Responsabilità etica dell’artista nella trattazione del tema del corpo umano

UDIENZA GENERALE 6 maggio 1981

  1. Nel discorso della Montagna Cristo pronunziò le parole alle quali abbiamo dedicato una serie di riflessioni nell’arco di quasi un anno.

Spiegando ai suoi ascoltatori il significato proprio del comandamento: «Non commettere adulterio», Cristo così si esprime: «Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore». Sembra che le suddette parole si riferiscano anche ai vasti ambiti della cultura umana, soprattutto a quelli dell’attività artistica, di cui si è già trattato ultimamente, nel corso di alcuni incontri del mercoledì. Oggi ci conviene dedicare la parte finale di queste riflessioni al problema del rapporto tra l’ethos dell’immagine – o della descrizione – e l’ethos della visione o dell’ascolto, della lettura o di altre forme di ricezione cognitiva, con cui si incontra il contenuto dell’opera d’arte o dell’audiovisione intesa in senso lato.

  1. E qui ritorniamo ancora una volta al problema già anteriormente segnalato: se e in quale misura il corpo umano, in tutta la visibile verità della sua mascolinità e femminilità, possa essere un tema dell’opera d’arte e, per ciò stesso, un tema di quella specifica «comunicazione», sociale, a cui tale opera è destinata. Questa domanda si riferisce ancor più alla cultura contemporanea di «massa», connessa con le tecniche audiovisive. Può il corpo umano essere un tale modello-tema, dato che noi sappiamo che con ciò è connessa quella oggettività «senza scelta» che prima abbiamo chiamata anonimità, e che sembra portare con sé una grave, potenziale minaccia della sfera intera dei significati, propria del corpo dell’uomo e della donna, a motivo del carattere personale del soggetto umano e del carattere di «comunione» dei rapporti interpersonali? Si può aggiungere a questo punto che le espressioni «pornografia» o «pornovisione» – malgrado la loro antica etimologia – sono apparse nel linguaggio relativamente tardi. La tradizionale terminologia latina si serviva del vocabolo ob-scaena, indicando in tal modo tutto ciò che non deve trovarsi davanti agli occhi degli spettatori, ciò che deve essere circondato di conveniente discrezione, ciò che non può essere presentato allo sguardo umano senza scelta alcuna.
  2. Ponendo la precedente domanda ci rendiamo conto che, de facto, nel corso di epoche intere della cultura umana e dell’attività artistica, il corpo umano è stato ed è un tale modello-tema delle opere d’arte visive, così come tutta la sfera dell’amore tra l’uomo e la donna, e, collegato con esso, anche il «donarsi reciproco» della mascolinità e femminilità nella loro espressione corporea, è stato, è e sarà tema della narrativa letteraria. Tale narrazione trovò il suo posto anche nella Bibbia, soprattutto nel testo del «Cantico dei cantici», che ci converrà riprendere in un’altra circostanza. Anzi, bisogna costatare che nella storia della letteratura o dell’arte, nella storia della cultura umana, questo tema appare particolarmente frequente ed è particolarmente importante. Difatti, esso riguarda un problema che in se stesso è grande e importante. Lo manifestammo sin dall’inizio delle nostre riflessioni, seguendo le orme dei testi biblici, che ci rivelano la giusta dimensione di questo problema: cioè la dignità dell’uomo nella sua corporeità maschile e femminile, e il significato sponsale della femminilità e mascolinità, iscritto nell’intera struttura interiore – e nello stesso tempo visibile – della persona umana.
  3. Le nostre precedenti riflessioni non intendevano mettere in dubbio il diritto a questo tema. Esse mirano soltanto a dimostrare che la sua trattazione è collegata con una particolare responsabilità di natura non soltanto artistica, ma anche etica. L’artista, che intraprende quel tema in qualunque sfera dell’arte o mediante le tecniche audiovisive, deve essere cosciente della piena verità dell’oggetto, di tutta la scala di valori collegati con esso; deve non soltanto tener conto di essi in abstracto, ma anche viverli lui stesso correttamente. Questo corrisponde ugualmente a quel principio della «purezza di cuore», che in determinati casi occorre trasferire dalla sfera esistenziale degli atteggiamenti e comportamenti alla sfera intenzionale della creazione o riproduzione artistiche.

Sembra che il processo di tale creazione tenda non soltanto alla oggettivazione (e in certo senso ad una nuova «materializzazione») del modello, ma, in pari tempo, ad esprimere in tale oggettivazione ciò che può chiamarsi l’idea creativa dell’artista, in cui appunto si manifesta il suo mondo interiore dei valori, quindi anche il vivere la verità del suo oggetto. In questo processo si compie una caratteristica trasfigurazione del modello o della materia e, in particolare, di ciò che è l’uomo, il corpo umano in tutta la verità della sua mascolinità o femminilità. (Da questo punto di vista, come già abbiamo menzionato, c’è una ben rilevante differenza, ad esempio, tra il quadro o la scultura e tra la fotografia o il film). Lo spettatore, invitato dall’artista a guardare la sua opera, comunica non soltanto con l’oggettivazione, e quindi, in certo senso, con una nuova «materializzazione» del modello o della materia, ma al tempo stesso comunica con la verità dell’oggetto che l’autore, nella sua «materializzazione» artistica, è riuscito ad esprimere con i mezzi a lui propri.

