aveva donato.
Giunto all’età di sposarsi, Gengolfo prese in sposa una ragazza appartenente anch’ella ad un casato nobile e ricco. Questa donna, però, dimostrò presto di non possedere tutte le virtù del suo santo marito, rivelandosi vanitosa, mondana e contraddistinta da una certa leggerezza di costumi. Ma Dio permette queste disuguaglianze proprio per mettere alla prova i suoi servi più fedeli e purificarli con la croce delle afflizioni.
Essendo uno dei principali signori di Borgogna, noto per la sua bravura, Gengolfo prese parte come cavaliere alle numerose guerre intraprese da Pipino il Breve, maggiordomo di palazzo dei re merovingi ed effettivo detentore del potere regio. In seguito a questo accostamento al potere secolare, il santo preferì dedicarsi alla predicazione del Vangelo in Frisia, fatto che giustifica la devozione nei suoi confronti presente ancora al giorno d’oggi in Olanda. Pipino nutriva una singolare stima nei suoi confronti, in particolare per la sua destrezza nell’arte delle armi e per la sua santità. Proprio quest’ultima, la fama di santità di Gengolfo, stava sempre più accrescendo grazie a dei prodigi da lui operati. Una leggenda narra che Pipino lasciasse dormire il santo cavaliere nella propria tenda ed una volta, quando furono tutti e due a letto, si riaccese miracolosamente per ben tre volte la torcia adibita all’illuminazione dell’interno della tenda. Ciò bastò per convincere Pipino che fosse veramente un santo colui che riposava accanto a lui. Ma su Gengolfo si narrano degli episodi ancora più straordinari. Un esempio eloquente si verificò durante il suo viaggio di ritorno in Borgogna, per riposarsi dalle fatiche della guerra. Passando da Bassigny, sostò in un posto delizioso per rifocillarsi. Qui vi era una splendida fontana, dall’acqua fresca e buona, che decise di acquistare pagando il proprietario. Ma Dio volle punire l’avarizia di quest’ultimo, che si era illuso di ottenere in tal modo sia la fontana che il ricavato della vendita, evidenziando l’evidente impossibilità materiale per il viandante, Gengolfo, di trasportare con se la fontana acquistata. Ma il santo, giunto a Varennes, sua abituale residenza, piantò il suo bastone nella terra facendo sgorgare una magnifica fontana, proprio quella che egli aveva acquistato a Bassigny, che infatti istantaneamente scomparve da tale luogo.
Ma è ciò che lo aspettava al suo ritorno a casa che porta a paragonare Gengolfo agli eroici modelli biblici di pazienza, quali Giobbe e Tobia. Sua moglie, infatti, così diversa da lui sotto parecchi punti di vista, durante la sua assenza era stata infedele al loro legame matrimoniale. Il santo piombò in un vivo dolore ed in una grande perplessità, trovando ugualmente penoso e funesto sia il punire il crimine che il lasciarlo impunito. Trovandosi ormai costantemente in questo imbarazzo, un giorno, quando si trovò a passeggiare solo con la consorte, le disse: “E’ ormai parecchio che corrono delle dicerie contro il tuo onore. Io non ho mai voluto parlartene senza sapere se fossero fondate, ma oggi non posso più stare ad osservare in silenzio. Ti ricordo dunque che una donna non ha niente di più caro al mondo che il suo onore e deve fare tutto il possibile per conservarlo o per recuperarlo”. Ma la moglie gli rispose miserabilmente: “Non vi è niente di più ingiusto delle dicerie che circolano su di me”. Ma il santo la sfidò per verificare la sua innocenza: “Ecco qui una fontana con un’acqua limpida che non è né calda né fredda. Infilavi il tuo braccio: se non proverai alcun male sarai innocente ai miei occhi”. Ma ella, considerando tale prova un frutto della semplicità del marito, non esitò ad eseguire il suo ordine. Ma l’acqua, che si era nel frattempo surriscaldata, le ustionò la pelle e lei non osò più alzare gli occhi verso il marito. Quest’ultimo preferì comunque non sottoporla al severo giudizio della legge, ma preferì separarsi da lei, cosicché il protrarsi della convivenza non rischiasse per lui di trasformarsi in un’indiretta accettazione dell’adulterio di cui era vittima. Provveduto dunque alla sistemazione della moglie ed al suo sostentamento, Gengolfo si ritirò nel suo castello presso Avallon, vicino a Vézelay, prodigandosi in opere di penitenza e carità. Non demorse comunque mai dall’intento di convertire la moglie, la quale reagì per vendetta incaricando un suo amante di assassinarlo. Questi, scoperta la residenza di Gengolfo, lo sorprese nel riposo e cercò di colpirne la testa con una spada. Risvegliatosi di colpo, ricevette il colpo solamente su una coscia, ma la ferita derivatane si rivelò comunque mortale. Questo martire della giustizia e della castità ebbe giusto il tempo di ricevere gli ultimi sacramenti, prima di addormentarsi nel Signore l’11 maggio 760.
In seguito ad eventi miracolosi le sue reliquie furono traslate a Varennes ed una parte fu poi distribuita in diversi luoghi, tanto che ancora oggi il suo culto è vivo in Francia, in Germania, nei Paesi Bassi ed in Svizzera. A quest’ultimo paese è legata una particolare tradizione, che vuole che San Gengolfo abbia trascorso un periodo della sua vita nella attuale cittadina di Saint-Gingolph, divisa dalla frontiera franco-svizzera, sulla sponda meridionale del lago di Ginevra, dedicandosi come un autentico anacoreta alla contemplazione, alla preghiera ed alla penitenza. Ma proprio in tale località le leggende popolari hanno confuso questo personaggio storico con un ipotetico soldato della Legione Tebea che, fuggito dalla vicina Agaunum, avrebbe qui affrontato il martirio.
San Gengolfo è solitamente rappresentato in abiti baronali o, se armato, con una croce raffigurata sul suo scudo ed impugnante la spada con cui fa sgorgare una sorgente dal terreno. Non mancano comunque anche sue raffigurazioni equestri. E’ venerato come patrono, oltre che delle città in cui ha vissuto o che ne custodiscono le reliquie, in particolare degli uomini mal maritati. Il nome del santo ha assunto parecchie varianti, a seconda delle lingue e dei dialetti parlati nelle località in cui è venerato: Gengoul, Gangulfe, Gengou, Gengoux, Gigou, Genf, Gandoul, Gingolph, Gangulfus e, in Germania, Golf.
ORAZIONE
Ti supplichiamo,
Dio Onnipotente,
fa’ che per l’intercessione di San Gengolfo, tuo martire,
siamo liberati da tutte le avversità corporali
e che la nostra anima sia purificata da ogni pensiero maligno.
Per Cristo nostro Signore.
Amen.
Autore: Fabio Arduino
Una Santa quella di oggi, sposa a un Santo, Sant'Adalbaldo e madre di ben quattro figli anch'essi tutti venerati come santi: Adalsinda, Clotsinda, Mauronto ed Eusebia! Scontato quanto dice il suo biografo: essi conducevano una vita “Devota e lieta”!
612 – 678
Martirologio Romano: Nel monastero di Marchiennes vicino a Cambrai in Austrasia, nel territorio dell’odierna Francia, santa Rictrude, badessa, che, dopo la morte violenta di suo marito Adalbaldo, su consiglio di sant’Amando prese il sacro velo e con grande rettitudine governò le vergini consacrate.
Santa Rictrude nacque in Guascogna nel 612 da una famiglia ricca quanto devota. In giovane età ebbe come direttore spirituale Sant'Amando di Maastricht, esiliato proprio in quella regione dal re Dagoberto, del quale aveva condannato la condotta licenziosa.
Amando visse così in quel periodo ospite della famiglia di Rictrude e da questo luogo il santo franco intraprese l'opera di evangelizzazione della Guascogna. Un altro nobile franco, Sant'Adabaldo, giunse in seguito in quella casa, guadagnandosi il favore del re Clodoveo II, e nonostante l'opposizione dei nobili guasconi chiese ed ottenne Rictrude in sposa. I due andarono a vivere insieme presso Ostrevant nelle Fiandre ed ebbero ben quattro figli anch'essi tutti venerati come santi: Adalsinda, Clotsinda, Mauronto ed Eusebia.
Amando era solito far loro visita: essi conducevano una vita “Devota e lieta”, come asserisce il suo biografo. Tuttavia questa felice esistenza non era destinata a durare e nel 652 Adabaldo venne ucciso dai guasconi, presumibilmente ancora ostili al matrimonio celebrato con Rictrude ormai da sedici anni. Meritò così di essere onorato come martire, anche se la sua tradizionale commemorazione al 2 febbraio ad onor del vero non è più riportata dal Martyrologium Romanum.
A causa della tragica scomparsa del marito, Rictrude espresse il desiderio di farsi monaca, ma Amando le consigliò di attendere ancora, almeno finché suo figlio Mauronto fosse diventato abbastanza grande per essere introdotto nella vita di corte.
Clodoveo II serbava però ben altri progetti per lei, desiderando che andasse sposa ad uno dei suoi protetti. Amando riuscì però fortunatamente a persuaderlo a lasciarla libera ed ella poté così felicemente recarsi a Marchiennes, ove aveva fondato un monastero maschile ed uno femminile. Ne fu badessa per molti anni e le sue due figlie maggiori, Adalsinda e Clotsinda, si unirono a lei. Più tardi anche il figlio Mauronto. La prima figlia morì giovane, mentre invece la seconda succedette alla madre come badessa quando costei morì nel 678. L'ultima figlia, Eusebia, visse con la nonna.
Questa famiglia, ascesa al gran completo alla gloria degli altari, non è che uno dei molti casi simili verificatisi in duemila anni di cristianesimo. Santa Rictrude è commemorata dal Martyrologium Romanum al 12 maggio.
Autore: Fabio Arduino
Si celebra oggi una sposa martire per la pietà cristiana verso un altro martire.
Siria, III secolo
Martirologio Romano: In Siria, santi Vittore e Corona, martiri, che subirono insieme il martirio.
Sono stati molto complessi gli studi agiografici che riguardano i due santi martiri Corona e Vittore; tante sono le celebrazioni dei vari antichi calendari e Martirologi, latini, greci e copti.
In questa breve scheda, si tiene conto solo della celebrazione al 14 maggio, riportata dal “Martyrologium Romanum”, testo ufficiale della Chiesa Cattolica.
L’incertezza delle notizie riguarda anche la città del martirio, la ‘Passio’ greca dice che fu Damasco, quella copta dice Antiochia, le fonti latine dicono Alessandria d’Egitto e perfino in Sicilia; anche la data è controversa, secondo le fonti greche, al tempo dell’imperatore Antonino (138-161), secondo quelle copte al tempo di Diocleziano (243-313).
Il ‘Martirologio Romano’ indica il III secolo, quale periodo della loro esistenza e martirio, avvenuto in Siria, senza specificare il luogo esatto.
Vittore era un soldato cristiano proveniente dalla Cilicia, il quale durante la persecuzione di Diocleziano, fu sottoposto a crudeli tormenti da un ‘dux’ o ‘comes’ di nome Sebastiano.
Mentre egli soffriva per le torture inflittagli, prese a confortarlo ed incoraggiarlo, la giovane sposa di un suo compagno d’armi, anch’essa cristiana, il cui nome era Corona (equivalente latino del nome Stefania) che non aveva ancora sedici anni.
Visto questo, i pagani l’arrestarono e dopo breve interrogatorio, appesero la giovane a due alberi di palma piegati, che una volta slegati la squartarono.
Il giovane soldato Vittore fu invece decapitato; il martirio dei due giovani cristiani e particolarmente la figura di Vittore, fu raffigurata da molti e celebri pittori in opere esposte in chiese e palazzi pubblici rinascimentali.
Autore: Antonio Borrelli
Ecco un grande santo sposo fattosi santo nell'ordinarietà del matrimonio e non "malgrado"... Addirittura santo patrono di Madrid! E ovviamente sua moglie è anch'essa beata (a conferma che la santità è contagiosa)!
Madrid (Spagna), ca. 1080 - 15 maggio 1130
Nacque a Madrid intorno al 1070 e lasciò giovanissimo la casa paterna per essere impiegato come contadino. Grazie al suo impegno i campi, che fino allora rendevano poco, diedero molto frutto. Nonostante lavorasse duramente la terra, partecipava ogni giorno all'Eucaristia e dedicava molto spazio alla preghiera, tanto che alcuni colleghi invidiosi lo accusarono, peraltro ingiustamente, di togliere ore al lavoro. Quando Madrid fu conquistata dagli Almoravidi si rifugiò a Torrelaguna dove sposò la giovane Maria. Un matrimonio che fu sempre contraddistinto dalla grande attenzione verso i più poveri, con cui condividevano il poco che possedevano. Nessuno si allontanava da Isidoro senza aver ricevuto qualcosa. Morì il 15 maggio 1130. Venne canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa Gregorio XV. Le sue spoglie sono conservate nella chiesa madrilena di Sant'Andrea. (Avvenire)
Patronato: Madrid
Etimologia: Isidoro = dono di Iside, dal greco
Martirologio Romano: A Madrid nella Castiglia in Spagna, sant’Isidoro, contadino, che insieme con sua moglie la beata Maria de la Cabeza attese con impegno alle fatiche dei campi, cogliendo con pazienza la ricompensa celeste più ancora dei frutti terreni, e fu vero modello di contadino cristiano.
Forse è stato messo poco in risalto l’ambizioso traguardo di “santità di coppia” che due semplici contadini di Madrid sono riusciti a raggiungere nel XII secolo: probabilmente perché la pratica devozionale ha fatto prevalere, nel marito, l’aspetto prodigioso e miracolistico, e la popolarità che lui si è guadagnato praticamente in tutto il mondo come patrono dei raccolti e dei contadini ha finito per oscurare un po’ quella di lei, che pure si è fatta santa condividendo gli stessi ideali di generosità e laboriosità del marito, raggiungendo la perfezione tra casseruole, bucati e lavori nei campi. Parliamo di San Isidoro di Madrid e della beata Maria Toribia (ne parleremo per la sua festa a settembre), la cui festa si celebra nel mese di maggio (il 10 o il 15, dipende dai calendari), anche se lui, per il fatto di essere patrono dei campi, viene invocato e festeggiato praticamente in ogni stagione dell’anno, al tempo della semina come al tempo dei raccolti. Isidoro nasce a Madrid intorno al 1070 da una poverissima famiglia di contadini, contadino egli stesso tutta la vita, per necessità. Non sa né leggere né scrivere, ma sa parlare con Dio. Anzi, a Dio dedica molto tempo, sacrificando il riposo, ma non il lavoro, al quale si dedica appassionatamente. E quando l’urgenza di parlare con Dio arriva anche durante il lavoro, sono gli angeli a venirgli in aiuto e a guidare l’aratro al posto suo: un modo poetico e significativo per dire come Isidoro abbia imparato a dare a Dio il primo posto, senza venir mai meno ai suoi doveri terreni. Per i colleghi invidiosi è facile così accusarlo di “assenteismo”, ma è il padrone stesso a verificare che Isidoro ha tutte le carte in regola, con Dio e con gli uomini. L’invidia, che è davvero vecchia quanto il mondo, gli procura anche un’accusa di malversazione e di furto ai danni dell’azienda, perché ha il “brutto vizio” di aiutare con i generosità i poveri, attingendo abbondantemente da un sacco, il cui livello tuttavia non si abbassa mai. E pensare che la generosità di Isidoro non si limita alle persone, ma si estende anche agli animali della campagna, ai quali d’inverno non fa mancare il necessario sostentamento. In questo continuo esercizio di carità e preghiera è seguito passo passo dalla moglie Maria, che una certa agiografia ha dipinto dapprima avara e poi “conquistata” dall’esempio del marito. Certo è comunque che sulla strada della perfezione avanzano entrambi, sostenendosi a vicenda e aiutandosi anche a sopportare i dolori della vita, come quello cocente della morte in tenerissima età del loro unico figlio. Isidoro muore nel 1130 e lo seppelliscono senza particolari onori nel cimitero di Sant’Andrea, ma anche da quel campo egli continua a “fare la carità”, dispensando grazie e favori a chi lo invoca, al punto che quarant’anni dopo devono a furor di popolo esumare il suo corpo incorrotto e portarlo in chiesa. A canonizzarlo, però, nessuno ci pensa. Ci vuole un grosso miracolo, cinque secoli dopo, in favore del re Filippo II a sbloccare la situazione. E il 25 maggio 1622 papa Gregorio XV gli concede la gloria degli altari insieme a quattro “grossi” santi (Filippo Neri, Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola e Francesco Saverio) in mezzo ai quali, qui in terra, l’illetterato contadino si sarebbe sentito un po’ a disagio. E da allora, come recita l’enciclopedia dei santi, diventa il “patrono degli affittuari agricoli, dei birocciai, di Centallo e di Verzuolo”.
