UDIENZA GENERALE – Mercoledì, 12 Marzo 1980
1. Nella meditazione precedente, abbiamo sottoposto ad analisi la frase di Genesi 4, 1 e, in particolare, il termine “conobbe”, usato nel testo originale per definire l’unione coniugale. Abbiamo anche rilevato che questa “conoscenza” biblica stabilisce una specie di archetipo (Quanto agli archetipi, C. G. Jung li descrive come forme “a priori” di varie funzioni dell’anima: percezione di relazioni, fantasia creativa. Le forme si riempiono di contenuto con materiali dell’esperienza. Esse non sono inerti, bensì sono cariche di sentimento e di tendenza [si veda soprattutto: Die psychologischen Aspekte des Mutterarchetypus “Eranos”, 6, 1938, pp. 405-409]. Secondo questa concezione, si può incontrare un archetipo nella mutua relazione uomo-donna, relazione che si basa nella realizzazione binaria e complementare delI’essere umano in due sessi. L’archetipo si riempirà di contenuto mediante l’esperienza individuale e collettiva, e può mettere in moto la fantasia creatrice di immagini. Bisognerebbe precisare che l’archetipo: a) non si limita né si esalta nel rapporto fisico, bensì include la relazione del “conoscere”; b) è carico di tendenza: desiderio-timore, dono-possessione; c) l’archetipo, come protoimmagine [“Urbild”] è generatore di immagini [“Bilder”]. Il terzo aspetto ci permette di passare all’ermeneutica, in concreto quella di testi della Scrittura e della Tradizione. Il linguaggio religioso primario è simbolico [cf. W. Stählin, Symbolon, 1958; I. Macquarrie, God Talk, 1968; T. Fawcett, The Symbolic Language of Religion, 1970]. Tra i simboli, egli ne preferisce alcuni radicali o esemplari, che possiamo chiamare archetipali. Orbene, tra di essi la Bibbia usa quello della relazione coniugale, concretamente al livello del “conoscere” descritto. Uno dei primi poemi biblici, che applica l’archetipo coniugale alle relazioni di Dio col suo popolo, culmina nel verbo commentato: “Conoscerai il Signore” [Os 2,22: weyadacta ‘et Yhwh; attenuato in “Conoscerà che io sono il Signore” = wydct ky ‘ny Yhwh: Is 49,23; 60,16; Ez 16,62, che sono i tre poemi “coniugali”]. Di qui parte una tradizione letteraria, che culminerà nell’applicazione Paolina di Efesini 5 a Cristo e alla Chiesa; poi passerà alla tradizione patristica e a quella dei grandi mistici [per esempio S. Giovanni della Croce, Llama de amor viva]. Nel trattato Grundzüge der Literatur – und Sprachwissenschaft, vol. I, München 1976, IV ed., p. 462, così si definiscono gli archetipi: “Immagini e motivi arcaici, che secondo Jung formano il contenuto dell’inconscio collettivo comune a tutti gli uomini; essi presentano dei simboli, che in tutti i tempi e presso tutti i popoli rendono vivo in maniera immaginosa ciò che per l’umanità è decisivo quanto ad idee, rappresentazioni e istinti”. Freud, a quanto risulta, non utilizza il concetto di archetipo. Egli stabilisce una simbolica o codice di corrispondenze fisse tra immagini presenti-patenti e pensieri latenti. Il senso dei simboli è fisso, anche se non unico; essi possono essere riducibili ad un pensiero ultimo irriducibile a sua volta, che suole essere qualche esperienza dell’infanzia. Questi sono primari e di carattere sessuale [però non li chiama archetipi]. Si veda T. Todorov, Théories da symbol, Paris 1977, pp. 317ss.; inoltre: J. Jacoby, Komplex, Archetyp, Symbol in der Psychologie C. G. Jungs, Zürich 1957.) personale della corporeità e sessualità umana. Ciò sembra assolutamente fondamentale per comprendere l’uomo, che fin dal “principio” è alla ricerca del significato del proprio corpo. Questo significato sta alla base della stessa teologia del corpo. Il termine “conobbe” – “si unì” (Gen 4,1-2) sintetizza tutta la densità del testo biblico finora analizzato. L’“uomo” che, secondo Genesi 4,1 per la prima volta, “conosce” la donna, sua moglie, nell’atto dell’unione coniugale, è infatti quello stesso che, imponendo i nomi, cioè anche “conoscendo”, si è “differenziato” da tutto il mondo degli esseri viventi o animalia, affermando se stesso come persona e soggetto. La “conoscenza”, di cui parla Genesi 4,1, non lo allontana né può allontanarlo dal livello di quella primordiale e fondamentale autocoscienza. Quindi – qualsiasi cosa ne affermasse una mentalità unilateralmente “naturalistica” – in Genesi 4,1 non può trattarsi di un’accettazione passiva della propria determinazione da parte del corpo e del sesso, proprio perché si tratta di “conoscenza”!
È, invece, una ulteriore scoperta del significato del proprio corpo, scoperta comune e reciproca, così come comune e reciproca è dall’inizio l’esistenza dell’uomo, che “Dio creò maschio e femmina”. La conoscenza, che stava alla base della solitudine originaria dell’uomo, sta ora alla base di quest’unità dell’uomo e della donna, la cui chiara prospettiva è stata racchiusa dal Creatore nel mistero stesso della creazione (Gen 1,27; 2,23). In questa “conoscenza”, l’uomo conferma il significato del nome “Eva”, dato a sua moglie, “perché essa fu madre di tutti i viventi” (Gen 3,20).
