la seguente catechesi è tratta dal testo “uomo e donna lo creò” (non mi risulta mai pronunciata dal Santo Padre), per completezza la riporto in questa “raccolta” augurandomi di non violare alcun diritto dell’Editore (ho riportato solo il testo attribuito al Santo Padre e non ho riportato le note ritenendole proprietà intellettuale dell’Editore e dei curatori dell’edizione
- La verità dell’amore, proclamata dal Cantico dei Cantici, non può essere separata dal «linguaggio del corpo». La verità dell’amore infatti fa sì che lo stesso «linguaggio del corpo» venga riletto nella verità. Questa è anche la verità del progressivo avvicinarsi degli sposi che cresce attraverso l’amore: e la vicinanza significa pure l’iniziazione al mistero della persona. Non significa però in alcun modo violazione di quel mistero.
«Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra,
riposa sul mio petto.
Il mio diletto è per me un grappolo di cipro
nelle vigne di Engaddi.
(…)
Anche il nostro letto è verdeggiante» (Ct 1, 13-14.16).
E altrove:
«Come un melo tra gli alberi del bosco,
il mio diletto fra i giovani.
Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo
e dolce è il suo frutto al mio palato.
Mi ha introdotto nella cella del vino
e il suo vessillo su di me è amore.
Sostenetemi…
(…)
perché io sono malata d’amore.
La sua sinistra è sotto il mio capo
e la sua destra mi abbraccia» (Ct 2, 3-6).
- La verità della crescente vicinanza degli sposi attraverso l’amore si sviluppa nella dimensione soggettiva «del cuore», dell’affetto e del sentimento. Nella medesima dimensione questa è ugualmente la scoperta in sé del dono dell’altro, in certo senso il «gustarlo» in sé. Tale scoprire e gustare viene confermato dalle succitate parole della sposa, e ne daranno testimonianza anche le parole ulteriori dello sposo che spiegano in pari tempo come bisogna intendere nella soggettiva dimensione dell’esperienza quel: «il mio diletto è per me» (Ct 6, 3). Queste parole non possono essere separate dal «linguaggio del corpo», il loro contenuto non è più — specialmente sulla bocca della sposa — una rilettura dello stesso «linguaggio del corpo». La vicinanza reciproca che si esprime attraverso il corpo (le parole della sposa provano tale vicinanza) è soprattutto sorgente della crescita dell’intimo «linguaggio del cuore». Le strofe proferite invece dall’uomo-sposo hanno in questo rapporto un altro colorito. Si può dire che si concentrino anzitutto sulla specifica «rivelazione della femminilità», la cui espressione visibile domina sempre più gli occhi e il cuore dello sposo.
- «Tu sei bella, amica mia,
come Tirza, leggiadra come Gerusalemme,
terribile come schiere a vessilli spiegati.
Distogli da me i tuoi occhi:
il loro sguardo mi turba» (Ct 6, 4-5).
(…)
«Che ammirate nella Sulammita
durante la danza a due schiere?
Come sono belli i tuoi piedi
nei sandali, figlia di principe!
Le curve dei tuoi fianchi sono come monili,
opera di mani d’artista.
Il tuo ombelico è una coppa rotonda
che non manca mai di vino drogato.
Il tuo ventre è un mucchio di grano,
circondato da gigli.
I tuoi seni come due cerbiatti,
gemelli di gazzella.
Il tuo collo come una torre d’avorio;
i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbon,
presso la porta di Bat-Rabbim;
il tuo naso come la torre del Libano
che fa guardia verso Damasco.
Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo
e la chioma del tuo capo è come la porpora;
un re è stato preso dalle tue trecce.
Quanto sei bella e quanto sei graziosa,
o amore, figlia di delizie!
La tua statura rassomiglia a una palma
e i tuoi seni ai grappoli» (Ct 7, 1-8).