Autore: Gianpiero Pettiti
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Nasce in una Spagna che per buona parte è in mano araba, e nell’infanzia sente raccontare le gesta di tre grandi condottieri. Ecco Alfonso VI il Bravo, re di Castiglia e di León, che ha conquistato tante città. E poi Yusuf ibn Tashufin, capo della dinastia musulmana degli Almorávidi, che ha sconfitto Alfonso nel 1081 e ha incorporato i domìni arabi di Spagna nel suo impero nordafricano. Infine, c’è il condottiero dei condottieri, l’eroe nazionale Ruiz Díaz de Bivar detto il Cid, el que en buena çinxo espada (colui che in buon’ora cinse la spada).
Isidoro non ha spada né cavallo. Orfano del padre fin da piccolo, va poi a lavorare la terra sotto padrone, nelle campagne intorno a Madrid. A causa della guerra, cerca rifugio e lavoro più verso nord, a Torrelaguna. E vi trova anche moglie: Maria Toribia, contadina come lui.
Isidoro è un credente schietto. Partecipa ogni giorno alla Messa mattutina, e durante la giornata lo si vede spesso appartato in preghiera. Questo gli tira addosso le accuse di altri salariati: ha poca voglia di lavorare, perde tempo, sfrutta le nostre fatiche. È già accaduto agli inizi, nelle campagne di Madrid; poi continua a Torrelaguna, e più tardi a Madrid ancora, quando lui vi ritorna alla fine dei combattimenti. A queste accuse Isidoro non si ribella, ma neppure si piega. Il padrone è preoccupato, non si fida di lui? E allora sorvegli, controlli, verifichi i risultati del suo lavoro... E questo fa appunto il padrone, scoprendo che Isidoro ha sì perso tempo inginocchiandosi ogni tanto a pregare, ma che alla sera aveva mietuto la stessa quantità di grano degli altri. E così al tempo dell’aratura: tanta orazione pure lì, ma a fine giornata tutta la sua parte di terra era dissodata.
Juan de Vargas si chiama questo proprietario, che dapprima tiene d’occhio Isidoro con diffidenza; ma alla fine, toccata con mano la sua onestà, arriva a dire che quei risultati non si spiegano solo con la capacità di lavoro; ci sono anche degli interventi soprannaturali: avvengono miracoli, insomma, sulle sue terre.
E altri diffondono via via la voce: in tempo di mietitura, il grano raccolto da Isidoro veniva prodigiosamente moltiplicato. Durante l’aratura, mentre lui pregava in ginocchio, gli angeli lavoravano al posto suo con l’aratro e con i buoi. Così il bracciante malvisto diventa l’uomo di fiducia del padrone, porta a casa più soldi e li divide tra i poveri. Né lui né sua moglie cambiano vita: è intorno a loro e grazie a loro che la povera gente incomincia a vivere un po’meglio. Nel tempo delle epiche gesta di tanti conquistatori, le imprese di Isidoro sono queste, fino alla morte.
A volte certi suoi atti fanno pensare a Francesco d’Assisi. Per esempio, quando d’inverno si preoccupa per gli uccelli affamati: e per loro, andando al mulino con un sacco di grano, ne sparge i chicchi a grandi manciate sulla neve; ma quando arriva al mulino, il sacco è di nuovo prodigiosamente pieno.
Lavorare, pregare, donare: le sue gesta sono tutte qui, e dopo la morte lo rendono famoso come Alfonso il Bravo e come il Cid. Nel 1170 il suo corpo viene deposto nella chiesa madrilena di Sant’Andrea, e col tempo la sua fama si divulga in Spagna, nelle colonie spagnole d’America e in alcune regioni del Nord europa. Nel 1622, Isidoro l’Agricoltore viene canonizzato da Gregorio XV (con Ignazio di Loyola e Francesco Saverio). Nel 1697 papa Innocenzo XII proclama beata sua moglie Maria Toribia. Le reliquie di sant’Isidoro si trovano ora nella cattedrale di Madrid.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
† Bingen (Germania), IX secolo
Nell’elenco degli innumerevoli Santi venerati dalla Chiesa Cattolica, si trova molto spesso, che all’origine della santità di vari personaggi, vi è l’educazione, la formazione cristiana, la fede in Cristo, trasmesse dalle loro madri, che in vari casi sono venerate anch’esse come sante o beate; ad esempio s. Monica e s. Agostino, s. Elena e s. Costantino, serva di Dio Mamma Margherita e s. Giovanni Bosco, ecc.
E a queste sante figure di donne, appartiene la beata Berta madre di s. Ruperto di Bingen; la ‘Vita’ dei due santi fu compilata per onorarne la memoria, dalla badessa del monastero di Bingen (diocesi di Magonza) dov’erano le reliquie, santa Ildegarda (secolo XII), la quale apprese le notizie tramite le sue note visioni mistiche.
Berta vissuta nell’VIII secolo, era figlia del duca Loreno, principe tedesco di una regione non precisata; fu destinata in sposa al principe pagano Robolao (o Roboldo), al tempo di Carlo Magno (742-814), ricevendo una cospicua dote consistente in vasti territori lungo la regione del Reno.
Essendo cristiana praticante, cercò di convertire il marito ma senza riuscirci; quando questi, ancora giovane morì combattendo, Berta affrontò la vedovanza con coraggio e si ritirò con il figlioletto di tre anni Ruperto, nella sua proprietà di Bingen (Germania), dedicandosi con molto zelo alla sua educazione cristiana.
Ruperto crebbe fedele agli insegnamenti materni e con il consiglio del prete Wigberto suo tutore e direttore spirituale, fu avviato alle pratiche devozionali e alle opere di beneficenza.
La madre Berta lo associò, già quando aveva 12 anni, alla fondazione di un monastero nei paraggi di Bingen e di un ospizio per i poveri; l’opera di misericordia verso i più deboli continuò in una fruttifera collaborazione fra madre e figlio e fu troncata solo dall’immatura morte a 21 anni di Ruperto.
Berta ne provò grande dolore, mitigato dalla consolazione di vedere la venerazione di cui egli fu subito oggetto presso la popolazione.
Dopo il lutto, Berta prese a vivere una vita di preghiera e penitenza, dando i suoi beni e ricchezze per il sostentamento dei monaci, che vivevano nel monastero dov’era il sepolcro di Ruperto.
Sopravvisse al figlio circa 25 anni, la morte la colse verso la metà del secolo IX; fu sepolta presso la tomba del figlio che era diventata meta di pellegrinaggi, tanto che l’intera zona prese il nome di Rupesberg.
Durante le invasioni normanne del sec. X, le due tombe furono violate, ma il loro culto si conservò. Berta fin dai primi tempi fu considerata ‘beata’ e la sua festa, insieme a s. Ruperto si celebra il 15 maggio.
Autore: Antonio Borrelli
+ Gerusalemme, 555 circa
Martirologio Romano: In Etiopia, san Caleb o Elésbaan, re, che per vendicare l’uccisione dei martiri di Nagran affrontò vittoriosamente in battaglia i nemici di Cristo; dopo avere inviato, al tempo dell’imperatore Giustino, il suo diadema regale a Gerusalemme, si ritiene che, come era stato nei suoi desideri, si sia riturato a vita monastica, prima di fare ritorno al Signore.
Numerosi sono stati in ormai due millenni di cristianesimo i casi di sovrani e talvolta intere famiglie reali ascese alle più alte vette della santità, ma in tale settore i meno famosi sono indubbiamente i molti monarchi etiopi dai nomi spesso impronunciabili venerati come santi dalla locale Chiesa copta. Uno di essi, Sant’Elsebaan, vissuto nel VI secolo, è però commemorato anche dal Martyrologium Romanum che pone la sua festa al 15 maggio.
La sua vicenda è strettamente legata alla vicenda dell’eccidio dei martiri di Nagran, città posta nella penisola arabica nel territorio dell’odierno Yemen. Tale zona era stata conquistata dagli etiopi all’inizio del VI secolo, che ne avevano curato anche la diffusione del cristianesimo, ma un giorno il giudeo Dunaan innescò una rivolta che portò all’uccisione del principe Areta, di sua moglie e delle quattro figlie, nonché di altre centinaia di cristiani.
Il patriarca di Alessandria d’Egitto scrisse allora ai vescovi orientali raccomandando loro di venerare come santi martiri le vittime, che anche dai cattolici sono oggi festeggiate al 24 ottobre, e con l’aiuto dell’allora imperatore Giustino spinse il re axumita Elsebaan a vendicare l’eccidio. Questi non si tirò assolutamente indietro, riconquistò lo Yemen, uccise Dunaan e si impossessò anche della sua principale roccaforte. Lo storico Alban Butler sostenette che il re “dopo aver sconfitto il tiranno grazie alla benedizione divina, gestì la sua vittoria con mirabile clemenza e moderazione”, ma come invece fu poi messo in luce tale ricostruzione dei fatti non corrispondeva affatto alla realtà, poiché sia in battaglia che nei successivi rapporti avuti con gli ebrei Elsebaan dimostrò sempre grande ferocia e crudeltà.
La tradizione vuole comunque che al termine della sua vita il monarca abbia preferito abdicare in favore del figlio, donando la sua corona alla chiesa del Santo Sepolcro in Gerusalemme e trascorrendo gli ultimi tempi della sua vita quale eremita esemplare presso la città santa. Qui morì santamente verso l’anno 555.
La singolare vicenda di Areta e dei suoi compagni nel XVI secolo a giudizio del cardinale Baronio meritò di essere citata anche nel Martirologio Romano, soprassedendo al fatto che tutti costoro fossero assai probabilmente seguaci dell’eresia monofisita, forse poiché la sua conoscenza alquanto sommaria delle Chiese d’Oriente non gli fece neppure sfiorare il dubbio dell’ortodossia dottrinale della Chiesa etiope. L’inserimento nel calendario cattolico toccò così anche al re Elsebaan, che divenne l’unico tra i numerosi santi sovrani etiopi ad essere venerato dalla Chiesa universale.
Autore: Fabio Arduino
Ecco un'altra Santa, madre di un Santo e sposa di un martire!
III-IV secolo
Un ignoto agiografo scrisse nel secolo VIII una biografia di Sant’Eusebio, primo vescovo di Vercelli, originario però della Sardegna. Tale scritto sostiene che la madre del santo si chiamasse Restituta.
Nata anch’essa in Sardegna nella seconda metà del III secolo, dopo la morte del marito, ucciso in odio alla fede cristiana, (anche lui martire quindi!) decise di lasciare l’isola per trasferirsi a Roma, portando dunque con sé i due figlioletti, che vennero battezzati dal papa Sant’Eusebio ed appunto da lui ricevettero i nomi di Eusebio ed Eusebia. Il primo fu dunque il primo a ricoprire in Piemonte la carica episcopale, mentre la sorella gestì il ramo femminile del celebre cenobio vercellese.
Restituta fece in seguito ritorno in Sardegna e presso Cagliari le toccò subire la medesima sorte del marito, cioè il martirio, nella prima metà del IV secolo. Nel 1607 vennero eseguiti scavi in quella città, che confermarono l’esistenza di due cappelle in cui erano custodite una statua e delle reliquie di Santa Restituta. Alcuni storici fanno tuttavia risalire questi resti ad un’altra santa omonima, la martire uccisa presso Cartagine sotto il proconsole Antonino le cui reliquie sarebbero state portate in Sardegna da alcuni profughi, sfuggiti alle devastazioni operate dai vandali.
La festa delle due sante omonime è posta comunque alla stessa data: 17 maggio.
Autore: Fabio Arduino
Rolando (o Orlando) nacque in Italia, forse Imola o Sutri, da Milone, conte d’Aglante e Berta, sorella di Carlo Magno. Ricevette il battesimo delle armi dallo zio e fu educato a Laon dal vescovo Turpino. Venne nominato conte d’Aglante e Blaye, governatore della Marca di Bretagna, “conte Palatino” (da cui il termine “paladino”) al servizio della Francia e difensore della religione contro gli infedeli. Sposò Alda la Bella, sorella di Oliviero, paladino e compagno fraterno di Rolando. Questi erano figli di Ranieri, governatore di Sutri. Durante il vittorioso rientro in Patria i dodici paladini ed i soldati della retroguardia furono sterminati a Roncisvalle. Oliviero pregò Rolando di suonare l’Olifante, il grande corno d’avorio che avrebbe richiamato le truppe ma egli nn lo suonò se non all’ultimo momento. Dopo aver tentato di spezzare la spada Durlindana, gettò il suo guanto verso il cielo che fu raccolto dall’arcangelo Gabriele, segno che non si arrendeva alle schiere nemiche ma a Dio. Quando Carlo Magno arrivò con l’esercito ormai i dodici paladini e i soldati della retroguardia erano stati tutti sterminati. Un tempo i pellegrini che si recavano a Santiago di Compostella avevano tra le tante la sosta nella chiesa di Blaye per visitare le tombe che si riteneva custodissero le spoglie di Rolando, Oliviero, Alda e del vescovo Turpino. I pellegrini sostavano anche nella gola di Roncisvalle dove i paladini avevano subito il martirio.
Informazioni relative alla data di memoria tratte da:
Probabilmente il suo diritto al trono fu dovuto al fatto che sposò Cristina Bjørnsdatter, nobile danese, e nipote del re Inge I di Svezia. Alcuni biografi lo ritengono un usurpatore dopo l'assassinio di Sverker I.
Svezia, XII sec. – Ostra Aros (Uppsala), 18 maggio 1161
Erik era figlio di Jedward (Edward) da cui il patronimico Jedvardsson e fu nominato re dai popoli dello Svealand nel 1150. Cristiano animato da grande zelo, organizzò una spedizione nella vicina Finlandia pagana, lasciandovi Enrico, vescovo della vecchia Uppsala (Gamla Uppsala) per continuarvi l'evangelizzazione. La tradizione presenta Erik IX come il fondatore del dominio svedese sulla Finlandia, che portò all'unione dei due Stati per quasi 650 anni fino al 1809. Durante una guerra che coinvolgeva i Paesi Scandinavi e la Danimarca, il 18 maggio 1161, re Erik IX «il Santo», in lotta contro il principe danese Magnus Henriksson, mentre partecipava alla Messa nella chiesa della Trinità di Ostra Aros (Uppsala di oggi), fu attaccato dai nemici. Il re volle continuare ad assistere alla celebrazione della Messa fino alla fine e solo dopo si volse contro gli assalitori. Morì per un colpo alla gola durante la battaglia. Fu sepolto nel duomo di Gamla Uppsala e il popolo cominciò da subito a venerarne le reliquie. (Avvenire)
Martirologio Romano: A Uppsala in Svezia, sant’Eric IX, re e martire, che durante il suo regno si prodigò nel governare con saggezza il popolo e nel tutelare i diritti delle donne; mandò in Finlandia il vescovo sant’Enrico per diffondervi la fede di Cristo e, infine, aggredito mentre partecipava alla celebrazione della Messa, cadde pugnalato per mano dei suoi nemici.
