Il «linguaggio del corpo» secondo il cantico dei cantici

la seguente catechesi  è tratta dal testo “uomo e donna lo creò”  (non mi risulta mai pronunciata dal Santo Padre), per completezza la riporto in questa “raccolta” augurandomi di non violare alcun diritto dell’Editore (ho riportato solo il testo attribuito al Santo Padre e non ho riportato le note ritenendole proprietà intellettuale dell’Editore e dei curatori dell’edizione)

  1. In rapporto alla rilettura del linguaggio del corpo nella verità, e quindi anche in rapporto alla realtà del segno sacramentale del matrimonio, conviene sottoporre ad analisi sia pur sommaria anche quel libro del tutto speciale dell’Antico Testamento che è il Cantico dei Cantici. Il tema dell’amore sponsale, che unisce l’uomo e la donna, connette in certo senso questa parte della Bibbia con tutta la tradizione della «grande analogia», che, attraverso gli scritti dei Profeti, è confluita nel Nuovo Testamento e, in particolare, nella Lettera agli Efesini (cfr Ef 5, 21-23). Bisogna però subito aggiungere che nel Cantico dei Cantici il tema non va trattato nell’ambito dell’analogia concernente l’amore di Dio verso Israele (o l’amore di Cristo verso la Chiesa, nella Lettera agli Efesini). Il tema dell’amore sponsale, in questo singolare «poema» biblico, si situa al di fuori di quella grande analogia. L’amore dello sposo e della sposa nel Cantico dei Cantici è tema a sé, ed in ciò sta la singolarità e l’originalità, di, questo libro.

  1. Esso è divenuto oggetto di numerosi studi esegetici, commenti ed ipotesi. In merito al suo contenuto, in apparenza «profano», le posizioni sono state diverse: da un lato, questo libro è stato messo tra i libri proibiti da leggere, dall’altro, è stato fonte di ispirazione dei più grandi scrittori mistici, e i versetti del Cantico dei Cantici sono stati inseriti nella liturgia della Chiesa.

  1. Infatti, sebbene l’analisi del testo di questo libro ci obblighi a collocare il suo contenuto al di fuori dell’ambito della grande analogia profetica, tuttavia non è possibile separarlo dalla realtà del sacramento primordiale. Non è possibile rileggerlo se non sulla linea di ciò che è scritto nei primi capitoli della Genesi, come testimonianza del «principio» — di quel «principio» — al quale Cristo si riferì nel decisivo colloquio con i farisei (cfr Mt 19, 4). Il Cantico dei Cantici si trova certamente sulla scia di questo sacramento, in cui, attraverso il «linguaggio del corpo», è costituito il segno visibile della partecipazione dell’uomo e della donna all’Alleanza della grazia e dell’amore, offerta da Dio all’uomo. Il Cantico dei Cantici dimostra la ricchezza di questo «linguaggio», la cui prima stesura è già in Gen 2, 23-25.

  1. Ecco i primi versetti del Cantico: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino… Attirami dietro a te, corriamo!… gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze…» (Ct 1, 2.4).

Queste parole c’introducono immediatamente nell’atmosfera di tutto il «poema», in cui lo sposo e la sposa sembrano muoversi nel cerchio tracciato dall’irradiazione interiore dell’amore. Le parole degli sposi, i loro movimenti, i loro gesti, tutto il loro comportamento corrispondono all’interiore mozione dei cuori. Soltanto attraverso il prisma di quella mozione è possibile comprendere il «linguaggio del corpo».In questo impulso, che penetra da una persona ad un’altra, si attua (non si sa quante volte, ma di certo in modo unico e irripetibile) quella scoperta a cui diede espressione il primo uomo-maschio di fronte a colei che era stata creata come «un aiuto che gli fosse simile» (Gen 2, 20), e che è stata creata, come riporta il testo biblico, dalle sue «costole» (la «costola» sembra anche indicare il cuore).

  1. Questa scoperta — già analizzata in base a Gen 2 — nel Cantico dei Cantici si riveste di tutta la ricchezza del linguaggio dell’amore umano. Ciò che nel capitolo 2 della Genesi (vv. 23-25) è stato espresso appena in poche parole, semplici ed essenziali, qui si sviluppa come un ampio dialogo o piuttosto un duetto, in cui le parole dello sposo s’intrecciano con quelle della sposa e si completano a vicenda. Le prime parole dell’uomo di Gen cap. 2, 23, alla vista della donna creata da Dio, esprimono lo stupore e l’ammirazione, anzi il senso di fascino. E un simile fascino — che è stupore e ammirazione — scorre in una forma più ampia attraverso i versetti del Cantico dei Cantici. Scorre in onda placida, omogenea, a dire il vero, dall’inizio sino alla fine del poema. È una voce e un duetto, è parlare e colloquiare. Si può dire che appunto sia questo reciproco «linguaggio del corpo», a testimoniare — attraverso tutta la ricchezza dei significati che lo compongono — in qual modo nel prisma dei cuori umani si forma e si sviluppa quel segno dell’unione sponsale che nell’eterna economia dell’Alleanza e della grazia è divenuto segno sacramentale, cioè del matrimonio come sacramento.

