UDIENZA GENERALE – 18 novembre 1981
- «Voi vi ingannate, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio» (Mt 22,29), così disse Cristo ai Sadducei, i quali – rifiutando la fede nella futura risurrezione dei corpi – Gli avevano esposto il caso seguente: «C’erano tra noi sette fratelli; il primo appena sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello» (secondo la legge mosaica del «levirato»); «così anche il secondo, e il terzo, fino al settimo. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. Alla risurrezione, di quale dei sette essa sarà moglie?» (Mt 22,25-28).
Cristo replica ai Sadducei affermando, all’inizio e alla fine della sua risposta, che essi sono in grande errore, non conoscendo né le Scritture né la potenza di Dio (cfr. Mc 12,24; Mt 22,29). Dato che il colloquio con i Sadducei è riportato da tutti e tre i Vangeli Sinottici, confrontiamo brevemente i relativi testi. 2. La versione di Matteo (22,24-30), benché non faccia riferimento al roveto, concorda quasi interamente con quella di Marco (12,18-25). Entrambe le versioni contengono due elementi essenziali: 1) l’enunciazione sulla futura risurrezione dei corpi, 2) l’enunciazione sullo stato dei corpi degli uomini risorti. Questi due elementi si trovano anche in Luca (20,27-36). Il primo elemento, concernente la futura risurrezione dei corpi, è congiunto, specialmente in Matteo e in Marco, con le parole indirizzate ai Sadducei, secondo cui essi non conoscono «né le Scritture né la potenza di Dio». Tale affermazione merita un’attenzione particolare, perché proprio in essa Cristo puntualizza le basi stesse della fede nella risurrezione, a cui aveva fatto riferimento nel rispondere alla questione posta dai Sadducei con l’esempio concreto della legge mosaica del levirato. 3. Senza dubbio, i Sadducei trattano la questione della risurrezione come un tipo di teoria o di ipotesi, suscettibile di superamento. Gesù dimostra loro prima un errore di metodo: non conoscono le Scritture; e poi un errore di merito: non accettano ciò che viene rivelato dalle Scritture – non conoscono la potenza di Dio – non credono in Colui che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente.
E’ una risposta molto significativa e molto precisa. Cristo s’incontra qui con uomini, che si reputano esperti e competenti interpreti delle Scritture. A questi uomini – cioè ai Sadducei – Gesù risponde che la sola conoscenza letterale della Scrittura non è sufficiente. La Scrittura infatti è soprattutto un mezzo per conoscere la potenza del Dio vivo, che in essa rivela se stesso, così come si è rivelato a Mosè nel roveto. In questa rivelazione Egli ha chiamato se stesso «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe» – di coloro dunque che erano stati i capostipiti di Mosè nella fede che scaturisce dalla rivelazione del Dio vivente. Tutti quanti sono ormai morti da molto tempo; tuttavia Cristo completa il riferimento a loro con l’affermazione che Dio «Non è Dio dei morti, ma dei vivi». Questa affermazione-chiave, in cui Cristo interpreta le parole rivolte a Mosè dal roveto ardente, può essere compresa solo se si ammette la realtà di una vita, a cui la morte non pone fine. I padri di Mosè nella fede, Abramo, Isacco e Giacobbe, sono per Dio persone viventi (cfr. Lc 20,38), sebbene, secondo i criteri umani, debbano essere annoverati fra i morti. Rileggere correttamente la Scrittura, e in particolare le suddette parole di Dio, vuol dire conoscere e accogliere con la fede la potenza del Datore della vita, il quale non è vincolato dalla legge della morte, dominatrice nella storia terrena dell’uomo. 4. Sembra che in tal modo sia da interpretare la risposta di Cristo sulla possibilità della risurrezione, data ai Sadducei, secondo la versione di tutti e tre i