Nel 1526, quando il luteranesimo si stabilì in Svezia, tutte le manifestazioni in onore di sant’Erik furono soppresse, come del resto per tutte le manifestazioni, culto delle reliquie, immagini, processioni, ecc. inerenti i santi venerati fino allora dalla Svezia cattolica.
Quindi tutte le notizie che lo riguardano, compreso quelle per le reliquie, sono antecedenti a tale periodo.
Erik era figlio di Jedward (Edward) da cui il patronimico Jedvardsson (bisogna aggiungere che il nome Jedward, secondo alcuni storici, sarebbe la testimonianza dell’attività missionaria, svolta dall’Inghilterra in Svezia) e fu nominato re dai popoli dello Svealand nel 1150.
Cristiano tutto d’un pezzo e spinto da grande zelo, organizzò una crociata nella vicina Finlandia pagana, lasciandovi Enrico, vescovo della vecchia Uppsala (Gamla Uppsala) per continuare come missionario, l’evangelizzazione dei popoli finni occidentali.
La tradizione presenta Erik IX come il fondatore del dominio svedese sulla Finlandia, che ebbe un benefico risultato sull’unione dei due Stati e popoli; unione durata per quasi 650 anni e che in certo modo è continuata anche dopo il distacco nel 1809, della Finlandia dalla Svezia.
Altro Stato vicino alla Svezia e nei tempi lontani in continua lotta con la stessa Svezia, era la Danimarca, i cui principi avevano mire espansionistiche (nel secolo XI i Danesi avevano conquistato anche l’Inghilterra e la Norvegia).
E fu durante una di queste guerre che coinvolgeva i Paesi Scandinavi e la Danimarca, che il 18 maggio 1161, re Erik IX il Santo, in lotta contro il principe danese Magnus Henriksson, mentre ascoltava la Messa nella chiesa della Trinità di Ostra Aros (Uppsala di oggi), fu attaccato dai nemici.
Il re volle continuare ad assistere alla celebrazione della Messa fino alla fine e solo dopo, si volse contro gli assalitori più numerosi e forti; nella mischia che ne seguì, fu ucciso con un colpo di spada alla gola (come risulta dalle ricognizioni delle reliquie).
Fu sepolto nel Duomo di Gamla Uppsala e il popolo cominciò da subito a venerarne le reliquie, considerandolo la figura più rappresentativa del Cristianesimo in Svezia.
Trentotto anni dopo la sua morte, era citato come santo, nel famoso diario della chiesa di Vallentuna; tre anni dopo l’uccisione, il papa Alessandro III unì le quattro diocesi svedesi in una sola archidiocesi (Uppsala), nominando come primo arcivescovo il monaco cistercense Stefano del monastero di Alvastra, consacrato in Francia.
Verso il 1245 la cattedrale di Gamla Uppsala fu in gran parte distrutta da un incendio; inoltre la vecchia Uppsala si trovò a perdere d’importanza, in quanto il delta del fiume Fyris si spostò verso Ostra Aros, perdendo così il porto fluviale; per queste ragioni la sede arcivescovile fu spostata ad Ostra Aros (Uppsala di oggi) e nel 1271 si iniziò la costruzione della magnifica cattedrale, cui parteciparono maestranze francesi.
Il 24 gennaio 1273, le reliquie di s. Erik IX, poterono essere traslate nella nuova cattedrale, partendo in processione da Gamla Uppsala; ogni anno il 18 maggio, si teneva una solenne processione delle reliquie attraverso i campi, unendo i due centri di Uppsala; la tradizionale cerimonia si tenne per circa tre secoli, fino al 1526, quando subentrò in Svezia il luteranesimo.
Le reliquie hanno avuto una storia a parte nelle vicende reali svedesi e nonostante la Riforma Protestante, il culto per il santo re continuò in varie forme.
Nel Medioevo era talmente importante per gli svedesi, che ogni nuovo re pronunciava il suo giuramento, poggiando le mani sulle sue reliquie.
È considerato da secoli l’eroe e santo nazionale svedese; la città di Stoccolma porta nello stemma la sua immagine. La festa si celebra il 18 maggio e il 24 gennaio si ricorda la traslazione delle reliquie.
Autore: Antonio Borrelli
1219 – 19 maggio 1246
Martirologio Romano: A Firenze, beata Umiliana, del Terz’Ordine di San Francesco, che sopportò lodevolmente i maltrattamenti del coniuge con pazienza e mansuetudine e, rimasta vedova, si dedicò con tutta se stessa alla preghiera e alle opere di carità.
“In pace, sobria e pudica”, le parole di Cacciaguida nel XV canto del Paradiso Dantesco delineano l'ideale di donna nella Firenze del XIII secolo, dove, sul finire del 1219, nacque Umiliana de' Cerchi. Il padre Ulivieri (Vieri), originario di Acone in Val di Sieve, era molto ricco. Non abbiamo notizie sulla madre, probabilmente morì giovane e Vieri passò a seconde nozze: in tutto ebbe diciassette figli. I Cerchi, guelfi di parte bianca, erano una famiglia in vista: un fratello di Umiliana ricoprì importanti cariche pubbliche. Erano tempi di lotte infinite, anche all'interno delle mura cittadine. Il vicino di casa poteva essere un nemico e dunque ogni abitazione benestante aveva la sua torre. I guelfi erano fedeli al papa mentre i ghibellini patteggiavano per l'imperatore tedesco. In realtà più che per la politica si lottava per motivi economici: ricchi mercanti e nobili si contendevano il potere. A Firenze le lotte iniziarono con l'uccisione di Buondelmonte, il giorno di Pasqua del 1215. Proprio in quel periodo turbolento lo spirito evangelico fece nascere nuove piante all'interno della Chiesa, si pensi ai Francescani e ai Domenicani. San Francesco morì quando Umiliana aveva sette anni. La notizia suscitò scalpore anche a Firenze, che molte volte aveva visitato, e certamente arrivò agli orecchi di Umiliana.
Poco conosciamo della sua fanciullezza ma possiamo immaginarla del tutto normale. Le donne erano soggette a moltissimi limiti, sottomesse al padre o al consorte, dovevano rispettare regole sociali anche nel vestiario. Quindicenne, per obbedienza al padre, andò in sposa a Bonaguisi, un tessitore tanto ricco quanto avido e rozzo nei costumi, probabilmente anche usuraio. Vieri sistemò bene anche le altre figlie, basti citare le unioni con gli Adimari e i Donati. Il matrimonio di Umiliana fu dunque un accordo economico tra due ricche famiglie (la dote sponsale era un vero e proprio contratto), del tutto insignificanti le sue aspirazioni. La giovane sposa soffrì più di tutto per le iniquità e la cattiva condotta di vita del consorte e cercò di compensare ciò con molte opere di carità.
La Provvidenza viene sempre in aiuto ai giusti. Umiliana trovò nella sua nuova dimora una collaboratrice eccezionale: la cognata Ravenna. Fu un sostegno importante anche perché, essendo maggiore d'età, aveva il controllo della casa e insieme davano meno nell'occhio. L'unione fu perfetta. Si alzavano di buon ora e, frequentata la Santa Messa (solitamente nella vicina S. Martino), attendevano ai lavori di casa, coordinando la servitù. Si dedicavano poi alle opere di misericordia. Umiliana solitamente si alzava prima dello stabilito e, quando il silenzio avvolgeva la casa, pregava intensamente il suo Gesù. Ravenna testimoniò che Umiliana sottraeva dalla mensa tutto il cibo che poteva per distribuirlo ai poveri insieme a panni e vestiti. Per gli infermi una volta vuotò metà del proprio materasso. Insieme visitavano il Monastero domenicano di Ripoli e l'ospedale di S. Gallo. Umiliana confezionava anche i paramenti sacri per le chiese che visitava, utilizzando di nascosto le stoffe preziose che il marito le donava: somma venerazione portava per il culto divino. Per i poveri si fece anche questuante tra le ricche conoscenti e sovente lavorava di notte, lontana dagli occhi della gente. Nella carità l'unica regola è quella di Cristo, quindi non ha misura. Quando venne scoperta arrivarono ingiurie e percosse, oltre che dal marito anche dai parenti. Umiliana però conosceva bene il passo del Vangelo che chiama beati i perseguitati per causa del Signore. Incarnando perfettamente l'ideale francescano, vestì l'abito del Terz'Ordine nella Chiesa di S. Croce dalle mani di fra' Michele degli Alberti, il suo confessore.
Il matrimonio (durante il quale erano nate due figlie, una di nome Regale) durò cinque anni, fino alla morte improvvisa del marito che spirò, grazie a lei, munito dei conforti religiosi. I parenti dovevano mantenere per un anno la vedova che poi tornava nella propria famiglia. Durante quest'anno invitò alla sua mensa molti poveri. La consuetudine crudele di quei tempi prevedeva che dovessero essere lasciati anche i figli (nel caso di Umiliana fortunatamente saranno allevati da Ravenna).
Vedova a poco più di venti anni, Messer Vieri cercò di convincerla a contrarre un nuovo matrimonio. Questa volta il diniego fu risoluto: voleva entrare nel Monastero di Monticelli (fondato da S. Agnese, sorella di S. Chiara). I piani del Signore però erano differenti. La dote che le era stata restituita fu incamerata dal padre (con atto ufficiale!) e non potendo diventare monaca si rinchiuse nella stanza più alta del palazzo (all'angolo tra le attuali Via della Condotta e Via de' Cerchi) che lasciava solo per recarsi alle funzioni religiose. La fedele Gisla le fu più compagna che cameriera. Nella clausura della sua camera, con lo stretto necessario, predispose un altare per la Madonna. Trascorreva le giornate pregando e facendo penitenze, anche con cilici. Digiunava nei giorni di festa e alle vigilie, durante la Quaresima e l'Avvento (anticipandola da San Martino). In alcuni periodi rispettava anche il grande silenzio. Soffrì molto per l'impossibilità a proseguire l'attività caritatevole, anche se con i poveri mezzi che aveva continuò ad aiutare le giovani vedove in difficoltà. Donò a Dio tutta se stessa, nella castità vedovile. Viveva come una reclusa nel cuore di Firenze, in mezzo alla gente che spesso andava a visitarla (comprese le figlie). La sua stanza divenne una sorta di centro spirituale; tra l'altro ogni Giovedì Santo faceva la lavanda dei piedi alle consorelle terziarie. La fede, la sua più importante ricchezza, l'aveva sempre sostenuta nelle difficoltà e Cristo la ricompensò confortandola ogni giorno. Non mancarono le vessazioni diaboliche e le prove spirituali, ma anche le visioni mistiche.
Si ammalò, ma tacque per non arrecare disturbo: unì le sofferenze a quelle di Cristo in Croce. Il giorno della sua ultima Pasqua terrena, al suono delle campane, andò in estasi. Spirò, assistita solo dalla serva fedele, all'alba del 19 maggio 1246. Era di sabato, giorno dedicato a Maria e aveva ventisette anni. I funerali furono un trionfo vista la fama di santità che già la circondava. Le furono fasciati i piedi per evitare gli eccessi del popolo. Aveva espresso questo desiderio per quel senso di pudore che le era stato sempre caro. Il popolo l'acclamò santa e spontaneamente si recava davanti alla tomba per pregare. Fu sepolta nella prediletta chiesa di S. Croce. Dapprima fu inumata in terra, poi dietro una parete sotto la scala del pulpito, fino a quando il fratello Arrigo (che dietro suo esempio si fece francescano) predispose una cappella nel chiostro. Oggi le sue reliquie sono venerate in una cappella del transetto, in una artistica urna. L'umile beata riposa nella basilica che il mondo intero conosce per le sue opere d'arte e perché vi sono sepolti alcuni grandi d'Italia.
La sua vita fu scritta in latino da fra Vito da Cortona (del convento delle Celle) e dal confessore fra' Michele, che entrambi l'avevano conosciuta. Ci fu una inconsueta attenzione nel raccogliere notizie: scrupolosamente sono citati trentaquattro testimoni tra cui tre cognate, una nonna e tre domestiche. Anche i miracoli (ben quarantasette), che si verificarono nei tre anni successivi alla morte, furono registrati da Fra' Ippolito, dello stesso convento. Il suo modello era da contrapporre al diffondersi dei movimenti eretici. La biografia fu compendiata trecento anni dopo da Raffaello Volterrano e dai Bollandisti. Esempio di umile e grande donna, di figlia, di moglie e di madre, in lei risplendono le virtù dell'umiltà, della carità e dell'obbedienza. Le sue maggiori devote furono le donne in difficoltà. Il culto fu approvato da papa Innocenzo XII il 24 luglio 1694.
In Acone oggi una villa occupa il sito dell'antico castello dei Cerchi, visitato dalla Beata. In una cappella è collocata una tela che raffigura la Madonna e Gesù Bambino che appaiono ad Umiliana. Questa tela è attribuita al Guercino; Umiliana è stata ritratta anche da Giotto.
Autore: Daniele Bolognini
Non si è certi che fosse sposata, ma negli Atti degli Apostoli si dice che tutti i suoi familiari chiesero di essere battezzati. Prima discepola di Paolo, Lidia ospitò a casa sua il santo e i suoi compagni per tutto il tempo della missione e che nella casa di Lidia nacque così la prima Chiesa fondata in Europa da Paolo di Tarso. Gli indizi per pensare che fosse sposata e che la casa fosse sua sono veramente tanti! e poi mi fa piacere pensare che la Chiesa sia nata nelle famiglie!
sec. I
Vissuta nel primo secolo, non si ha la certezza se Lidia fosse il suo nome o indicasse piuttosto le sue origini. Nacque infatti a Tiatira, città della Lidia, regione dell'Asia minore. Abitò a Filippi, in Macedonia, e non si sa se fosse nubile o maritata. Commerciava la costosa porpora e aveva quindi una posizione sociale ed economica importante. Gli affari terreni non le avevano impedito di dedicarsi anche allo spirito. Apparteneva ai «timorati di Dio», quei pagani che si erano convertiti alla fede dei Giudei. Fino a quando incontrò Paolo di Tarso, nella sua prima missione in Europa. L'episodio è narrato negli Atti degli Apostoli: san Paolo giunse a Filippi con Timoteo, Sila e Luca. Fu allora che Lidia si convertì e sul suo esempio tutti i familiari chiesero di essere battezzati. Prima discepola di Paolo, Lidia ospitò a casa sua il santo e i suoi compagni per tutto il tempo della missione. In quei giorni di predicazione ci furono conversioni, e si formò una comunità di cristiani. Nella casa di Lidia nacque così la prima Chiesa fondata in Europa da Paolo di Tarso. (Avvenire)
Etimologia: Lidia = nativa della Lidia (regione dell'Asia Minore)
Martirologio Romano: Commemorazione di santa Lidia di Tiátira, che, commerciante di porpora, a Filippi in Macedonia, oggi in Grecia, ascoltando la predicazione di san Paolo Apostolo prima fra tutti credette al Vangelo.