- Le metafore di questo linguaggio poetico autorizzano vari commenti circa la genesi, l’autore e il carattere del poema. Sebbene il lettore contemporaneo non associ molte di tali metafore con le cose a lui note del «mondo» visibile, tuttavia resta pienamente comprensibile il «linguaggio del corpo» da esse espresso e riletto nella verità della crescente vicinanza sponsale. Le strofe sopra citate evocano quel cerchio della vicinanza, in cui il «giardino chiuso» si apre, in certo senso, davanti agli occhi dell’anima e del corpo dello sposo. Attraverso questo cerchio di vicinanza lo sposo vive più pienamente l’esperienza di quel dono che da parte del femminile «io» si unisce con l’espressione e il significato sponsali del corpo. Le sue parole precedentemente citate non contengono soltanto una descrizione poetica dell’amata, della sua bellezza femminea, su cui si soffermano i sensi, ma queste parole parlano del dono e del donarsi. In esse sentiamo sempre l’eco di quelle primissime parole del Libro della Genesi (Gen 2, 23), con le quali venne costituito il segno del sacramento primordiale. A chi legge il Cantico dei Cantici appare perfino che i suoi versetti — data tutta la loro ricchezza poetica — siano un’espressione più debole dello stesso «linguaggio del corpo» a paragone della frase — quanto semplice e apparentemente povera — del Libro della Genesi. Occorre quindi che quella povertà sia interpretata per mezzo di questa ricchezza — ma anche viceversa: questa ricchezza per mezzo di quella povertà, e nella sua luce.
Nel frattempo l’«eros maschile», continua ad esprimersi con le parole dello sposo:
«Ho detto: Salirò sulla palma,
coglierò i grappoli di datteri;
mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva
e il profumo del tuo respiro come di pomi.
Il tuo palato è come vino squisito,
che scorre dritto verso il mio diletto
e fluisce sulle labbra e sui denti!» (Ct 7, 9-10).
Ed ecco la risposta della sposa:
«Io sono per il mio diletto
e la sua brama è verso di me.
Vieni, mio diletto, andiamo nei campi,
passiamo la notte nei villaggi.
Di buon mattino andremo alle vigne;
vedremo se mette gemme la vite,
se sbocciano i fiori,
se fioriscono i melograni:
là ti darò le mie carezze!» (Ct 7, 11-13).
- Il «linguaggio del corpo» parla ai sensi. Le parole dello sposo or ora citate lo confermano in modo particolarmente chiaro. La sposa sa che verso di lei è «la sua brama». Va incontro a lui, con la prontezza del dono di sé. L’amore che li unisce è di natura spirituale e sensuale insieme. In base a questo amore si attua anche la rilettura nella verità del significato sponsale del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono in comune costituire quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su tutta la loro vita.
La sposa dice:
«Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la gelosia:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore,
non ne avrebbe che dispregio» (Ct 8, 6-7).
- Giungiamo qui in certo senso alla vetta di una dichiarazione d’amore. Queste sono le parole sull’amore che meritano un’apposita riflessione e ad un tempo sembrano essere degli accordi finali del «linguaggio del corpo». Alla luce di queste parole sull’amore che è «forte come la morte» viene chiuso e coronato tutto ciò che nel Cantico dei Cantici inizia nella metafora del «giardino chiuso» e della «fontana sigillata». Nel momento in cui la sposa del Cantico, sposa-sorella, inviolata nella più profonda esperienza dell’uomo-sposo, padrona dell’intimo mistero della propria femminilità, chiede: «mettimi come sigillo sul tuo cuore» (Ct 8, 6), tutta la sottile struttura dell’amore sponsale si chiude, per cosi dire, nel suo interiore ciclo interpersonale. In questa chiusura diventa maturo anche il segno visibile del perenne sacramento, nato dal «linguaggio del corpo», riletto, per cosi dire, quasi sino alla fine nella verità dell’amore sponsale dell’uomo e della donna.
Il Cantico dei Cantici delinea in modo straordinario, degno delle più grandi opere del genio umano, la struttura — quanto mai ricca — di questo segno.