  1. Nel decorso delle varie epoche, cominciando dall’antichità – e soprattutto nella grande stagione dell’arte classica greca – vi sono opere d’arte, il cui tema è il corpo umano nella sua nudità, e la cui contemplazione consente di concentrarci, in certo senso, sulla verità intera dell’uomo, sulla dignità e sulla bellezza – anche quella «soprasensuale» – della sua mascolinità e femminilità. Queste opere portano in sé, quasi nascosto, un elemento di sublimazione, che conduce lo spettatore, attraverso il corpo, all’intero mistero personale dell’uomo. In contatto con tali opere, dove non ci sentiamo determinati dal loro contenuto verso il «guardare per desiderare», di cui parla il Discorso della Montagna, impariamo in certo senso quel significato sponsale del corpo, che è il corrispondente e la misura della «purezza di cuore». Ma ci sono anche opere d’arte, e forse ancor più spesso riproduzioni, che suscitano obiezione nella sfera della sensibilità personale dell’uomo – non a motivo del loro oggetto, poiché il corpo umano in se stesso ha sempre una sua inalienabile dignità – ma a motivo della qualità o del modo della sua riproduzione, raffigurazione, rappresentazione artistica. Di quel modo e di quella qualità possono decidere i vari coefficienti dell’opera o della riproduzione, come pure molteplici circostanze, spesso più di natura tecnica che non artistica.

E’ noto che attraverso tutti questi elementi diventa, in un certo senso, accessibile allo spettatore, come all’ascoltatore o al lettore, la stessa intenzionalità fondamentale dell’opera d’arte o del prodotto di relative tecniche. Se la nostra sensibilità personale reagisce con obiezione e disapprovazione, lo è perché in quella fondamentale intenzionalità, insieme all’oggettivazione dell’uomo e del suo corpo, scopriamo indispensabile per l’opera d’arte, o la sua riproduzione, la sua contemporanea riduzione al rango di oggetto, di oggetto di «godimento», destinato all’appagamento della concupiscenza stessa. E ciò si pone contro la dignità dell’uomo anche nell’ordine intenzionale dell’arte e della riproduzione. Per analogia, occorre riferire la stessa cosa ai vari campi dell’attività artistica – secondo la rispettiva specificità – come anche alle varie tecniche audiovisive.

  1. L’enciclica «Humanae Vitae» di Paolo VI sottolinea la necessità di «creare un clima favorevole all’educazione della castità»; e con questo intende affermare che il vivere il corpo umano in tutta la verità della sua mascolinità e femminilità deve corrispondere alla dignità di questo corpo e al suo significato nel costruire la comunione delle persone. Si può dire che questa è una delle dimensioni fondamentali della cultura umana, intesa come affermazione che nobilita tutto ciò che è umano. Perciò abbiamo dedicato questo breve tracciato al problema che, in sintesi, potrebbe essere chiamato dell’ethos dell’immagine. Si tratta dell’immagine che serve ad una singolare «visibilizzazione» dell’uomo, e che bisogna comprendere in senso più o meno diretto. L’immagine scolpita o dipinta «esprime visivamente» l’uomo; in altro modo lo «esprime visivamente» la rappresentazione teatrale o lo spettacolo di balletto, in altro modo il film; anche l’opera letteraria, a modo suo, tende a suscitare immagini interiori, servendosi delle ricchezze della fantasia o della memoria umana. Quindi ciò che qui abbiamo denominato l’«ethos dell’immagine» non può essere considerato astraendo dalla componente correlativa, che bisognerebbe chiamare l’«ethos del vedere». Tra l’una e l’altra componente si contiene tutto il processo di comunicazione, indipendentemente dalla vastità dei cerchi che descrive questa comunicazione, la quale in questo caso è sempre «sociale».
  2. La creazione del clima favorevole alla educazione della castità contiene queste due componenti; riguarda, per così dire, un circuito reciproco che avviene tra l’immagine e il vedere, tra l’ethos dell’immagine e l’ethos del vedere. Come la creazione dell’immagine nel senso ampio e differenziato del termine, impone all’autore, artista o riproduttore, obblighi di natura non soltanto estetica ma anche etica, così il «guardare», inteso secondo la stessa larga analogia, impone obblighi a colui che dell’opera è recettore.

L’autentica e responsabile attività artistica tende a superare l’anonimità del corpo umano come oggetto «senza scelta», cercando (come già è stato in precedenza), attraverso lo sforzo creativo, una siffatta espressione artistica della verità sull’uomo nella sua corporeità femminile e maschile, che venga per così dire assegnata in compito allo spettatore e, nel raggio più ampio, a ciascun recettore dell’opera. Da lui, a sua volta, dipende se deciderà di compiere il proprio sforzo per avvicinarsi a tale verità, oppure se resterà soltanto un «consumatore» superficiale delle impressioni, cioè uno che sfrutta l’incontro con l’anonimo tema-corpo solo a livello della sensualità che, di per sé, reagisce al suo oggetto appunto «senza scelta».

Qui terminiamo questo importante capitolo delle nostre riflessioni sulla teologia del corpo, il cui punto di partenza sono state le parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna: parole valide per l’uomo di tutti i tempi, per l’uomo «storico», e valide per ciascuno di noi.

Le riflessioni sulla teologia del corpo non sarebbero tuttavia complete, se non considerassimo altre parole di Cristo, e cioè quelle in cui egli si richiama alla futura risurrezione. Ad esse dunque ci proponiamo di dedicare il prossimo ciclo delle nostre considerazioni.