Nel cantico dei cantici l’eros umano svela il volto dell’amore sempre alla ricerca e mai appagato

La seguente catechesi  è tratta dal testo “uomo e donna lo creò”  (non mi risulta mai pronunciata dal Santo Padre), per completezza la riporto in questa “raccolta” augurandomi di non violare alcun diritto dell’Editore (ho riportato solo il testo attribuito al Santo Padre e non ho riportato le note ritenendole proprietà intellettuale dell’Editore e dei curatori dell’edizione)

  1. Secondo opinione ben diffusa, le strofe del Cantico sono state largamente aperte a ciò che siamo consueti definire col termine «eros». Si può dire che quel poema biblico riproduce con autenticità immune da difetti il volto umano dell’eros; il suo dinamismo soggettivo, come pure i suoi limiti e il suo termine. Il «linguaggio del corpo» è inserito nel singolare processo del reciproco tendere delle persone l’una verso l’altra: dello sposo e della sposa, processo che pervade tutto il Cantico, esprimendosi nei frequenti ritornelli che parlano della ricerca piena di nostalgia e del reciproco ritrovarsi degli sposi. Ciò porta loro gioia e quiete e ad un tempo sembra indurli ad un nuova ricerca, una ricerca continua. Si ha l’impressione che giungendo a se stessi, sperimentando la propria vicinanza, continuino incessantemente a tendere a qualcosa: cedano alla chiamata di qualcosa che sovrasti il contenuto transitorio e che sembri oltrepassare i limiti dell’eros, riletti nelle parole del reciproco «linguaggio del corpo».

«Dimmi, o amore dell’anima mia,

dove vai a pascolare il gregge…» (Ct 1, 7).

— esclama la sposa all’inizio del Cantico, e lo sposo le risponde:

«Se non lo sai, o bellissima tra le donne,

segui le orme del gregge…» (Ct 1, 8).

  1. Questo è tuttavia soltanto un preludio lontano. Quel processo di tensione e ricerca viene espresso più pienamente nei canti e nei versetti susseguenti:

«Prima che spiri la brezza del giorno

e si allunghino le ombre,

ritorna, o mio diletto,

somigliante alla gazzella

o al cerbiatto,

sopra i monti degli aromi» (Ct 2, 17).

«Sul mio giaciglio, lungo la notte, ho cercato

l’amato del mio cuore;

l’ho cercato, ma non l’ho trovato.

Mi alzerò e farò il giro della città;

per le strade e per le piazze;

voglio cercare l’amato del mio cuore.

L’ho cercato, ma non l’ho trovato.

Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda:

Avete visto l’amato del mio cuore?

Da poco le avevo oltrepassate,

quando trovai l’amato del mio cuore.

Lo strinsi fortemente e non lo lascerò

finché non l’abbia condotto in casa di mia madre,

nella stanza della mia genitrice» (Ct 3, 1-4).

Invece nelle parole dello sposo, quando egli sembra parlare da lontano, trova voce non tanto la nostalgia quanto un’affettuosa sollecitudine:

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,

per le gazzelle o per le cerve dei campi:

non destate, non scuotete dal sonno l’amata,

finché essa non lo voglia» (Ct 2, 7).

Ed ecco gli sposi che si accostano l’uno all’altro:

«Io dormo, ma il mio cuore veglia.

Un rumore! È il mio diletto che bussa:

Aprimi, sorella mia, mia amica,

mia colomba, perfetta mia» (Ct 5, 2).

  1. La ricerca-l’aspirazione ha la sua dimensione interiore: «il cuore veglia» perfino nel sonno. Il termine «perfetta» sulle labbra dello sposo appartiene a questa dimensione. L’aspirazione maschile nata dall’amore sulla base del «linguaggio del corpo» è una ricerca del bello integrale, della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca di perfezione che contiene, direi, la sintesi della bellezza umana, bellezza dell’anima e del corpo. E se le suddette parole dello sposo sembrano racchiudere la lontana eco del «principio» — quella prima ricerca-aspirazione dell’uomo-maschio rivolta verso un essere ancor sconosciuto — esse risuonano molto più da vicino nella Lettera agli Efesini, in cui Cristo, quale Sposo della Chiesa, desidera vedere la sua Sposa senza «macchia», desidera vederla «santa e immacolata» (Ef 5, 27).

  1. Nel Cantico dei Cantici l’eros umano svela il volto dell’amore sempre alla ricerca e quasi mai appagato. L’eco di questa inquietudine percorre le strofe del poema:

«Ho aperto allora al mio diletto,

il mio diletto già se n’era andato, era scomparso.

Io venni meno, ma non l’ho trovato,

l’ho chiamato, ma non m’ha risposto» (Ct 5, 6).

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme,

se trovate il mio diletto,

che cosa gli racconterete?

Che sono malata d’amore!» (Ct 5, 8).

Il coro delle giovani così le risponde:

«Che ha il tuo diletto di diverso da un altro,

o tu, la più bella fra le donne?

Che ha il tuo diletto di diverso da un altro,

perché così lo scongiuri?» (Ct 5, 9).

  1. Il «linguaggio del corpo» che scorre attraverso le strofe del Cantico dei Cantici sembra avere i suoi limiti. L’amore si mostra più grande di ciò che il «corpo» è in grado di esprimere. Ed è allora che la sua debolezza diventa, in certo senso, «linguaggio del corpo»: «sono malata d’amore», dice la sposa, come se volesse dar testimonianza della fragilità del soggetto che porta l’amore di entrambi. L’eros — come abbiamo già visto prima — assume l’aspetto del desiderio, in cui la sposa ritrova, direi, la verifica dell’amore sponsale: «Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me» (Ct 7, 11). Il «linguaggio del corpo», trovando la sua espressione nel desiderio, conduce all’unione amorosa degli sposi, in cui essi appartengono l’uno all’altro. Dal profondo di questa unione provengono le parole: «forte come la morte è l’amore» (Ct 8, 6). Queste parole esprimono la potenza dell’amore, la forza dell’eros nell’unione amorosa, ma dicono anche (almeno indirettamente) che nel «linguaggio del corpo» questo amore trova la sua fine conclusiva nella morte.