  1. Perfino un’analisi sommaria del testo del Cantico dei Cantici permette di sentire in quel fascino reciproco il «linguaggio del corpo». Tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo di questo fascino — reciproco stupore e ammirazione — sono infatti la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità. Le parole d’amore, pronunciate da entrambi, si concentrano dunque sul «corpo», non tanto perché esso costituisce per se stesso sorgente di reciproco fascino, ma soprattutto perché su di esso si sofferma direttamente ed immediatamente Quell’attrazione verso l’altra persona, verso l’altro «io» — femminile o maschile — che nell’inferiore impulso del cuore da inizio all’amore.

L’amore inoltre sprigiona una particolare esperienza del bello, che si accentra su ciò che è visibile, sebbene coinvolga contemporaneamente la persona intera. L’esperienza del bello genera il compiacimento, che è reciproco.

«O bellissima tra le donne…» (Ct 1, 8), dice lo sposo: e gli echeggiano le parole della sposa: «Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme» (Ct 1, 5). Le parole dell’incanto maschile si ripetono continuamente, ritornano in tutti e cinque i canti del poema:

«Belle sono le tue guance fra i pendenti,

il tuo collo fra i vezzi di perle» (Ct 1, 10);

«Come sei bella, amica mia, come sei bella!

I tuoi occhi sono colombe» (Ct 1, 15).

E subito ascoltiamo la risposta di lei:

«Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!» (Ct 1, 16).

Nel secondo canto ritornano le stesse parole, arricchite di nuove trame:

«Alzati, amica mia,

mia bella, e vieni!

O mia colomba…

mostrami il tuo viso,

fammi sentire la tua voce,

perché la tua voce è soave,

il tuo viso è leggiadro» (Ct 2, 13-14).

  1. La stessa immagine — ad un tempo immagine dell’esperienza ed immagine della persona che è nell’esperienza — ricompare, ancor più ampia, nel canto quarto:

«Come sei bella, amica mia,

come sei bella!

Gli occhi tuoi sono colombe,

dietro il tuo velo.

Le tue chiome come un gregge di capre,

che scendono dalle pendici del Galaad.

I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,

che risalgono dal bagno;

tutte procedono appaiate,

e nessuna è senza compagnia.

Come un nastro di porpora le tue labbra

e la tua bocca è soffusa di grazia;

come spicchio di melagrana la tua gota

attraverso il tuo velo.

Come la torre di Davide il tuo collo,

costruita a guisa di fortezza.

(…)

I tuoi seni sono come due cerbiatti,

gemelli di una gazzella,

che pascolano fra i gigli.

(…)

Tutta bella tu sei,

amica mia, in te nessuna macchia» (Ct 4, 1-5.7).

  1. Le metafore del Cantico dei Cantici possono oggi sorprenderci. Molte di esse sono state prese dalla vita dei pastori; e altre sembrano indicare lo stato regale dello sposo. L’analisi di quel linguaggio poetico va lasciata agli esperti. Il fatto stesso di adoperare la metafora dimostra quanto, nel nostro caso, il «linguaggio del corpo» cerchi appoggio e conferma in tutto il mondo visibile. Questo è senza dubbio un «linguaggio» che viene riletto contemporaneamente col cuore e con gli occhi dello sposo, nell’atto di una speciale concentrazione su tutto l’«io» femminile della sposa. Questo «io» parla a lui attraverso ogni tratto femmineo, suscitando quello stato d’animo che può essere definito fascino, incanto. Questo «io» femminile si esprime senza parole; tuttavia il «linguaggio del corpo» espresso senza parole trova ricca eco nelle parole dello sposo, nel suo parlare pieno di trasporto poetico e di metafore, che testimoniano l’esperienza del bello, un amore di compiacimento. Se le metafore del Cantico cercano per questo bello una analogia nelle diverse cose del mondo visibile (in questo mondo, che è il «mondo proprio» dello sposo), nello stesso tempo sembrano indicare l’insufficienza di ognuna di esse in particolare. «Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia» (Ct 4, 7): — con questa locuzione lo sposo termina il suo canto, lasciando tutte le metafore, per volgersi a quell’unica, attraverso cui il «linguaggio del corpo» sembra esprimere l’integrum della femminilità e l’integrum della persona.

Da parte sua, la sposa parla un linguaggio simile:

«… Ritorna, o mio diletto,

somigliante alla gazzella

o al cerbiatto,

sopra il monte degli aromi» (Ct 2, 17).

Un’altra volta, invece, si confida con le compagne:

«… Il suo aspetto è quello del Libano,

magnifico come i cedri.

Dolcezza è il suo palato;

egli è tutto delizie!

Questo è il mio diletto, questo è il mio amico,

o figlie di Gerusalemme» (Ct 5, 15-16).