‘Imprenditrice’: oggi andrebbe ai convegni, qualificandosi così. E’ un personaggio che negli Atti degli apostoli occupa un breve spazio (al capitolo 16), ma che vive da protagonista un momento dell’evangelizzazione. Siamo a Filippi di Macedonia, la prima tappa dell’apostolo Paolo in terra europea. Vi è giunto dall’Asia Minore (oggi Turchia) con Timoteo, Luca e Sila. Cerca la sinagoga per annunciare il Vangelo prima di tutto agli ebrei, come sempre. Ma questi sono pochi, nella cittadina già molto romanizzata; non hanno la sinagoga e al sabato pregano in riva a un fiumicello. Anche Paolo va al fiume, ma vi trova soltanto donne.
E alle donne si rivolge tranquillo, come racconta Luca negli Atti: "Sedutici, rivolgemmo la parola alle donne là riunite". Ed ecco venire in primo piano lei. Lei sola: "Una donna di nome Lidia". Non sappiamo se questo sia il nome suo, oppure se indichi la sua origine. Lei infatti proviene dalla città di Tiatira nella Lidia, che è una regione dell’Asia Minore. E ha una posizione speciale, quale proprietaria di un’azienda non certo da poco, perché ciò che lei commercia è la costosissima porpora. Roba da gente che se lo può permettere.
Paolo e i suoi amici finiscono di parlare, e solo Lidia si fa avanti a parlare, a fare domande. Lei non è ebrea di nascita. Viene dal paganesimo e poi l’ha attratta la fede di Israele; ora è una "credente in Dio" (così gli ebrei chiamano i nuovi proseliti). Ora è avvenuta in Lidia una trasformazione che gli Atti descrivono sobriamente così: "Il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo". Lidia si fa cristiana, insomma. Nella sostanza e nella forma, perché chiede e riceve il battesimo; insieme alla sua famiglia, nella quale è evidente che comanda lei. Poi invita Paolo, Timoteo, Luca e Sila a essere ospiti in casa sua. E ci dev’essere un po’ d’imbarazzo in loro: mah, abitare in casa di una donna... E allora la cristiana Lidia li batte in logica e in franchezza con un ragionamento inattaccabile: "Se avete giudicato che io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa". Confessa Luca: "Ci costrinse ad accettare". Nei giorni seguenti, Paolo e Sila finiscono in prigione a causa di un’indovina e dei suoi sfruttatori, poi vengono liberati miracolosamente, e ricevono le scuse dell’autorità, perché Paolo è cittadino romano.
Prima di partire, i due tornano nella casa di Lidia. "E qui, incontrati i fratelli, li esortarono e poi partirono". Poche e illuminanti parole: in quei giorni di predicazione e di avventura ci sono state conversioni, si è formata una comunità di cristiani. E, prima di andarsene, l’apostolo Paolo la riunisce e l’ammaestra. Proprio lì, nella casa della lucida ed energica Lidia, ha preso dunque vita la prima Chiesa fondata in Europa da Paolo di Tarso.
Autore: Domenico Agasso Fonte: Famiglia Cristiana
Roma, XII sec. – Orvieto, 21 maggio 1199
Patronato: Orvieto
Emblema: Palma
Nella storia millenaria della Chiesa, è purtroppo accaduto che le divergenze d’interpretazione dottrinale, sulla natura umana e divina di Gesù, sulla figura e l’importanza di Maria nel disegno della Redenzione, sul culto dei santi, delle reliquie, delle immagini, sul mistero Trinitario, ecc. oltre a portare a Concili chiarificatori e semmai di condanna delle eresie ideologiche che affioravano specie in Oriente, provocarono anche scontri e persecuzioni fra le varie parti, capeggiati da vescovi e patriarchi locali, dove anche e soprattutto il potere imperiale aveva la sua parte.
Quindi si produssero martiri, persecuzioni e scismi più o meno rientrati o ancora perduranti; anche in Occidente vi furono eresie o movimenti di lotta, forse non tanto per questioni dottrinarie, ma soprattutto sulla interpretazione del vivere cristiano e segnatamente sul comportamento del clero e della gerarchia.
I danni alla Chiesa furono egualmente grandi e varie eresie, scismi e movimenti di lotta, funestarono l’ideologia cristiana, operando in questi scontri non solo verbali, politici o religiosi, anche tante vittime da ambo le parti, per il concetto sbagliato di imporre con la forza agli altri credenti, la propria ideologia o appartenenza.
Non stiamo qui ad enumerare le tante eresie o movimenti eretici, sorti in Occidente o che operarono, più o meno violentemente in Occidente; ma la biografia del santo di cui parliamo, il podestà e martire Pietro Parenzo si inserisce proprio in queste lotte, che videro protagonisti al suo tempo, gli eretici catari o patarini, che operavano nel territorio di Orvieto, alla fine del secolo XII.
Prima di proseguire vediamo chi erano i ‘catari’; il nome di derivazione greca e poi latina medioevale, vuol dire “puro”; il catarismo fu una dottrina ereticale diffusa in Europa dal secolo XI, proveniente dall’Oriente, che predicava la contrapposizione assoluta tra il bene e il male, intesi come principi o forze che governano il mondo e nella vita morale, e inoltre il più rigoroso ascetismo.
I ‘patarini’ invece appartenevano alla ‘pataria’, un movimento religioso e politico sorto a Milano nel sec. XI, che si proponeva di purificare i costumi del clero, in particolar modo eliminando la simonia; per le sue caratteristiche democratiche, che originarono anche contrasti tra le diverse fazioni cittadine, fu considerato come un movimento di emancipazione delle classi popolari dai vincoli feudali.
Forse confondendo il termine ‘pataria’ con il termine ‘cataro’, passò nel XIII secolo a significare ‘eretico -cataro’; dal XIV sec. significò solo genericamente ‘eretico’.
I metodi per imporre le loro idee furono non sempre pacifici, anzi piuttosto violenti, tali da suscitare una reazione da parte dei cattolici nei periodi successivi; l’opera riformatrice del Poverello d’Assisi, qualche decenni dopo, userà ben altri metodi pacifici con l’esempio di povertà evangelica, dando frutti che durano ancora abbondantemente, con il francescanesimo che ne derivò.
Di Pietro si sa che nacque a Roma nella nobile famiglia romana dei Parenzo, il padre Giovanni fu senatore nel 1157 e giudice nel 1162, la madre si chiamava Odolina.
Non si sa l’anno di nascita, né come trascorse la sua fanciullezza e gioventù; aveva dei fratelli ed era sposato; ma evidentemente era una persona degna di rispetto e molto considerata, se nel 1199 papa Innocenzo III (1198-1216) e il popolo romano, lo mandarono come rettore e podestà in Orvieto, dove gli eretici catari o patarini, avevano messo salde radici; inoltre la città, già libero Comune nei secoli XI e XII, era teatro delle lotte fra guelfi e ghibellini, cioè tra fautori del papato e quelli dell’imperatore di Germania.
Gli eretici minacciavano la fede e la pace della città con un’audacia crescente, poco contrastata dai vescovi Rustico e Riccardo, favoriti anche dalla tensione che si era creata tra Orvieto e il papa dopo il 1198, per questioni inerenti la città di Acquapendente.
Il principale scopo di Pietro, era quello di portare la pace fra le fazioni in lotta e nel contempo combattere l’eresia; il suo ingresso ad Orvieto fu accolto favorevolmente dai cattolici nel febbraio 1199, ma con ostilità dagli eretici e loro sostenitori.
Pietro Parenzo usò una eccezionale severità con provvedimenti adatti e con una repressione che apparve spietata, contro i sobillatori di discordie e contro gli eretici e mentre raccolse consensi ed ammirazione da parte dei cattolici, si attirò invece un odio mortale da parte degli eretici, che videro in lui un nemico, minacciandolo apertamente di morte.
Dopo una pausa per Pasqua, in cui si recò a Roma per riferire della situazione a papa Innocenzo III, ricevendone approvazione ed incoraggiamento a proseguire, Pietro Parenzo intuendo una possibile tragedia, fece testamento e il 1° maggio del 1199, tornò ad Orvieto.
Nel frattempo gli eretici avevano preparato una congiura e con il favore di un servitore, che la sera del 20 maggio aprì la porta del palazzo ai congiurati, Pietro fu preso, malmenato, legato e imbavagliato e condotto fuori città, in una misera capanna.
Gli fu proposto, in cambio della sua liberazione, di abolire tutti i provvedimenti presi, che rinunciasse al governo della città, a non molestarli più, anzi a favorirli.
Al suo rifiuto di deviare dalla fede e consentire i loro errori, uno dei congiurati lo colpì violentemente con un martello e poi tutti gli altri con coltelli e spade lo massacrarono; dopo fuggirono tutti.
Il mattino seguente, fra il cordoglio generale della parte cattolica, la notizia si sparse in città; il suo corpo accompagnato dal vescovo, dal clero e dal popolo, fu portato nella chiesa di S. Maria dove fu tumulato.
Si scatenò la reazione dei cattolici, che fecero giustizia sommaria dei congiurati che si riuscì a prendere, mentre il Comune rinnovava contro gli eretici catari, la pena del carcere e la confisca dei beni. Il papa inviò la cavalleria romana ad Orvieto, che fu determinante per la sconfitta dell’eresia catara, ma anche per il trionfo in città dei guelfi contro i ghibellini.
Per i miracoli che si verificavano sulla sua tomba, anche al solo invocarlo, Pietro Parenzo fu da subito venerato come martire, non solo ad Orvieto, ma anche nelle città di Arezzo e Firenze; vari pellegrinaggi si organizzavano alla tomba e gli stessi pellegrini diretti a Roma, si fermavano ad Orvieto per pregare sul suo sepolcro; anche il papa s’informò su quanto si raccontava, ciò nonostante non lo canonizzò mai ufficialmente.
Pur continuando un culto locale, solo il 16 marzo 1879, su richiesta del vescovo di Orvieto Antonio Briganti, la Santa Sede approvò il culto, stabilendo la celebrazione liturgica al 21 maggio, data usata sin dal 1200.
Il suo corpo riposa ora nel bellissimo Duomo di Orvieto, nella Cappella del Corporale.
Autore: Antonio Borrelli
Windsor, 6 dicembre 1421 – Londra, 21 maggio 1471
Un caso di martirio nell'Inghilterra del Quattrocento, assolutamente caduto nell'oblio quantomeno agli occhi del opinione pubblica. E' la triste ma al tempo stesso gloriosa vicenda del sovrano Enrico VI.
Nato da Enrico V e da Caterina di Valois il 6 dicembre 1421 presso Windsor, rimase orfano del padre all'età di soli nome mesi. Caso probabilmente unico nella storia di re asceso al trono in così tenera età, venne a stabilirsi pertanto in Inghilterra un periodo di reggenza, che fu purtroppo caratterizzato da lotte furiose fra le famiglie che si contendevano il governo della nazione.
Finalmente Enrico VI assunse il comando nel 1442 e due anni dopo convolò a nozze con Margherita di Provenza. Forti simpatie riuscì ad accattivarsi grazie al suo carattere mite e buono, ma anche e soprattutto per la sua pietà. Nel 1453, in seguito ad una sua malattia mentale, da cui guarì due anni dopo, si scatenò nuovamente in Inghilterra una lotta di fazioni. E' il periodo comunemente denominato “guerra delle due rose”, che vide protagoniste le famiglie di York e di Lancaster.
Il regno di Enrico VI fu indubbiamente molto travagliato: sconfitte e vittorie si alternarono. Più volte imprigionato, venne altrettante volte liberato per intervento della consorte e degli eserciti amici. Dal 1464 rimase per ben cinque anni nella Torre di Londra, trattato decisamente male. Nel 1471 venne infine nuovamente catturato e nella notte tra il 21 e il 22 maggio assassinato nella Torre di Londra. Sepolto nel chiostro di Chertsey, nel 1484 il suo corpo fu esumato e traslato a Windsor nella cappella di San Giorgio.
La fama di martirio che si era guadagnata, subito diede adito ad un grandissimo culto popolare, accresciuto dai prodigi che avvenivano affidandosi alla sua intercessione. Nel 1494 fu chiesta al pontefice Innocenzo VIII l’autorizzazione per un processo di canonizzazione, poi le pratiche si arenarono a causa dello scisma anglicano ed il culto stesso andò scemando. Nel 1910 fu compiuta la ricognizione delle ossa.
L'autorevole Bibliotheca Sanctorum annovera il re inglese Enrico VI quale beato martire.
Autore: Fabio Arduino
21 maggio (Chiese Orientali)
Naisso, Serbia, 280 ca. – Nicomedia, Bitinia, 337
Etimologia: Costantino = che ha fermezza, tenace, dal latino
Il grande imperatore romano, il primo a convertirsi al cristianesimo, ha goduto e gode di un gran culto da parte delle Chiese Orientali e nel ‘Sinassario Costantinopolitano’ egli è celebrato il 21 maggio, insieme a sua madre la santa imperatrice Elena († 329 ca.).
In Occidente il culto fu abbastanza tiepido, concentrandosi soprattutto in luoghi che ebbero un forte influsso bizantino come Calabria, Sicilia, Sardegna o che vi furono trasportate delle reliquie come in Inghilterra e Boemia; il ‘Martirologio Romano’ non porta il suo nome, mentre la madre s. Elena è celebrata al 18 agosto.
I meriti di questo grande imperatore, giustamente chiamato Costantino I il Grande, sono indiscussi, specie per la lungimiranza con cui seppe comprendere e valutare, l’inarrestabile forza del cristianesimo, che sebbene da tre secoli perseguitato e con innumerevoli martiri, si espandeva con il suo contrapporsi alle ideologie del mondo pagano, in ogni angolo dell’immenso Impero Romano.
Flavio Valerio Costantino nacque a Naisso, odierna Nissa in Serbia nel 280 ca., figlio di Costanzo I Cloro allora semplice ufficiale e da Flavia Elena sua moglie morganatica, cioè inferiore di grado sociale.
Quando suo padre fu nominato “cesare” nel 293, Costantino venne allevato a Nicomedia alla corte di Diocleziano (243-313), sia per educarlo ad essere in futuro associato all’Impero, sia per garanzia dello stesso Costanzo Cloro (chiamato così per il pallore del viso).
Accompagnò Diocleziano in Egitto nel 296 e poi al servizio di Galerio, ‘cesare’ collega di suo padre; come tribuno militare combatté contro i Persiani e i Sarmati.
In virtù del nuovo sistema politico della tetrarchia, nel 305 il padre Costanzo I divenne imperatore e richiamò presso di sé il figlio Costantino, che lo seguì in Britannia in una campagna contro i Pitti e nel 306 alla morte del padre, per acclamazione dei soldati ne assunse il titolo e il comando.
Volendo riassumere, per evitare una cronologia storica troppo lunga, bisogna dire che nel ventennio successivo, fu costretto a combattere fra alleanze e guerre, con gli altri pretendenti al trono (Massimiano, Massenzio, Licinio, Galerio e Massimino Daia), riuscendo ad imporsi come unico imperatore solo nel 324.
In questa lotta per il potere, non furono risparmiati assassinii di rivali, né guerre fra gli opposti eserciti romani e in questo scenario avvenne il 28 ottobre 312, la grande battaglia sulla Via Flaminia al Ponte Milvio, quando Costantino affrontò Massenzio suo cognato (perché ne aveva sposato la sorella Fausta); Costantino riportò una grande vittoria mentre Massenzio morì annegato nel Tevere.
La leggenda narra, che la vigilia della battaglia, Gesù apparve in sogno all’imperatore, chiedendogli di scrivere sugli scudi dei suoi soldati le prime due lettere del Suo nome (in greco XP); inoltre il giorno seguente Costantino I avrebbe visti stagliarsi contro il sole una croce e nel cielo la scritta: “In hoc signo vinces”.
Da questo scaturì, agli inizi del 313, il famoso ‘editto di Milano’ , che firmato anche da Licinio, associato alla guida dell’impero, proclamò la libertà di culto per i cristiani, ordinando anche la restituzione dei loro beni confiscati.
