Il dono reciproco e disinteressato nel matrimonio non può prescindere dal riscoprirsi immagine di dio creatore

la seguente catechesi  è tratta dal testo “uomo e donna lo creò”  (non mi risulta mai pronunciata dal Santo Padre), per completezza la riporto in questa “raccolta” augurandomi di non violare alcun diritto dell’Editore (ho riportato solo il testo attribuito al Santo Padre e non ho riportato le note ritenendole proprietà intellettuale dell’Editore e dei curatori dell’edizione)

  1. Le parole dello sposo rivolte alla sposa come «sorella», ed anche le parole di lei nella stessa relazione, sono impregnate di un contenuto particolare. L’amore — come vediamo nei versetti sopra citati — spinge entrambi a cercare il passato comune, come se discendessero dalla cerchia della stessa famiglia, come se fin dall’infanzia fossero uniti dai ricordi del comune focolare. Così si sentono reciprocamente vicini come fratello e sorella i quali debbono la loro esistenza alla stessa madre. Ne consegue uno specifico senso di comune appartenenza. Il fatto che si sentono fratello e sorella permette loro di vivere in sicurezza la reciproca vicinanza e di manifestarla («…ti potrei baciare…»), trovando in ciò appoggio e non temendo il giudizio negativo degli altri uomini («…e nessuno potrebbe disprezzarmi…»). A questo aspetto della relazione fraterna richiama l’attenzione anzitutto la sposa.

  1. Le parole dello sposo mediante l’appellativo «sorella» tendono a riprodurre, direi, la storia della femminilità della persona amata, la vedono ancora nel tempo della fanciullezza («una sorella piccola abbiamo, e ancora non ha seni») — e per mezzo di tale visione che risale al passato, queste parole abbracciano il suo intero «io», anima e corpo, con una tenerezza disinteressata. Di qui nasce in seguito quella pace, di cui parla la sposa. Questa è la «pace del corpo » che in apparenza assomiglia al sonno («non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia»).Questa è soprattutto la pace dell’incontro nell’umanità quale immagine di Dio e l’incontro per mezzo di un dono reciproco e disinteressato («così sono ai tuoi occhi come colei che ha trovato pace»).

  1. A questo punto possono venir in mente quelle frasi di Gen 2, 23-25, che sembrano per la prima volta rivelare l’esperienza dell’«io» femminile e maschile, nato dal comune senso di appartenenza al Creatore quale Padre comune. Dinanzi a lui, in tutta la verità del loro corpo, della loro mascolinità e femminilità, erano anzitutto «fratello» e «sorella», nell’unione della stessa umanità («tutti e due erano nudi, ma non ne provavano vergogna»: Gen 2, 25). E questa reciproca relazione «fratello»-«sorella» è stata in loro costituita come il primo fondamento della comunione delle persone — in certo senso, come la condizione costitutiva del reciproco destino, anche nella dimensione della vocazione per cui sarebbero dovuti divenire «marito e moglie». Quel principio prototipico del «linguaggio del corpo» di Gen 2, 23-25, viene sviluppato in modo stupendo nel Cantico dei Cantici. Esso sembra delineare quella dimensione dell’esperienza della femminilità — o piuttosto: della reciproca esperienza dell’«io» maschile e femminile — che dovrebbe consolidare il suo contenuto essenziale in ogni esperienza, perché essa non si distacchi dalla ricchezza del sacramento primordiale. Infatti stiamo facendo la presente riflessione sotto l’aspetto del segno — il segno del matrimonio — che viene costituito in base al «linguaggio del corpo» riletto nella verità.

  1. Secondo un’opinione abbastanza diffusa, le strofe del Cantico dei Cantici sono state largamente aperte a tutto ciò che racchiude il concetto di «eros». In un’altra circostanza ci siamo già occupati dei vari significati di tale concetto. Se l’«eros» si esprime nel soggettivo trasporto, quasi nella reciproca estasi del bene e del bello dell’amore — e attraverso l’amore, del bene e del bello dell’«io» femminile e maschile — il duetto degli sposi del Cantico dei Cantici per l’appunto lo testimonia. È una testimonianza pienamente autentica e originale: autentica e originale dell’autenticità e originalità della Bibbia. I termini «sorella mia, sposa» sembrano sorgere proprio da quel sostrato e soltanto in base ad esso possono essere adeguatamente interpretati.

«Ma unica è la mia colomba, la mia perfetta,

ella è l’unica di sua madre,

la preferita della sua genitrice» (Ct 6, 9).

