UDIENZA GENERALE
Al posto delle dieci catechesi 108-117, fra i discorsi pronunciati nel periodo, ho rilevato 5 catechesi che certamente, per esplicito riferimento del Santo Padre, fanno parte delle Catechesi sull’Amore Umano che però non sono riportate sul testo “Maschio e femmina lo creò” citato.
6 giugno 1984
Abbiamo ascoltato nel brano degli Atti degli apostoli, ora proclamato, il racconto di quell’avvenimento fondamentale nella vita della Chiesa, che fu la Pentecoste. La discesa dello Spirito Santo su Maria e gli apostoli, raccolti nel cenacolo, segnò la nascita ufficiale della Chiesa e la sua presentazione al mondo.
Nel prepararci a rivivere domenica prossima quel momento decisivo, preghiamo il divino Spirito perché disponga il cuore dei fedeli ad accogliere con gioia una nuova effusione dei suoi doni. Corroborati dal fuoco del suo amore, essi sapranno farsi testimoni coraggiosi del Vangelo, portando anche a questa nostra generazione l’annuncio di Cristo redentore.
Riprendiamo ora l’argomento delle udienze dei mercoledì scorsi. 1. Anche oggi riflettiamo sul Cantico dei cantici al fine di comprendere maggiormente il segno sacramentale del matrimonio. La verità dell’amore, proclamata dal Cantico dei cantici, non può essere separata dal «linguaggio del corpo». La verità dell’amore fa sì che lo stesso «linguaggio del corpo» venga riletto nella verità. Questa è anche la verità del progressivo avvicinarsi degli sposi che cresce attraverso l’amore: e la vicinanza significa pure l’iniziazione al mistero della persona, senza però implicarne la violazione (cfr. Ct 1,13-14.16).
La verità della crescente vicinanza degli sposi attraverso l’amore si sviluppa nella dimensione soggettiva «del cuore», dell’affetto e del sentimento, la quale permette di scoprire in sé l’altro come dono e, in un certo senso, di «gustarlo» in sé (cfr. Ct 2,3-6). Attraverso questa vicinanza lo sposo vive più pienamente l’esperienza di quel dono che da parte dell’«io» femminile si unisce con l’espressione e il significato sponsali del corpo. Le parole dell’uomo (cfr. Ct 7,1-8) non contengono solo una descrizione poetica dell’amata, della sua bellezza femminea, su cui si soffermano i sensi, ma parlano del dono e del donarsi della persona.
La sposa sa che verso di lei è la «brama» dello sposo e gli va incontro con la prontezza del dono di sé (cfr. Ct 7,9-13) perché l’amore che li unisce è di natura spirituale e sensuale insieme. Ed è anche in base a quest’amore che si attua la rilettura nella verità del significato del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono in comune costituire quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su tutta la loro vita. 2. Nel Cantico dei cantici il «linguaggio del corpo» è inserito nel singolare processo della reciproca attrattiva dell’uomo e della donna, che viene espresso nei frequenti ritornelli che parlano della ricerca piena di nostalgia, di sollecitudine affettuosa (cfr. Ct 2,7) e del vicendevole ritrovarsi degli sposi (cfr. Ct 5,2). Ciò porta loro gioia e quiete e sembra indurli a una ricerca continua. Si ha l’impressione che, incontrandosi, raggiungendosi, sperimentando la propria vicinanza, continuino incessantemente a tendere a qualcosa: cedano alla chiamata di qualcosa che sovrasta il contenuto del momento e oltrepassa i limiti dell’eros, riletti nelle parole del mutuo «linguaggio del corpo» (cfr. Ct 1,7-8; 2,17).
Questa ricerca ha la sua dimensione interiore: «il cuore veglia» perfino nel sonno. Questa aspirazione nata dall’amore sulla base del «linguaggio del corpo» è una ricerca del bello integrale, della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca di perfezione che contiene, direi, la sintesi della bellezza umana, bellezza dell’anima e del corpo.