Iniziò così la nuova era cristiana, che scalzerà completamente il paganesimo, portando una nuova valutazione dell’essere umano composto di anima e di corpo, la sua identità di creatura di Dio, rigenerata dal sacrificio di Cristo, la sua uguaglianza davanti a Dio, senza più caste e schiavitù e il concetto di libertà per tutti.
L’aspetto storico di Costantino lo vede ancora come baluardo ai Barbari, favorendo la loro evangelizzazione e permettendo il loro inserimento (300.000 persone) entro il territorio dell’Impero.
Fece uccidere nel 326, per contrasti e congiure di palazzo, il proprio figlio Crispo accusato dagli invidiosi fratellastri e dalla matrigna Fausta, di attentare al suo onore e poi sempre reagendo spietatamente, fece uccidere la stessa moglie Fausta, sospettata di adulterio.
La tragedia di corte, influì enormemente sul suo carattere e sulla sua politica religiosa, forse per rimorso e pentimento, forse per le rimostranze del clero, forse anche per la sua ricerca e tendenza al monoteismo, che l’avvicinò all’inizio al culto del Sole.
La sua conversione al Cristianesimo, in realtà avvenne alla fine della sua vita, quando sul letto di morte, prima di spegnersi il 22 maggio 337, fu battezzato dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, città della Bitinia presso cui si trovava alla testa del suo esercito, per combattere Sapore II re di Persia.
Dare una valutazione su Costantino imperatore, non è compito di questo presente lavoro, del resto sono infiniti i testi storici che hanno analizzato il suo governo, qui accenniamo soltanto a qualche aspetto.
Si prefisse di unificare un impero vacillante, anche se di fatto la profonda spaccatura fra le tradizioni culturali e spirituali della parte bizantina e quella romana, era ormai insanabile.
Fece coniare nuove monete d’oro (solidi), che rimasero la base di scambio fino alla fine dell’impero bizantino.
Divise l’Impero in quattro prefetture; costituì con membri permanenti il nuovo consiglio della corona (sacrum consistorium); il Senato di Roma e quello di Bisanzio, vennero trasformati in semplici consigli cittadini; riorganizzò l’esercito di cui si proclamò comandante supremo.
L’imperatore Costantino intervenne anche nelle questioni di dottrina religiosa e presiedette il primo Concilio Ecumenico della Chiesa, tenutosi a Nicea nel 325; in effetti egli si atteggiò a “episcopus externis”, vescovo esterno, della Chiesa.
Nel 326 iniziò la costruzione di Costantinopoli, sul luogo della antica città greca di Bisanzio, dandole il suo nome e trasferendovi la capitale dell’Impero.
Promosse direttamente o indirettamente attraverso i suoi familiari, la costruzione di molti edifici sacri, che ancora oggi, nonostante le profonde trasformazioni, hanno conservato la denominazione di “costantiniano”.
Fra i più importanti: a Roma, la basilica del S. Salvatore (oggi S. Giovanni in Laterano); la basilica di Santa Croce in Gerusalemme, fondata dalla madre s. Elena dopo il pellegrinaggio ai Luoghi Santi, voluto anche dal figlio; le primitive basiliche di S. Pietro e S. Paolo sulle tombe dei due Apostoli; la basilica di S. Lorenzo sulla via Tiburtina; la basilica di S. Agnese sulla Nomentana.
In Palestina, le basiliche della Natività a Betlemme, della Resurrezione a Gerusalemme e dell’Ascensione sul Monte degli Ulivi; a Costantinopoli la celebre basilica dei SS. Apostoli, in cui fece erigere la sua tomba, ai lati del sarcofago sorgevano dodici stele, commemorando ognuna un apostolo e ciò ha contribuito a promuovere in Oriente il culto di Costantino come “isapostolos”; inoltre tante altre chiese sparse in tutto l’Impero d’Oriente.
Costantino lasciò l’Impero, della cui unità spesso viene considerato l’artefice, diviso tra cinque eredi: i suoi tre figli, Costantino II, Costante e Costanzo II e i due nipoti Dalmazio e Annibaliano.
Questa suddivisione, in contrasto con la sua politica ed esperienza, portò funeste conseguenze con uccisioni e guerre tra i designati successori, che nel disordine indebolirono l’Impero, accelerando la sua divisione e facilitando l’invasione dei Barbari.
In nome di una “Donazione di Costantino”, documento inviato dall’imperatore a papa s. Silvestro I (314-335) in cui si dà il conferimento al vescovo di Roma del primato su tutte le Chiese del mondo e della sovranità civile su Roma, l’Italia e l’Occidente, sorse nel Medioevo il potere temporale dei Papi.
Al nome di Costantino si lega il trionfo del Cristianesimo sul mondo pagano e di lui si è fatto il modello perfetto del principe cristiano, e come tale, specie in Russia, si paragonavano a lui i principi orientali.
Dopo la sua morte, i cortigiani, l’esercito, il popolo di Costantinopoli, gli resero gli onori della venerazione dei ‘beati’ e dopo la morte, ottenne ciò che aveva desiderato in vita, cioè di essere associato agli Apostoli, non solo con la sepoltura nel tempio a loro dedicato, ma ricevendo anche gli onori e le preghiere a loro rivolte nelle chiese e nelle celebrazioni liturgiche.
La rivalità tra l’Oriente e l’Occidente ecclesiastico, a causa della controversia ariana del IV secolo e tra Costantinopoli e Roma per motivi di prestigio, portò gli orientali a proclamare Costantino “uguale agli Apostoli”, emulo di Pietro e paragonabile a Paolo.
Ecco perché la sua tomba fu onorata come quella di un santo e il suo nome invocato come quello di un martire per ottenere grazie. Nell’iconografia orientale è spesso rappresentato con s. Elena ai lati della Croce.
Autore: Antonio Borrelli
21 maggio (Chiese Orientali)
XI-XII secolo
Costantino fu Principe di Murom nonché figlio del Principe Sviatoslav II di Chernigov e discendente diretto di Vladimir I di Kiev. Secondo i suoi agiografi fu assegnato dal padre come governatore della città di Murom, posta nell'Oblast' di Vladimir, in quel tempo abitata esclusivamente da pagani, che Costantino aveva intenzione di convertire al cristianesimo ortodosso. Il Principe inviò inizialmente il figlio Michele nella città in qualità di emissario ma la popolazione lo linciò, obbligando Costantino ad intervenire personalmente al comando di truppe armate per sedare la rivolta. Riuscito in quest'ultima impresa non ebbe eguale successo nella conversione della popolazione, anzi i testi agiografici raccontano che man mano che i giorni passavano la folla si faceva sempre più insolente, arrivando persino ad assediare la casa del Principe con il proposito di ucciderlo. Tuttavia, secondo le leggende, quando Costantino si presentò alla propria finestra mostrando un'icona della Vergine, la folla miracolosamente si placò di colpo e tutta la popolazione accettò di farsi battezzare nel fiume Oka. Il figlio Teodoro continuò quindi per conto del padre l'opera di conversione nelle campagne circostanti Murom. Sul luogo dove era stato ucciso il proprio figlio Michele, Costantino edificò una chiesa intitolata all'Annunciazione. Poco tempo dopo diede ordine di costruirne una seconda intitolata ai Santi Boris e Gleb. Morì nel 1129 e, così come i propri figli, fu seppellito nella Chiesa dell'Annunciazione.
Oggi giornata ricchissima! Sia in quantità (ben 6 segnalazioni da fare) che in qualità: a partire dalla grande Santa Rita, sposa e madre esemplare: ha convertito il marito, pregato per la salvezza dei figli fino all'eroicità di chiederne la morte al Signore anziché vederli vendicare il padre macchiandosi di un delitto! Ma anche Maria Domenica Brun che da un matrimonio infranto e da una maternità spezzata ha maturato il carisma profetico della donazione verso i malati. Ma anche un principe, dei martiri e due sposi che, alla morte improvvisa dei due figli, diventano fondatori di conventi!
Roccaporena, presso Cascia, Perugia, c. 1381 - Cascia, Perugia, 22 maggio 1447
La tradizione ci racconta che, portata alla vita religiosa, fu data in sposa ad un uomo brutale e violento che, convertito da lei, venne in seguito ucciso per una vendetta. I due figli giurarono di vendicarlo e Rita, non riuscendo a dissuaderli, pregò Dio farli piuttosto morire. Quando ciò si verificò, Rita si ritirò nel locale monastero delle Agostiniane di Santa Maria Maddalena. Qui condusse una santa vita con una particolare spiritualità in cui veniva privilegiata la Passione di Cristo. Durante un'estasi ricevette una speciale stigmata sulla fronte, che le rimase fino alla morte. La sua esistenza di moglie di madre cristiana, segnata dal dolore e dalle miserie umane, è ancora oggi un esempio.
Patronato: Donne maritate infelicemente, Casi disperati
Etimologia: Rita = accorc. di Margherita
Martirologio Romano: Santa Rita, religiosa, che, sposata con un uomo violento, sopportò con pazienza i suoi maltrattamenti, riconciliandolo infine con Dio; in seguito, rimasta priva del marito e dei figli, entrò nel monastero dell’Ordine di Sant’Agostino a Cascia in Umbria, offrendo a tutti un sublime esempio di pazienza e di compunzione.
Fra le tante stranezze o fatti strepitosi che accompagnano la vita dei santi, prima e dopo la morte, ce n'è uno in particolare che riguarda s. Rita da Cascia, una delle sante più venerate in Italia e nel mondo cattolico, ed è che essa è stata beatificata ben 180 anni dopo la sua morte e addirittura proclamata santa a 453 anni dalla morte.
Quindi una santa che ha avuto un cammino ufficiale per la sua canonizzazione molto lento (si pensi che sant’Antonio di Padova fu proclamato santo un anno dopo la morte), ma nonostante ciò s. Rita è stata ed è una delle più venerate ed invocate figure della santità cattolica, per i prodigi operati e per la sua umanissima vicenda terrena.
Rita ha il titolo di “santa dei casi impossibili”, cioè di quei casi clinici o di vita, per cui non ci sono più speranze e che con la sua intercessione, tante volte miracolosamente si sono risolti.
Nacque intorno al 1381 a Roccaporena, un villaggio montano a 710 metri s. m. nel Comune di Cascia, in provincia di Perugia; i suoi genitori Antonio Lottius e Amata Ferri erano già in età matura quando si sposarono e solo dopo dodici anni di vane attese, nacque Rita, accolta come un dono della Provvidenza.
La vita di Rita fu intessuta di fatti prodigiosi, che la tradizione, più che le poche notizie certe che possediamo, ci hanno tramandato; ma come in tutte le leggende c’è alla base senz’altro un fondo di verità.
Si racconta quindi che la madre molto devota, ebbe la visione di un angelo che le annunciava la tardiva gravidanza, che avrebbero ricevuto una figlia e che avrebbero dovuto chiamarla Rita; in ciò c’è una similitudine con s. Giovanni Battista, anch’egli nato da genitori anziani e con il nome suggerito da una visione.
Poiché a Roccaporena mancava una chiesa con fonte battesimale, la piccola Rita venne battezzata nella chiesa di S. Maria della Plebe a Cascia e alla sua infanzia è legato un fatto prodigioso; dopo qualche mese, i genitori, presero a portare la neonata con loro durante il lavoro nei campi, riponendola in un cestello di vimini poco distante.
E un giorno mentre la piccola riposava all’ombra di un albero, mentre i genitori stavano un po’ più lontani, uno sciame di api le circondò la testa senza pungerla, anzi alcune di esse entrarono nella boccuccia aperta depositandovi del miele. Nel frattempo un contadino che si era ferito con la falce ad una mano, lasciò il lavoro per correre a Cascia per farsi medicare; passando davanti al cestello e visto la scena, prese a cacciare via le api e qui avvenne la seconda fase del prodigio, man mano che scuoteva le braccia per farle andare via, la ferita si rimarginò completamente. L’uomo gridò al miracolo e con lui tutti gli abitanti di Roccaporena, che seppero del prodigio.
Rita crebbe nell’ubbidienza ai genitori, i quali a loro volta inculcarono nella figlia tanto attesa, i più vivi sentimenti religiosi; visse un’infanzia e un’adolescenza nel tranquillo borgo di Roccaporena, dove la sua famiglia aveva una posizione comunque benestante e con un certo prestigio legale, perché a quanto sembra ai membri della casata Lottius, veniva attribuita la carica di ‘pacieri’ nelle controversie civili e penali del borgo.
Già dai primi anni dell’adolescenza Rita manifestò apertamente la sua vocazione ad una vita religiosa, infatti ogni volta che le era possibile, si ritirava nel piccolo oratorio, fatto costruire in casa con il consenso dei genitori, oppure correva al monastero di Santa Maria Maddalena nella vicina Cascia, dove forse era suora una sua parente.
Frequentava anche la chiesa di S. Agostino, scegliendo come suoi protettori i santi che lì si veneravano, oltre s. Agostino, s. Giovanni Battista e Nicola da Tolentino, canonizzato poi nel 1446. Aveva tredici anni quando i genitori, forse obbligati a farlo, la promisero in matrimonio a Fernando Mancini, un giovane del borgo, conosciuto per il suo carattere forte, impetuoso, perfino secondo alcuni studiosi, brutale e violento.
Rita non ne fu entusiasta, perché altre erano le sue aspirazioni, ma in quell’epoca il matrimonio non era tanto stabilito dalla scelta dei fidanzati, quando dagli interessi delle famiglie, pertanto ella dovette cedere alle insistenze dei genitori e andò sposa a quel giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, del quale “fu vittima e moglie”, come fu poi detto.
Da lui sopportò con pazienza ogni maltrattamento, senza mai lamentarsi, chiedendogli con ubbidienza perfino il permesso di andare in chiesa. Con la nascita di due gemelli e la sua perseveranza di rispondere con la dolcezza alla violenza, riuscì a trasformare con il tempo il carattere del marito e renderlo più docile; fu un cambiamento che fece gioire tutta Roccaporena, che per anni ne aveva dovuto subire le angherie.
I figli Giangiacomo Antonio e Paolo Maria, crebbero educati da Rita Lottius secondo i principi che le erano stati inculcati dai suoi genitori, ma essi purtroppo assimilarono anche gli ideali e regole della comunità casciana, che fra l’altro riteneva legittima la vendetta.
E venne dopo qualche anno, in un periodo non precisato, che a Rita morirono i due anziani genitori e poi il marito fu ucciso in un’imboscata una sera mentre tornava a casa da Cascia; fu opera senz’altro di qualcuno che non gli aveva perdonato le precedenti violenze subite.
Ai figli ormai quindicenni, cercò di nascondere la morte violenta del padre, ma da quel drammatico giorno, visse con il timore della perdita anche dei figli, perché aveva saputo che gli uccisori del marito, erano decisi ad eliminare gli appartenenti al cognome Mancini; nello stesso tempo i suoi cognati erano decisi a vendicare l’uccisione di Fernando Mancini e quindi anche i figli sarebbero stati coinvolti nella faida di vendette che ne sarebbe seguita.
Narra la leggenda che Rita per sottrarli a questa sorte, abbia pregato Cristo di non permettere che le anime dei suoi figli si perdessero, ma piuttosto di toglierli dal mondo, “Io te li dono. Fà di loro secondo la tua volontà”. Comunque un anno dopo i due fratelli si ammalarono e morirono, fra il dolore cocente della madre.