  1. In relazione alla precedente trama, che potrebbe essere chiamata trama «fraterna», emerge nell’amoroso duetto del Cantico dei Cantici un’altra trama, diciamo: un altro sostrato del contenuto. Possiamo esaminarla, partendo da certe locuzioni che nell’insieme del poema sembrano avere un significato-chiave. Questa trama (oppure sostrato) non è mai nel Cantico dei Cantici presentata in modo esplicito. Conviene piuttosto osservare che essa passa attraverso tutto il poema, sebbene si manifesti espressamente solo in alcune cadenze poetiche. Ecco, parla lo sposo:

«Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata» (Ct 4, 12).

  1. Non possiamo limitarci ad un sommario sguardo della bellezza poetica di queste metafore. Non è soltanto bellezza del linguaggio, ma bellezza della verità, espressa con questo linguaggio. In quanto l’appellativo «sorella» porta con sé tutta la semplicità della profondità che lo sposo e la sposa pongono nella reciproca rilettura del «linguaggio del corpo», in tanto le metafore ora citate sembrano ad un tempo confermare e sorpassare ciò che è stato espresso nel termine «sorella».Nel termine «sorella mia, sposa» l’uomo unisce l’amore sponsale che sta per formarsi, con tale rilettura del «linguaggio del corpo» in cui l’«io» femminile gli parla col suo contenuto «fraterno». Le metafore appena citate: «giardino chiuso, fontana sigillata» rivelano la presenza di un’altra visione dello stesso «io» femminile.

 

  1. La femminilità determina infatti dal «principio» quel mistero, di cui parla il Libro della Genesi in relazione alla «conoscenza» dell’uomo, cioè all’«unione» con l’uomo («Adamo si unì a Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì»: Gen 4, 1). Sebbene il Cantico dei Cantici nel suo integrale contenuto non parli direttamente di quella «conoscenza», ossia «unione», tuttavia le metafore citate rimangono in rapporto indiretto ed insieme molto stretto con essa. La sposa appare agli occhi dello sposo come «giardino chiuso» e «fontana sigillata», ossia parla a lui con ciò che sembra più profondamente nascosto in tutta la struttura del suo «io» femminile, che costituisce anche il mistero strettamente personale della femminilità. La sposa si presenta agli occhi dell’uomo come padrona del proprio mistero. Si può dire che ambedue le metafore: «giardino chiuso», «fontana sigillata», esprimono tutta la dignità personale del sesso — di quella femminilità che, appartenendo alla struttura personale dell’autopossesso, può, di conseguenza, decidere non soltanto della profondità metafisica, ma anche della verità essenziale e dell’autenticità del dono personale. Questo donarsi ha la sua dimensione quando, nella prospettiva dell’amore sponsale, deve svelarsi quella «conoscenza» di cui parla il Libro della Genesi.

  1. Nel Cantico dei Cantici ci troviamo tuttavia quasi nel vestibolo di quella unione» e proprio per questo acquistano gran valore le espressioni che consentono di individuare la sua dimensione e il suo significato profondamente personali. Il linguaggio della metafore — linguaggio poetico — sembra esser in questo ambito particolarmente appropriato e preciso. La «sorella-sposa» è per l’uomo padrona del suo mistero come «giardino chiuso» e «fontana sigillata». Il «linguaggio del corpo» riletto nella verità va di pari passo con la scoperta dell’inferiore inviolabilità della persona. Nello stesso tempo, appunto questa scoperta esprime l’autentica profondità della reciproca appartenenza degli sposi: la nascente e crescente coscienza di appartenere a se stessi, di essere destinati l’uno all’altro:

«II mio diletto è per me e io per lui» (Ct 2, 16). E lo stesso altrove:

«Io sono per il mio diletto e il mio diletto

è per me; egli pascola il gregge tra i gigli» (Ct 6, 3).

  1. Questa coscienza del reciproco appartenersi risuona soprattutto sulla bocca della sposa. In certo senso ella risponde con tali parole alle parole dello sposo con cui egli l’ha riconosciuta padrona del proprio mistero. Quando la sposa dice: «II mio diletto è per me», vuole dire al tempo stesso: è colui a cui affido me stessa, e perciò ella dice: «e io per lui» (Ct 2, 16). Le apposizioni: «mio» e «mia», affermano qui tutta la profondità di quell’affidamento, che corrisponde alla verità interiore della persona. Corrisponde inoltre al significato sponsale della femminilità in relazione ali’«io» maschile, cioè al «linguaggio del corpo» riletto nella verità della dignità personale. Questa verità venne pronunciata da parte dello sposo con la metafora del «giardino chiuso» e della «fontana sigillata». La sposa gli risponde con le parole del dono, cioè dell’affidamento di se stessa. Come padrona della propria scelta, dice: «io sono per il mio diletto». Il Cantico dei Cantici rileva sottilmente la verità interiore di questa risposta. La libertà del dono è risposta alla profonda coscienza del dono, espressa nelle parole dello sposo. Mediante tale verità e libertà si costruisce l’amore, che diviene così amore autentico.