Nel Cantico dei cantici l’eros umano svela il volto dell’amore sempre alla ricerca e quasi mai appagato. L’eco di questa inquietudine percorre le strofe del poemetto: «Ho aperto allora al mio diletto, / il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. / Io venni meno, ma non l’ho trovato, / l’ho chiamato ma non m’ha risposto» (Ct 5,6). «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate il mio diletto / che cosa gli racconterete? / Che sono malata d’amore» (Ct 5,9). 3. Dunque alcune strofe del Cantico dei cantici presentano l’eros come la forma dell’amore umano, in cui operano le energie del desiderio. Ed è in esse che si radica la coscienza ossia la certezza soggettiva del reciproco, fedele ed esclusivo appartenersi. Al tempo stesso, però, molte altre strofe del poema ci impongono di riflettere sulla causa della ricerca e dell’inquietudine che accompagnano la coscienza dell’essere l’uno dell’altra. Questa inquietudine fa parte anch’essa della natura dell’eros? Se così fosse, tale inquietudine indicherebbe pure la necessità dell’autosuperamento. La verità dell’amore si esprime nella coscienza del reciproco appartenersi, frutto dell’aspirazione e della ricerca vicendevole e della necessità dell’aspirazione e della ricerca, esito del reciproco appartenersi.
In tale necessità interiore, in tale dinamica di amore, si svela indirettamente la quasi impossibilità di appropriarsi e impossessarsi della persona da parte dell’altra. La persona è qualcuno che sovrasta tutte le misure di appropriazione e padroneggiamento, di possesso e di appagamento, che emergono dallo stesso «linguaggio del corpo». Se lo sposo e la sposa rileggono questo «linguaggio» nella piena verità della persona e dell’amore, giungono alla sempre più profonda convinzione che l’ampiezza della loro appartenenza costituisce quel dono reciproco in cui l’amore si rivela «forte come la morte», cioè risale fino agli ultimi limiti del «linguaggio del corpo» per superarli. La verità dell’amore interiore e la verità del dono reciproco chiamano, in un certo senso, continuamente lo sposo e la sposa – attraverso i mezzi di espressione del reciproco appartenersi e perfino staccandosi da quei mezzi – a pervenire a ciò che costituisce il nucleo del dono da persona a persona. 4. Seguendo i sentieri delle parole tracciate dalle strofe del Cantico dei cantici sembra che ci avviciniamo dunque alla dimensione in cui l’«eros» cerca di integrarsi, mediante ancora un’altra verità dell’amore. Secoli dopo – alla luce della morte e risurrezione di Cristo – questa verità la proclamerà Paolo di Tarso, con le parole della lettera ai Corinzi: «La carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine» (1Cor 13,4-8).
La verità sull’amore, espressa nelle strofe del Cantico dei cantici viene confermata alla luce di queste parole paoline? Nel Cantico leggiamo, ad esempio sull’amore, che la sua «gelosia» è «tenace come gli inferi» (Ct 8,6), e nella lettera paolina leggiamo che «non è invidiosa la carità». In quale rapporto sono entrambe le espressioni sull’amore? In quale rapporto sta l’amore che «è forte come la morte», secondo il Cantico dei cantici, con l’amore «che non avrà mai fine», secondo la lettera paolina? Non moltiplichiamo queste domande, non apriamo l’analisi comparativa. Sembra tuttavia che l’amore si apra, davanti a noi, in due prospettive: come se ciò, in cui l’«eros» umano chiude il proprio orizzonte, si aprisse ancora, attraverso le parole paoline, a un altro orizzonte di amore che parla un altro linguaggio; l’amore che sembra emergere da un’altra dimensione della persona e chiama, invita a un’altra comunione. Questo amare è stato chiamato col nome di «agápe» e l’agápe porta a compimento, purificandolo, l’eros.
Abbiamo così concluso queste brevi meditazioni sul Cantico dei cantici, intese ad approfondire ulteriormente il tema del «linguaggio del corpo». In questo ambito, il Cantico dei cantici ha un significato del tutto singolare.