A questo punto inserisco una riflessione personale, sono del Sud Italia e in alcune regioni, esistono realtà di malavita organizzata, ma in alcuni paesi anche faide familiari, proprio come al tempo di s. Rita, che periodicamente lasciano sul terreno morti di ambo le parti. Solo che oggi abbiamo sempre più spesso donne che nell’attività malavitosa, si sostituiscono agli uomini uccisi, imprigionati o fuggitivi; oppure ad istigare altri familiari o componenti delle bande a vendicarsi, quindi abbiamo donne di mafia, di camorra, di ‘ndrangheta, di faide familiari, ecc.
Al contrario di s. Rita che pur di spezzare l’incipiente faida creatasi, chiese a Dio di riprendersi i figli, purché non si macchiassero a loro volta della vendetta e dell’omicidio.
S. Rita è un modello di donna adatto per i tempi duri. I suoi furono giorni di un secolo tragico per le lotte fratricide, le pestilenze, le carestie, con gli eserciti di ventura che invadevano di continuo l’Italia e anche se nella bella Valnerina questi eserciti non passarono, nondimeno la fame era presente.
Poi la violenza delle faide locali aggredì l’esistenza di Rita Lottius, distruggendo quello che si era costruito; ma lei non si abbatté, non passò il resto dei suoi giorni a piangere, ma ebbe il coraggio di lottare, per fermare la vendetta e scegliere la pace. Venne circondata subito di una buona fama, la gente di Roccaporena la cercava come popolare giudice di pace, in quel covo di vipere che erano i Comuni medioevali. Esempio fulgido di un ruolo determinante ed attivo della donna, nel campo sociale, della pace, della giustizia.
Ormai libera da vincoli familiari, si rivolse alle Suore Agostiniane del monastero di S. Maria Maddalena di Cascia per essere accolta fra loro; ma fu respinta per tre volte, nonostante le sue suppliche. I motivi non sono chiari, ma sembra che le Suore temessero di essere coinvolte nella faida tra famiglie del luogo e solo dopo una riappacificazione, avvenuta pubblicamente fra i fratelli del marito ed i suoi uccisori, essa venne accettata nel monastero.
Per la tradizione, l’ingresso avvenne per un fatto miracoloso, si narra che una notte, Rita come al solito, si era recata a pregare sullo “Scoglio” (specie di sperone di montagna che s’innalza per un centinaio di metri al disopra del villaggio di Roccaporena), qui ebbe la visione dei suoi tre santi protettori già citati, che la trasportarono a Cascia, introducendola nel monastero, si cita l’anno 1407; quando le suore la videro in orazione nel loro coro, nonostante tutte le porte chiuse, convinte dal prodigio e dal suo sorriso, l’accolsero fra loro.
Quando avvenne ciò Rita era intorno ai trent’anni e benché fosse illetterata, fu ammessa fra le monache coriste, cioè quelle suore che sapendo leggere potevano recitare l’Ufficio divino, ma evidentemente per Rita fu fatta un’eccezione, sostituendo l’ufficio divino con altre orazioni.
La nuova suora s’inserì nella comunità conducendo una vita di esemplare santità, praticando carità e pietà e tante penitenze, che in breve suscitò l’ammirazione delle consorelle. Devotissima alla Passione di Cristo, desiderò di condividerne i dolori e questo costituì il tema principale delle sue meditazioni e preghiere.
Gesù l’esaudì e un giorno nel 1432, mentre era in contemplazione davanti al Crocifisso, sentì una spina della corona del Cristo conficcarsi nella fronte, producendole una profonda piaga, che poi divenne purulenta e putrescente, costringendola ad una continua segregazione.
La ferita scomparve soltanto in occasione di un suo pellegrinaggio a Roma, fatto per perorare la causa di canonizzazione di s. Nicola da Tolentino, sospesa dal secolo precedente; ciò le permise di circolare fra la gente.
Si era talmente immedesimata nella Croce, che visse nella sofferenza gli ultimi quindici anni, logorata dalle fatiche, dalle sofferenze, ma anche dai digiuni e dall’uso dei flagelli, che erano tanti e di varie specie; negli ultimi quattro anni si cibava così poco, che forse la Comunione eucaristica era il suo unico sostentamento e fu costretta a restare coricata sul suo giaciglio.
E in questa fase finale della sua vita, avvenne un altro prodigio, essendo immobile a letto, ricevé la visita di una parente, che nel congedarsi le chiese se desiderava qualcosa della sua casa di Roccaporena e Rita rispose che le sarebbe piaciuto avere una rosa dall’orto, ma la parente obiettò che si era in pieno inverno e quindi ciò non era possibile, ma Rita insisté.
Tornata a Roccaporena la parente si recò nell’orticello e in mezzo ad un rosaio, vide una bella rosa sbocciata, stupita la colse e la portò da Rita a Cascia, la quale ringraziando la consegnò alle meravigliate consorelle.
Così la santa vedova, madre, suora, divenne la santa della ‘Spina’ e la santa della ‘Rosa’; nel giorno della sua festa questi fiori vengono benedetti e distribuiti ai fedeli.
Il 22 maggio 1447 Rita si spense, mentre le campane da sole suonavano a festa, annunciando la sua ‘nascita’ al cielo. Si narra che il giorno dei funerali, quando ormai si era sparsa la voce dei miracoli attorno al suo corpo, comparvero delle api nere, che si annidarono nelle mura del convento e ancora oggi sono lì, sono api che non hanno un alveare, non fanno miele e da cinque secoli si riproducono fra quelle mura.
Per singolare privilegio il suo corpo non fu mai sepolto, in qualche modo trattato secondo le tecniche di allora, fu deposto in una cassa di cipresso, poi andata persa in un successivo incendio, mentre il corpo miracolosamente ne uscì indenne e riposto in un artistico sarcofago ligneo, opera di Cesco Barbari, un falegname di Cascia, devoto risanato per intercessione della santa.
Sul sarcofago sono vari dipinti di Antonio da Norcia (1457), sul coperchio è dipinta la santa in abito agostiniano, stesa nel sonno della morte su un drappo stellato; il sarcofago è oggi conservato nella nuova basilica costruita nel 1937-1947; anche il corpo riposa incorrotto in un’urna trasparente, esposto alla venerazione degli innumerevoli fedeli, nella cappella della santa nella Basilica-Santuario di S. Rita a Cascia.
Accanto al cuscino è dipinta una lunga iscrizione metrica che accenna alla vita della “Gemma dell’Umbria”, al suo amore per la Croce e agli altri episodi della sua vita di monaca santa; l’epitaffio è in antico umbro ed è di grande interesse quindi per conoscere il profilo spirituale di S. Rita.
Bisogna dire che il corpo rimasto prodigiosamente incorrotto e a differenza di quello di altri santi, non si è incartapecorito, appare come una persona morta da poco e non presenta sulla fronte la famosa piaga della spina, che si rimarginò inspiegabilmente dopo la morte.
Tutto ciò è documentato dalle relazioni mediche effettuate durante il processo per la beatificazione, avvenuta nel 1627 con papa Urbano VIII; il culto proseguì ininterrotto per la santa chiamata “la Rosa di Roccaporena”; il 24 maggio 1900 papa Leone XIII la canonizzò solennemente.
Al suo nome vennero intitolate tante iniziative assistenziali, monasteri, chiese in tutto il mondo; è sorta anche una pia unione denominata “Opera di S. Rita” preposta al culto della santa, alla sua conoscenza, ai continui pellegrinaggi e fra le tante sue realizzazioni effettuate, la cappella della sua casa, la cappella del “Sacro Scoglio” dove pregava, il santuario di Roccaporena, l’Orfanotrofio, la Casa del Pellegrino.
Il cuore del culto comunque resta il Santuario ed il monastero di Cascia, che con Assisi, Norcia, Cortona, costituiscono le culle della grande santità umbra.
Autore: Antonio Borrelli
Lucca, 17 gennaio 1789 - Lucca, 22 maggio 1868
Fondatrice delle Ministre degli infermi di San Camillo
Martirologio Romano: A Lucca, beata Maria Domenica Bruna Barbantini, religiosa, che fondò la Congregazione delle Suore Ministre degli Infermi di San Camillo.
La sua adolescenza
Maria Domenica nasce a Lucca il 17 gennaio 1789 da Pietro Brun di origine elvetica e da Giovanna Granucci di Pariana, piccolo centro della provincia lucchese. Di carattere aperto e intelligente, la piccola trascorre felicemente la prima infanzia tra le cure della madre e la rigida educazione paterna.
La sua adolescenza è invece segnata da quattro lutti: la morte del padre e quella di tre fratellini a breve distanza uno dall’altro. Con l’aiuto della paziente guida materna, Maria Domenica supera il dramma dei lutti ed entra nella giovinezza carica di sogni e di speranze, tutta impegnata nello studio delle discipline umanistiche e religiose, proprie del ceto medio borghese della sua epoca e della sua città.
Eroismo di sposa e di madre
Il 22 aprile del 1811, nella cattedrale di S. Martino in Lucca, Maria Domenica sposa il concittadino Salvatore Barbantini. È un matrimonio d’amore e di molteplici attese, ma dopo appena cinque mesi dalle nozze, "lo sposo adorato" muore improvvisamente lasciando tragicamente sola Maria Domenica già in attesa di un figlio.
Di fronte alla dolorosa prova, la vedova, appena ventiduenne, piange e singhiozza, ma non si lascia prendere dalla disperazione: ella s’inginocchia davanti al Crocifisso, la notte stessa della immane tragedia e, abbracciandolo, pronuncia il suo fiat con questa parole: "Oh mio Dio... Dio del mio cuore... mi avete percossa a sangue... voi solo, Crocifisso mio bene, sarete da qui innanzi il dolcissimo sposo dell’anima mia... il mio unico e solo amore, la mia eterna porzione". Una consacrazione totale ed irrevocabile che nasce sul calvario di un dolore immenso e crudele, illuminato però da una fede viva, da una speranza senza confini, da un amore teologale autentico.
Da quel momento nasce in lei la "passione" di servire le inferme povere e sole della sua città. Poiché le cure del figlio le occupano l’intera giornata, ella dedica eroicamente alcune ore della notte all’assistenza delle inferme in case private.
Ma un’altra prova attende la giovane vedova: Lorenzino, il figlio amatissimo, che era tutta la consolazione di Maria Domenica sulla terra, muore quasi improvvisamente, colpito da grave malattia, all’età di soli otto anni.
La povera madre è sconvolta: "Non so come non perdessi il senno", scrive lei stessa e, mentre il suo cuore straziato piange lacrime di sangue, ancora una volta ella trasforma in offerta quel dramma indicibile: "Guardavo il cielo — afferma — e oppressa dal dolore, replicavo l’offerta di quell’unico amato figlio e dell’eccessivo mio dolore".
Il carisma profetico di Maria Domenica La donazione verso i malati
Da un matrimonio infranto e da una maternità spezzata, Maria Domenica seppe elevarsi attraverso l’abbandono totale a Dio ad una sponsalità cristica totale e ad una maternità spirituale ed universale.
D’ora in poi, il suo cuore materno brucerà d’amore, di tenerezza e di cure per i malati poveri e soli, per gli abbandonati, per i morenti.
Di giorno e di notte, sotto il sole cocente o la pioggia dirompente, ella percorre, con la lanterna accesa, le vie strette e buie della città di Lucca per raggiungere al capezzale le inferme più gravi e sole. Una notte, assalita da un uragano, le si spegne il lumicino; brancolando a lungo nel buio, ella arriva finalmente al domicilio desiderato, e, con gli abiti intrisi d’acqua, compie assistenza per tutta Ia notte non curandosi affatto di sé ma di Gesù, presente "nelle membra inferme" di quella persona malata.
Spesso, dopo una intera notte di servizio, faceva seguire anche il giorno senza prendere cibo. Talvolta assalita da un sonno terribile, mentre prestava assistenza, arrivò a mettersi il tabacco negli occhi; tate rimedio le procurava una sofferenza grave, ma efficace per tenerla sveglia e non privare le inferme del suo aiuto e conforto.
Talvolta, nel cuore della notte, era inseguita da ignoti male intenzionati; donna forte e coraggiosa non si faceva intimidire da nessuno; ella aveva in cuore una fiamma che non poteva spegnere: servire e curare Gesù stesso nascosto nel volto dei malati e sofferenti.
La fondazione del Monastero della Visitazione a Lucca
La ricchezza delle sue doti umane e spirituali, tra cui intelligenza, creatività, coraggio e intraprendenza, non sfuggirono all’attenzione del Vescovo e del clero della sua città. Essi infatti le affidarono il compito di stabilire in Lucca un Monastero della Visitazione per l’educazione della gioventù.
Maria Domenica, docile alla voce dei pastori e sensibile alle istanze della Chiesa, accettò l’impegno con generosità e determinazione.
Il suo zelo per la gloria di Dio, la rendeva capace di affrontare ogni difficoltà. Dopo circa sei anni intensi di lavoro e di tribolazioni, ella riuscì nell’intento di dare alla città di Lucca il monastero desiderato, ancor oggi esistente e ricco di vitalità spirituale e apostolica.
Il nuovo Istituto per i malati
Compiuta l’opera della Visitazione, emerge chiara, prorompente in Maria Domenica la vocazione profetica: fondare una Congregazione religiosa di Sorelle Oblate Infermiere per servire Cristo nelle membra doloranti dei malati e sofferenti, a tempo pieno e per tutta la vita.
Il 23 gennaio 1829 Maria Domenica dà inizio alla prima comunità delle Sorelle Oblate Infermiere. Povere e con poca salute, ma ricche di zelo e di amore per Cristo, la Fondatrice e le prime sorelle compirono prodigi di carità al capezzale delle inferme e morenti, nelle abitazioni povere, dove giacevano sole e abbandonate anche le moribonde.
La Fondatrice e le figlie avevano un solo ideale, come specifica nelle sue Regole: "Visitare, assistere e servire il Dio umanato agonizzante nell’orto o spirante sulla croce nelle persone delle inferme povere e moribonde".. E tutto ciò "con un cuore tutto avvampante della carità di Cristo".
Inoltre Maria Domenica insegnò alle figlie che la vocazione delle Ministre degli Infermi comporta il dono totale della persona nel "servire il malato anche a rischio della vita". Per questo, nelle sue Regole, ella chiede ad esse la disponibilità al martirio: "Serviranno Nostro Signore Gesù Cristo nelle persone delle inferme con generosità e purità d’intenzione, pronte sempre ad esporre la propria vita per amore di Cristo morto sopra una croce per noi".
La testimonianza di evangelica carità della Fondatrice e delle figlie, indusse mons. Domenico Stefanelli, Arcivescovo di Lucca, ad approvare le Regole e l’Istituto di Maria Domenica; ciò avvenne il 5 agosto 1841.
Maria Domenica “beata”
Nella sua lunga vita, Maria Domenica cercò unicamente "la volontà di Dio e la sua maggior gloria". Nel suo cammino di configurazione a Cristo, assaporò l’amarezza della calunnia, che accolse: "pregando, perdonando, e amando i suoi persecutori". Dedicò tempo e fatiche alla formazione spirituale e carismatica delle figlie.
Morì in Lucca il 22 maggio 1868, lasciando l’Istituto piccolo nel numero, ma forte nello spirito, generoso nel servizio ai malati.
Il 17 maggio 1995, in piazza S. Pietro, Giovanni Paolo II ha proclamato solennemente "Beata" Maria Domenica Brun Barbantini, indicandola al mondo quale testimone autentica "di un amore evangelico concreto per gli ultimi, gli emarginati, i piagati; un amore fatto di gesti di attenzione, di cristiana consolazione, di generosa dedizione e di instancabile vicinanza nei confronti degli ammalati e dei sofferenti".
Beatificata il 17 maggio 1995.