Sinottici. Verrà il momento in cui Cristo darà la risposta, in questa materia, con la propria risurrezione; per ora, tuttavia, Egli si richiama alla testimonianza dell’Antico Testamento, dimostrando come scoprirvi la verità sull’immortalità e sulla risurrezione. Bisogna farlo non soffermandosi soltanto al suono delle parole, ma risalendo anche alla potenza di Dio, che da quelle parole viene rivelata. Il richiamarsi ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe in quella teofania concessa a Mosè, di cui leggiamo nel Libro dell’Esodo (Es 3,2-6), costituisce una testimonianza che il Dio vivo dà a coloro che vivono «per Lui»: a coloro che grazie alla sua potenza hanno la vita, anche se, stando alle dimensioni della storia, occorrerebbe da molto tempo annoverarli tra i morti. 5. Il significato pieno di questa testimonianza, a cui Gesù si riferisce nel suo colloquio con i Sadducei, si potrebbe (sempre soltanto alla luce dell’Antico Testamento) cogliere nel modo seguente: Colui che è – Colui che vive e che è la Vita – costituisce l’inesauribile fonte dell’esistenza e della vita, così come si è rivelato in «principio», nella Genesi (cfr. Gen 1-3). Sebbene, a causa del peccato, la morte corporale sia divenuta la sorte dell’uomo (cfr. Gen 3,19), e sebbene l’accesso all’albero della Vita (grande simbolo del Libro della Genesi) gli sia stato interdetto (cfr. Gen 3,22), tuttavia il Dio vivente, stringendo la sua Alleanza con gli uomini (Abramo – patriarchi, Mosè, Israele), rinnova continuamente, in questa alleanza, la realtà stessa della Vita, ne svela di nuovo la prospettiva e in un certo senso apre nuovamente l’accesso all’albero della Vita. Insieme con l’Alleanza, questa vita, la cui sorgente è Dio stesso, viene partecipata a quegli stessi uomini che, in conseguenza della rottura della prima Alleanza, avevano perduto l’accesso all’albero della Vita, e nelle dimensioni della loro storia terrena erano stati sottoposti alla morte. 6. Cristo è l’ultima parola di Dio su questo argomento; infatti l’Alleanza, che con Lui e per Lui viene stabilita tra Dio e l’umanità, apre una infinita prospettiva di Vita: e l’accesso all’albero della Vita – secondo l’originario piano del Dio dell’Alleanza – viene rivelato ad ogni uomo nella sua definitiva pienezza. Sarà questo il significato della morte e della risurrezione di Cristo, sarà questa la testimonianza del mistero pasquale. Tuttavia il colloquio con i Sadducei si svolge nella fase pre-pasquale della missione messianica di Cristo. Il corso del colloquio secondo Matteo (22,24-30), Marco (12,27-28), e Luca (20,27-36) manifesta che Cristo – il quale più volte, in particolare nei colloqui con i suoi discepoli, aveva parlato della futura risurrezione del Figlio dell’uomo (cfr. Mt 17,9.23; 20,19) – nel colloquio con i Sadducei invece non si richiama a questo argomento. Le ragioni sono ovvie e chiare. Il colloquio si svolge con i Sadducei, «i quali affermano che non c’è risurrezione» (come sottolinea l’evangelista), cioè mettono in dubbio la stessa sua possibilità, e nel contempo si considerano esperti della Scrittura dell’Antico Testamento, e suoi interpreti qualificati. Ed è perciò che Gesù si riferisce all’Antico Testamento e in base ad esso dimostra loro che «non conoscono la potenza di Dio». 7. Riguardo alla possibilità della risurrezione, Cristo si richiama appunto a quella potenza, che va di pari passo con la testimonianza del Dio vivo, che è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, e il Dio di Mosè. Il Dio, che i Sadducei «privano» di questa potenza, non è più il Dio vero dei loro Padri, ma il Dio delle loro ipotesi ed interpretazioni. Cristo invece è venuto per dare testimonianza al Dio della Vita in tutta la verità della sua potenza che si dispiega sulla vita dell’uomo.