Fonte: www.camilliani.org/beati
Faenza, 1226 – Firenze, 22 maggio 1310
Rosanna Negusanti, nata a Faenza nel 1226, sposò 15enne Ugonotto dei Caccianemici. Ebbero due bimbi, morti entrambi in fasce. I due abbracciarono la vita religiosa. Lei, assunto il nome di Umiltà, entrò nel monastero vallombrosano di Sant'Apollinare. Alcune donne la presero a maestra e la seguirono a Vallombrosa. Ispirò la loro regola a quella di san Giovanni Gualberto. Morì nel 1310 a Firenze, dove fondò il Monastero delle Donne di Faenza. Riposa nel convento dello Spirito Santo a Varlungo (Fi). (Avvenire)
Martirologio Romano: A Firenze, beata Umiltà (Rosanna), che, con il consenso del marito, visse dodici anni come reclusa; su richiesta del vescovo, poi, costruì un monastero di cui divenne badessa e che associò all’Ordine di Vallombrosa.
La sua ‘Vita’ scritta dal monaco contemporaneo Biagio (1330 ca.), è contenuta nel cod. 271 della Biblioteca Riccardiana di Firenze; inoltre vi è una seconda ‘Vita’ nel cod. 1563 della stessa Biblioteca.
Ma molti altri testi dei secoli successivi, fino agli Atti della Congregazione dei Riti del 1720, riportano notizie che la riguardano, sia come persona, sia per gli scritti, sia per i processi apostolici, sia per le fondazioni di monasteri a lei collegati.
Rosanna Negusanti, figlia dei nobili Elimonte e Richelda, nacque a Faenza nel 1226, l’anno della morte del serafico Francesco d’Assisi; nel 1241 a 15 anni, perse il padre e l’anno successivo a 16 anni sposò il patrizio Ugonotto dei Caccianemici, avranno ben presto due bambini, ma la loro felicità fu brevissima, essi morirono appena battezzati; nel contempo le muore anche la madre Richelda.
Ma la giovane donna (aveva 24 anni) senza avvilirsi e cedere allo sconforto o distrarsi con le gioie del mondo, decide insieme al marito Ugonotto (che morirà nel 1256) di ritirarsi a vita religiosa, entrando ambedue nei chiostri della canonica di S. Perpetua; non era raro nel Medioevo, di assistere a scelte di questo genere fra due coniugi cristiani.
Ed in questa occasione Rosanna Negusanti cambia il nome in quello di Umiltà; dopo essere guarita miracolosamente da una grave malattia, nel 1254 lascia il chiostro della canonica e si ritira in clausura in una celletta costruita per lei presso il monastero vallombrosano di S. Apollinare, fondato tra il 1012 e il 1015 da s. Giovanni Gualberto.
Qui visse per dodici anni, purificando ed elevando il suo spirito con preghiere e digiuni, alternandoli con consigli che dava a quanti le si rivolgevano per aiuto. Il suo esempio attrasse alcune giovani di Faenza che chiesero di costruire altre celle vicino alla sua e per vivere sotto la sua guida.
E così nel 1266 per consiglio del vescovo Petrella, Umiltà accetta di diventare la guida spirituale delle nuove monache, riunite nel vecchio monastero della Malta a Vallombrosa (FI), che d’ora in poi si chiamerà di S. Maria Novella.
Umiltà aveva ormai 40 anni, ritorna ad essere madre piena di bontà, di saggezza e di energia, diventando la guida per le nuove figlie, indirizzandole sulla via della santità; alcune delle prime monache godono per questo di un culto.
Trascorsero quindici anni, mettendo in pratica tutte le virtù della Regola di San Benedetto e delle Costituzioni Vallombrosane di S. Giovanni Gualberto. Quando aveva 55 anni, nel 1281 madre Umiltà si mise a costruire una nuova casa spirituale per le giovani fiorentine, la cui vita era scossa dalle lotte fra Bianchi e Neri; la chiesa venne eretta a Firenze, in onore di S. Giovanni Evangelista, ebbe come architetto Giovanni Pisano e come decoratore il celebre Buffalmacco; fu consacrata nel 1297 dal vescovo Francesco Monaldeschi.
Pur essendo molto malata e anziana, suor Umiltà teneva contatti personali con Faenza e Roma per dare continuità ai due monasteri, finché dopo sei mesi di sofferenze, ad 84 anni, cessò di vivere a Firenze il 22 maggio 1310.
Dopo un anno il 6 giugno 1311, il suo corpo fu esumato e benché fosse sepolto nella nuda terra, sotto il pavimento della chiesa, risultò incorrotto; fu rivestita di preziosi indumenti e da allora ebbe un culto ininterrotto. Il suo corpo in seguito fu traslato nei monasteri di S. Caterina, di S. Antonio (1529), di San Salvi (1534) e infine nell’800, in quello dello Spirito Santo di Varlungo presso Firenze, dove è tuttora conservato.
La spiritualità di s. Umiltà si può rilevare dai pochi Sermoni pervenutaci, essi sono viva espressione di profonda umiltà e di fervido amore per Dio e per il prossimo. Il suo culto è antichissimo, forse risale addirittura alla solenne ‘elevazione’ delle reliquie del 1311, in cui fu concessa una Messa propria; nel 1317 i vescovi radunati ad Avignone concessero particolari indulgenze.
Il 27 gennaio 1720 la Congregazione dei Riti con papa Benedetto XIII confermò l’antico culto, facendo celebrare la Messa propria il 22 maggio. Fu dichiarata nel 1942 compatrona di Faenza; le vennero dedicati altari nei due monasteri da lei fondati della Congregazione Vallombrosana.
Autore: Antonio Borrelli
Roma, III secolo
Etimologia: Aureliano = oro e sole - latino e greco; che brilla, splendente - dall'etrusco
È un martire romano, il cui corpo fu trasferito a Pavia e dove è venerato il 22 maggio. La sua ‘Passio’ compilata da scrittori di Pavia è leggendaria, ed i personaggi narrati sono mostrati in modo grottesco e deformato.
Ma non avendo altre notizie, non resta altro che riportare queste, con la consapevolezza che Aureliano fu certamente uno delle migliaia di vittime martiri di quel triste, eppure glorioso periodo del primo cristianesimo.
Era un cristiano vissuto e morto a Roma, nella prima metà del III secolo e al tempo dell’imperatore Decio (200-251) che nel 249 ordinò la settima persecuzione contro i cristiani; Aureliano si fece scoprire per le sue aspre critiche contro la religione pagana e la corruzione dei costumi.
Condotto dal prefetto Hylas, subì le consuete torture e mentre soffriva per i supplizi, le statue degli dei, a cui si era rifiutato di sacrificare, furono rinvenute in altro posto con le teste fitte in terra, mentre lo stesso prefetto fu colpito dalla paralisi.
Allora Hylas meravigliato dai prodigi, chiese ad Aureliano di risanarlo, ma una volta guarito prese a minacciarlo di pene orribili, se non avesse fatto ritornare gli idoli al loro posto nel tribunale.
Aureliano si rifiutò e quindi venne condotto dall’imperatore Decio, al quale senza paura, lo rimproverò d’idolatria. L’imperatore colpito dall’audacia del cristiano e informato dei prodigi che gli davano una fama di mago, propose ad Aureliano di guarire la figlia, posseduta dal demonio, promettendogli la sua conversione e molte ricchezze.
Guarita la figlia, anche Decio come Hylas, lo minacciò di morte; a questo punto Aureliano avvicinatosi agli idoli li infranse in polvere. Decio gli fece mozzare la lingua, ma il martire in qualche modo continuava a rimproverarlo, allora l’imperatore lo fece decapitare insieme al figlio Massimo; i loro corpi furono seppelliti nel cimitero di Callisto al terzo miglio della via Appia.
Non si conosce il periodo in cui le reliquie furono trasportate a Pavia, forse in epoca Longobarda o Franca.
Autore: Antonio Borrelli
Zeta (od. Montenegro), X sec. – Prespa (Macedonia), 22 maggio 1016
Nel descrivere la figura di san Vladimiro Giovanni Battista, bisogna dire che vi sono elementi certi ed altri elementi probabili; il racconto è in buona parte tratto da un capitolo della “Cronaca del Prete Diocleate” del secolo XII.
Prima di tutto il nome, conosciuto come Vladimiro con un seguito di Giovanni Battista, è da ritenere che Vladimiro sia il nome di famiglia “Vladimir-ovic” e Giovanni Battista il nome di battesimo.
Egli fu principe di Zeta (e non re di Dalmazia, come erroneamente ritenuto da alcuni), che era detta una volta “Croazia Rossa”, situata nell’odierno territorio tra il Montenegro e l’Albania settentrionale, il cui capoluogo oggi sconosciuto, si trovava ad ovest del lago di Scutari, probabilmente l’antica Doclea, che dava il nome al principato, prima di quello di Zeta.
Verso la fine del secolo XI, fu attaccato dal re dei Macedoni Samuele, il quale lo sconfisse e lo rese prigioniero e schiavo; ma Vladimiro riuscì a conquistare l’amore della figlia del re, Teodora-Kosara, che volle sposarlo.
La nuova condizione di genero del re, gli procurò il ritorno con gli adeguati onori al suo principato; quando Samuele morì, ed anche il suo figlio legittimo fu ucciso, il nipote Vladislavo s’impossessò del trono e per essere sicuro di essere sovrano assoluto, decise di eliminare anche il principe Vladimiro.
Il principe fu invitato con l’inganno, nella sua città, detta Prespa dal lago omonimo, e quando Vladimiro, dopo aver assistito in chiesa alla celebrazione della liturgia, all’uscita fu proditoriamente ucciso, era il 22 maggio 1016.
Com’è nella tradizione orientale, che ha sempre venerato molti sovrani come santi, per i loro meriti religiosi, per la fede cristiana professata, per i monasteri e chiese da loro fondati o protetti, per la loro morte a volte considerata come martirio, per i Concili convocati; anche il principe Vladimiro Giovanni Battista, vissuto negli ultimi anni del cristianesimo orientale ancora sotto la guida del papa, prima del distacco ortodosso da Roma, fu considerato un martire.
Così s‘instaurò un culto nei suoi confronti, tenendo inoltre presente che egli fu il fondatore del monastero, oggi ortodosso, di Elbasan nell’odierna Albania centrale, nella cui chiesa dal 1215, riposano i suoi resti mortali, ancora molto venerati.
Fra i popoli slavi la sua celebrazione è il 22 maggio, giorno della sua uccisione; il suo culto è noto anche in Croazia, dove fu divulgato dai letterati G. Kavanjin e Andrea Kacic-Mioslic.
Nella già citata “Cronaca”, Vladimiro è descritto come un uomo e sovrano virtuoso, di santa vita e taumaturgo, che con il suo martirio, rimase ben presto impresso nella fantasia e devozione popolare.
Autore: Antonio Borrelli
m. 1862
Martirologio Romano: Nella città di An-Xà nel Tonchino, ora Viet Nam, san Domenico Ngôn, martire, che, padre di famiglia e contadino, si inginocchiò e adorò la croce che i soldati gli avevano ordinato di calpestare e, avendo professato senza paura davanti al giudice la propria fede cristiana, fu immediatamente decapitato.
I secolo
Il Martyrologium Romanum pone in data odierna la commemorazione di Santa Giovanna, moglie di Cusa, procuratore di Erode. Giovanna con altre donne servì Gesù e gli Apostoli ed il giorno della resurrezione del Signore, trovata la lapide del sepolcro ribaltata, lo riferì prontamente ai discepoli.
Martirologio Romano: Commemorazione della beata Giovanna, moglie di Cusa, procuratore di Erode, che insieme ad altre donne serviva Gesù e gli Apostoli con i propri beni e il giorno della Risurrezione del Signore trovò la pietra del sepolcro ribaltata e ne diede annuncio ai discepoli.
Tra le numerosissime sante e beate di nome Giovanna, la santa venerata oggi è sicuramente una delle meno note. Celeberrima è l’eroina francese Santa Giovanna d’Arco e della medesima nazionalità sono le altre più famose sante omonime. La santa odierna è invece un personaggio citato nel Nuovo Testamento (Lc 8,2-3), una delle sante donne che Gesù aveva guarite da spiriti cattivi e da infermità, moglie di Chuza, procuratore di Erode.
Giovanna, con Maria Maddalena, Susanna ed altre, era tra le più fedeli discepole del Signore: esse con i dodici apostoli lo seguirono durante tutto il suo ministero pubblico, dalla Galilea alla Giudea. Anche Giovanna fu poi così testimone privilegiata della passione del Cristo ed il mattino di Pasqua si recò alla sua tomba con Maria Maddalena e Maria di Giacomo, portando con sé gli aromi preparati.
Sempre secondo il racconto dell’evangelista Luca, le donne impaurite trovarono la pietra scostata dal sepolcro e il corpo di Gesù era scomparso. Due uomini in vesti sfolgoranti apparvero allora loro invitandole a non cercare tra i morti colui che è vivo: “Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell'uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno” (Lc 24,6-7).
Esse si ricordarono allora delle parole del Signore e, tornate dal sepolcro, si fecero messaggere del lieto annunzio agli Undici apostoli superstiti ed a tutti gli altri discepoli. Ad essi, però, parve più un vaneggiamento da parte delle donne e non credettero loro. Solo “Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto” (Lc 24,12).
Con questi brevi passi evangelici si esauriscono purtroppo tutte le informazioni che abbiamo al riguardo di Giovanna, della quale neppure successive tradizioni ci hanno tramandato ulteriori curiosità sulla sua vita, come invece accaduto per numerosi altri personaggi evangelici.
Il Martyrologium Romanum pone in data odierna, 24 maggio, la commemorazione di Santa Giovanna, talvolta soprannominata “la Mirofora” per l’aver portato aromi alla tomba del Salvatore.
Autore: Fabio Arduino
m. 1839
Martirologio Romano: A Seul in Corea, santi martiri Agostino Yi Kwang-hon, nella cui casa si leggevano le Scritture, Agata Kim A-gi, madre di famiglia, che ricevette il battesimo in carcere, e sette compagni, i quali furono tutti insieme decapitati per la loro fede in Cristo.
Inghilterra, 921 - Pucklechurch, 26 maggio 946
Nato da Edward il Vecchio nel 921, sposò Elfgivu e ne ebbe due figli, i re Edwy ed Edgaro. Al tempo delle battaglie di Brunanburk, sebbene contasse solo sedici anni, aiutò suo fratello Athelstan a cacciare dall'Inghilterra gli invasori Norvegesi e Scozzesi. Quando Athelstan morì (939) egli divenne re di gran parte del territorio che era conosciuto col nome di Inghilterra. La giovane età del re indusse Olaf Guthfrithson, re di Dublino, ad invadere l'Inghilterra, ma fu ricacciato nel 944. Sfortunatamente Edmondo non fu immune dalla barbarie del suo tempo e fece accecare i due figli di Dumail, re di Strathclyde. Nel 948 fu padrino di due re norvegesi, Anlaf Sihtricson e Ragnald di Northumbria, battezzati alla sua corte.
Si conosce una vivace leggenda riguardante un privilegio del 940 col quale Edmondo fece dono a Dunstano di terre a Glastonbury: mentre Edmondo stava cavalcando presso Cheddar, il suo cavallo si imbizzarrì in vista delle rupi; nel panico Edmondo si rese improvvisamente conto che Dunstano era stato ingiustamente trattato, cosicché immediatamente lo ricercò e lo fece condurre a Glastonbury, ove gli dette delle terre e provvide ai bisogni del monastero. Edmondo concedette l'abbazia di Bath come ri¬fugio ai monaci di St. Bertin che rifiutavano la riforma di Gerard de Brogne. Questo fruttuoso e felice regno si concluse con un atto di alta carità: Edmondo eroicamente perse la sua vita a Pucklechurch, il 26 magg. del 946, mentre difendeva il suo domestico in lotta con un criminale di nome Leofa, che ritornava dall'esilio.
Autore: Joachim Dolan Fonte:Enciclopedia dei Santi
m. 1861
Martirologio Romano: Nella città di Ð?ng H?i in Annamia, oggi Viet Nam, santi martiri Giovanni Ðoàn Trinh Hoan, sacerdote, e Matteo Nguy?n Van Phu?ng, che, padre di famiglia e catechista, offrì ospitalità al compagno di martirio; per la loro fede furono insieme sottoposti a tortura e ferocemente decapitati sotto l’imperatore T? Ð?c.
m. 1839
Martirologio Romano: A Seul in Corea, sante martiri Barbara Kim, vedova, e Barbara Yi, vergine dell’età di quindici anni: entrambe detenute in carcere per la fede in Cristo, morirono di peste.
Somerset, Inghilterra, 14 agosto 1473 – Londra, Inghilterra, 28 maggio 1541
Margaret Pole, contessa di Salisbury e madre del cardinal Reginaldo, disapprovò il divorzio del re Enrico VIII d’Inghilerra e per tale motivo fu ghigliottinata nella Torre di Londra. Fu beatificata il 29 dicembre 1886.
Martirologio Romano: A Londra in Inghilterra, beata Margherita Pole, madre di famiglia e martire, che, contessa di Salisbury e madre del cardinale Reginaldo, fu decapitata nel carcere della Torre sotto il re Enrico VIII, del quale aveva disapprovato il divorzio, trovando così riposo nella pace di Cristo.
Come cadere in disgrazia del re, tanto da perderci la testa. Sono significative al riguardo le vicende di nobili, ecclesiastici e funzionari della corte di Enrico VIII, re d’Inghilterra, decapitati perché si erano opposti al suo divorzio dalla legittima moglie e al conseguente strappo dalla Chiesa di Roma, per alcuni dei quali la morte fu riconosciuta autentico martirio e, in conseguenza di ciò, elevati all’onore degli altari. La mannaia del boia non risparmiò neppure la nipote dei re d’Inghilterra Edoardo IV e Riccardo III, Margaret, figlia del duca di Clarence.
Cresciuta a corte insieme ai figli di Edoardo IV perché i suoi genitori sono morti entrambi quando lei ha pochi anni. Le combinano il matrimonio secondo l’uso dell’epoca e allo scoccare dei 18 anni la danno in sposa a Sir Reginaldo Pole di Buckinghamshire, che però 12 anni dopo la lascia vedova con cinque figli da allevare. Oltretutto si trova in notevoli difficoltà economiche, perché la sua famiglia è stata spogliata di tutte le proprietà e i titoli nobiliari.
Deve essere un modello di sposa, di madre e di vedova, oltreché di devozione e pietà, se Enrico VIII, salito al trono nel 1509, la considera “la donna più santa d’Inghilterra”. E’ così tanta la stima che il re nutre per lei da farle restituire tutti i beni confiscati, reintegrarla in tutti i diritti della sua famiglia, crearla contessa di Salisbury e, addirittura, affidarle l’educazione della sua bambina, la principessa Maria. La sua riabilitazione è però tanto rapida quanto la sua sfortunata caduta in disgrazia: infatti, la contessa Margaret è, sì, entrata nelle grazie del re ma non gli è così succube da avvallare il matrimonio che questi ha celebrato con Anna Bolena, dopo aver divorziato dalla moglie. Lo disapprova, anzi, in modo così deciso e pubblico da attirarsi le ire del re che, come primo provvedimento, la esonera dall’incarico di governante della principessa e la costringe a lasciare la corte. Vi è riammessa dopo la caduta di Anna Bolena, ma ormai i rapporti con il re sono definitivamente compromessi.
A peggiorare i già difficili rapporti certamente contribuisce uno scritto del figlio di Margaret (Reginaldo, futuro cardinale) a favore dell’unità della Chiesa e contro la supremazia del re, che ne resta così infastidito, anzi contrariato, da pensare di sbarazzarsi dell’intera famiglia: Falsi testimoni arrivano ad accusare Margaret di cospirazione; sottoposta ad un estenuante interrogatorio per una giornata intera, tiene testa ai suoi accusatori con la sua abilità intellettuale e, soprattutto, con la sua dignità e la sua levatura morale che tutti le riconoscono.
Malgrado ciò, e quindi senza alcuna imputazione ma unicamente sulla base di calunnie, viene imprigionata nella torre per quasi due anni, patendo il freddo e la fame. E dato che nessun tribunale se la sente di giudicarla e condannarla, scelgono di non processarla, privandola così della possibilità di difendersi. La condannano però a morte mediante decapitazione, che viene eseguita il 27 (o 28) maggio 1541 da un boia maldestro che sbaglia mira e quindi prolunga la sua sofferenza. Il 2 febbraio 1886 Papa Leone XIII proclama beata Margherita Pole, la contessa che non aveva avuto paura di opporsi al re, anche a costo della vita.
Autore: Gianpiero Pettiti
Un bell'esempio di padre e figlio santi! Peccato che non siano rimaste notizie sulla madre!
m. 29 maggio 275
Patronato: Acerra
La storia dei Santi Protettori di Acerra ci è stata tramandata da alcuni manoscritti del V secolo. Il nome originale di questi santi è quello di S. Conone e Conello.
Si tramanda che Conone fosse un ingegnere idraulico, uomo di agiate condizioni economiche nella sua città di Iconio in Isauria, piccola regione dell'Asia Minore. Egli era cristiano, come la maggior parte degli abitanti della zona in cui il Cristianesimo si era diffuso moltissimo per la predicazione di S. Paolo.
Conone era sposato con una donna di cui non ci viene tramandato il nome; di lei sappiamo solamente che morì prematuramente.
Conone, ormai vedovo, decise di vivere da monaco. A quell'epoca, nell'area orientale dell'Impero Romano, dove Conone viveva, essere monaco significava condurre una vita solitaria. I monaci erano tenuti in grande considerazione, tanto da essere chiamati ad intervenire per proteggere le comunità dall'imposizione di tasse ingiuste e per opporsi alle violenze dei potenti.
Di suo figlio Conello sappiamo che era un ragazzo che seguì il padre in tutte le sue scelte, anche in quella monacale, che era Diacono della comunità cristiana di Iconio e che era un giovane molto impegnato e riscuoteva la stima della gente fra cui viveva.
A quel tempo, il prefetto Domiziano, che aveva l'incarico di far sentire che il potere dell'imperatore era più forte di qualunque altro, cominciò ad accanirsi contro Conone e Conello. Contro di loro fu fatto un processo per il "miracolo dell'acqua" che in realtà era stata un'opera di bonifica in quelle terre paludose.
Al processo seguirono torture e supplizi per Conone e Conello i quali affrontarono coraggiosamente la morte testimoniando la loro fede, il 29 Maggio 275.
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Il culto dei Santi Cuono e Figlio è vivo ad Acerra già prima del 1079. A portare qui il culto e le reliquie dei Santi, si pensa siano stati o dei fedeli che fuggivano dagli iconoclasti (un editto dell'imperatore d'oriente vietava il possesso e l'adorazione delle immagini e reliquie) o dei pellegrini che, di ritorno dalla Terra Santa, si fermavano in un paese in cerca di ricovero e, prima di ripartire, donavano parte delle reliquie al loro benefattore in segno di gratitudine dell'ospitalità ricevuta.
Poiché il territorio acerrano allora era una zona paludosa, da bonificare, il "miracolo dell'acqua" operato da S. Conone nell'Asia minore e tramandato fin qui, certamente fece sì che la città lo accogliesse con lo stesso fervore del suo popolo d'origine e lo eleggesse al proprio patrono.
Ai SS. Patroni fu dedicata una chiesa dove ancora oggi sono custodite le statue che li raffigurano con la pelle nera (forse in segno del martirio subìto: la graticola e poi il fumo), mentre nella Chiesa cattedrale sono offerte alla venerazione dei fedeli le reliquie dei Santi (ulna di un braccio di S. Cuono) che furono consegnate alla città di Acerra, con una solenne cerimonia religiosa nel 1688 dal Vescovo di allora, mons. De Angelis, che le aveva ricevute da Roma.
La loro venerazione è "culto collettivo" perché essi sono visti come Patroni della città e pertanto ad essi gli Acerrani si sono rivolti per ricevere grazie "collettive", cioè l'intervento dei bisogni per la città, del gruppo sociale.
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Di tutti i racconti che vengono tramandati sul loro operato, ne ricordiamo alcuni.
Nel 1806 entrò in Acerra un generale francese che venne ospitato nel palazzo ex-baronale della signora Caterina Ungaretti, moglie del cavaliere Francesco Spinelli. Questi, girando per Acerra, entrò nella chiesa dei SS. Patroni e, quando vide le statue, si fece pallido ed esclamò: "Per Dio, sono loro!" e raccontò che aveva incontrato i due santi quando stava entrando nella città e al Gaudello il Santo gli aveva ordinato: "Generale, bada a non far del male agli Acerrani, essi mi appartengono. Guai a chi tocca i miei figli!". Così il Generale si decise a partire subito.
Si racconta ancora che il 25 Aprile 1872 dal Vesuvio sorse un'immensa nube nera che cominciò ad espandersi sulla pianura acerrana. Il popolo ricorse all'intercessione dei Santi portando la statua e le reliquie in processione. Dopo pochi minuti si alzò un vento che allontanò la nube sgombrando il cielo acerrano.
Autore: Pasquale Esposito
Pisa, 1200 circa - 1270 circa
Etimologia: Gherardesca = lancia ardita, dal germanico
Martirologio Romano: A Pisa, beata Gherardesca, vedova, che trascorse la vita in una cella accanto al monastero Camaldolese di San Savino, dedita alle lodi di Dio e all’intimità con il Signore.
Gherardesca, nacque a Pisa intorno al 1200 e si sposò assai giovane. Fervente cristiana e modello di sposa, non avendo figli in seguito a visioni celesti persuase il marito a farsi monaco presso il monastero Camaldolese di San Savino in Pisa, per poi ritirarsi anch’essa quale oblata reclusa in una celletta del medesimo monastero. Qui, lodando e conversando con il Signore, raggiunse i più alti gradi della contemplazione.
Gherardesca infine morì presso Pisa verso l’anno 1270 circa. Nella "Histoire dell'antichissima città di Pisa" non manca un dovuto riferimento alla Beata Gherardesca Pisana delle Conti Gherardesca monaca camaldolese.
Il Martyrologium Romanum la commemora quale “beata” al 29 maggio, mentre secondo il Menologio Camaldolese è considerata “santa” con festa posta al 9 giugno.
Autore: Fabio Arduino
Interessante questa coppia di sposi, genitori di grandi santi, ma interessante anche la figura del re San ferdinando, (patrono degli ingegneri)...
+ Cesarea di Cappadocia, 370 circa
Martirologio Romano: A Cesarea in Cappadocia, nell’odierna Turchia, santi Basilio e Emmelia, che furono i genitori dei santi vescovi Basilio Magno, Gregorio di Nissa e Pietro di Sivas e di santa Macrina, vergine. Questi santi coniugi, scacciati dalla loro terra al tempo dell’imperatore Galerio Massimiano, abitarono nei deserti del Ponto e, terminata la persecuzione, riposarono in pace, lasciando ai figli l’eredità delle loro virtù.
Innumerevoli, anche se purtroppo poco conosciute, sono le coppie di sposi che in duemila anni di cristianesimo sono ascese alle più alte vette della santità. Talvolta anche i loro figli, più o meno numerosi sono venerati come santi, come si può ben vedere da alcuni esempi che seguono: Santi Vitale e Valeria (con i figli Gervasio e Protasio), Santi Mario e Marta (con i figli Abaco e Audiface), Santi Paolo e Tatta (con i figli Sabiniano, Massimo, Rufo ed Eugenio), Santi Gregorio e Nonna (con i figli Gregorio Nazianzeno, Gorgonia e Cesario), Santi Vincenzo Maldegario e Valdetrude (con i figli Landerico, Dentellino, Aldetrude e Madelberta), Santi Adabaldo e Rictrude (con i figli Adalsinda, Clotsinda, Mauronto ed Eusebia), Santi Fileto e Lidia (con i figli Macedone e Treopepio), Santi xenofobe e Maria (con i figli Arcadio e Giovanni), Santi Flaviano e Dafrosa (con le figlie Bibiana e Demetria), Santi Simeone Stefano Nemanja e Anastasia-Anna (con i figli Saba arcivescovo serbo e Stefano primo incoronato), Santi Nicola II e Alessandra Romanov (con i figli Alessio, Anastasia, Maria, Olga e Tatiana), Sant’Areta martire con la moglie e quattro figlie, Venerabili Louis Martin e Zelie Guerin (con la figlia Santa Teresa di Gesù Bambino) e Servi di Dio Jozef & Wiktoria Ulma (con loro sei piccoli bambini Jozef, Wiktoria, Stanislawa, Barbara, Wladyslaw, Franciszek, Antoni e Maria).
In data odierna, 30 maggio, il Martyrologium Romanum commemora i santi coniugi Basilio ed Emmelia, , genitori dei santi vescovi Basilio Magno (2 gennaio), Gregorio di Nissa (10 gennaio) e Pietro di Sebaste (9 gennaio), e della santa vergine Macrina della “la Giovane” (19 luglio), onde distinguerla dall’omonima nonna paterna, detta invece “l’anziana” (14 gennaio). Basilio ed Emmelia, originari di Cesarea di Cappadocia, furono mandati in esilio nel Ponto al tempo di Galerio Massimiano. Finita la persecuzione anticristiana poterono fare ritorno nella loro città, lasciando ai santi figli l’eredità delle loro virtù ed addormentandosi così in pace verso l’anno 370. Anche Macrina l’Anziana patì la persecuzione e l’esilio nei pressi del Mar Nero.
Autore: Fabio Arduino
1198 - 30 maggio 1252
Figlio di Alfonso IX re di León e Berenguela di Castiglia, fu governatore modello dai solidi principi cristiani. Nel1217, all'età di 18 anni, ereditò la Castiglia, la terra di sua madre e nel 1230 il León, quella di suo padre. In questo modo unificò i due regni. Re prudente, si circondò sempre di persone fidate, con cui si consultava per le questioni più problematiche e urgenti. Di Ferdinando erano note anche la profonda devozione alla Madonna e la grande umiltà. Si sposò in prime nozze con Beatrice di Svezia (1219) e poi con Maria de Ponthieu (1235). Dalle due unioni nacquero complessivamente tredici figli. Ma la storia ricorda Ferdinando anche per le guerre contro i saraceni che gli permisero di riconquistare i regni di Cordova, Siviglia, Jaén e Murcia. Nel 1221 il sovrano fondò la cattedrale di Burgos, si deve a lui anche l'ampliamento dell'università di Salamanca. Morì il 30 maggio 1252 e fu sepolto nella cattedrale di Santa Maria a Siviglia. È stato canonizzato da Papa Clemente X il 4 febbraio 1671. (Avvenire)
Patronato: Ingegneri
Etimologia: Ferdinando = guerriero audace, dal tedesco
Martirologio Romano: A Siviglia in Spagna, san Ferdinando III, che, re di Castiglia e León, fu saggio amministratore del suo regno, cultore di arti e scienze e solerte nella diffusione della fede.
m. 1591
Martirologio Romano: A York in Inghilterra, beati martiri Roberto Thorpe, sacerdote, e Tommaso Watkinson, che, condannati a morte sotto la regina Elisabetta I, il primo perché sacerdote, il secondo perché, padre di famiglia già avanti negli anni, aveva spesso fornito aiuto ai sacerdoti, ricevettero insieme sul patibolo la corona del martirio.