2. Secondo Genesi 4,1 colui che conosce è l’uomo e colei che è conosciuta è la donna-moglie, come se la specifica determinazione della donna, attraverso il proprio corpo e sesso, nascondesse ciò che costituisce la profondità stessa della sua femminilità. L’uomo, invece, è colui che – dopo il peccato – ha sentito per primo la vergogna della sua nudità, e per primo ha detto: “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3,10). Occorrerà ancora tornare separatamente allo stato d’animo di entrambi dopo la perdita dell’innocenza originaria. Già fin d’ora, però, bisogna costatare che nella Genesi 4,1, il mistero della femminilità si manifesta e si rivela fino in fondo mediante la maternità, come dice il testo: “la quale concepì e partorì”. La donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della nuova vita umana che in essa è concepita e si sviluppa, e da essa nasce al mondo. Così si rivela anche fino in fondo il mistero della mascolinità dell’uomo, cioè il significato generatore e “paterno” del suo corpo.(La paternità è uno degli aspetti dell’umanità più rilevanti nella Sacra Scrittura. Il testo di Genesi 5 3: “Adamo… generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio” si ricollega Esplicitamente al racconto della creazione dell’uomo [Gen 1, 27; 5,1] e sembra attribuire al padre terrestre la partecipazione all’opera divina di trasmettere la vita, e forse anche a quella gioia presente all’affermazione: “vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” [Gen 1,31].)
3. La teologia del corpo, contenuta nel Libro della Genesi, è concisa e parca di parole. Nello stesso tempo, vi trovano espressione contenuti fondamentali, in un certo senso primari e definitivi. Tutti si ritrovano a loro modo, in quella biblica “conoscenza”. Differente, rispetto all’uomo, è la costituzione della donna; anzi, oggi sappiamo che è differente fino alle determinanti biofisiologiche più profonde. Essa si manifesta al di fuori soltanto in una certa misura, nella costruzione e nella forma del suo corpo. La maternità manifesta tale costituzione al di dentro, come particolare potenzialità dell’organismo femminile, che con peculiarità creatrice serve al concepimento e alla generazione dell’essere umano, col concorso dell’uomo. La “conoscenza” condiziona la generazione.
La generazione è una prospettiva, che uomo e donna inseriscono nella loro reciproca “conoscenza”. Questa, perciò, oltrepassa i limiti di soggetto-oggetto, quali uomo e donna sembrano essere a vicenda, dato che la “conoscenza” indica da una parte colui che “conosce” e dall’altra colei che “è conosciuta” (o viceversa). In questa “conoscenza” si racchiude anche la consumazione del matrimonio, lo specifico consummatum; così si ottiene il raggiungimento della “oggettività” del corpo, nascosta nelle potenzialità somatiche dell’uomo e della donna, ed insieme il raggiungimento della oggettività dell’uomo che “è” questo corpo. Mediante il corpo, la persona umana è “marito” e “moglie”; in pari tempo, in questo particolare atto di “conoscenza”, mediato dalla femminilità e mascolinità personali, sembra raggiungersi anche la scoperta della “pura” soggettività del dono: cioè, la mutua realizzazione di sé nel dono.
4. La procreazione fa sì che “l’uomo e la donna (sua moglie)” si conoscano reciprocamente nel “terzo”, originato da ambedue. perciò, questa “conoscenza” diventa una scoperta, in certo senso una rivelazione del nuovo uomo, nel quale entrambi, uomo e donna, riconoscono ancora se stessi, la loro umanità, la loro viva immagine. In tutto ciò che viene determinato da entrambi attraverso il corpo ed il sesso, la “conoscenza” iscrive un contenuto vivo e reale. Pertanto, la “conoscenza” in senso biblico significa che la determinazione “biologica” dell’uomo, da parte del suo corpo e sesso, cessa di essere qualcosa di passivo, e raggiunge un livello e un contenuto specifici alle persone autocoscienti e autodeterminanti; quindi essa comporta una particolare coscienza del significato del corpo umano legata alla paternità e alla maternità.
5. Tutta la costituzione esteriore del corpo della donna, il sua particolare aspetto, le qualità che con la forza di una perenne attrattiva stanno all’inizio della “conoscenza”, di cui parla Genesi 4,1-2 (“Adamo si unì a Eva sua moglie”), sono in stretta unione con la maternità. La Bibbia (e in seguito la liturgia), con la semplicità che le è propria, onora e loda lungo i secoli “il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte” (Lc 11,27). Queste parole costituiscono un elogio della maternità, della femminilità, del corpo femminile nella sua tipica espressione dell’amore creatore. E sono parole riferite nel Vangelo alla Madre di Cristo, Maria, seconda Eva. La prima donna, invece, nel momento in cui per la prima volta si rivelò la maturità materna del suo corpo, quando “concepì e partorì”, disse: “Ho acquistato un uomo dal Signore” (Gen 4,1).
6. Queste parole esprimono tutta la profondità teologica della funzione di generare-procreare. Il corpo della donna diventa luogo del concepimento del nuovo uomo. (Secondo il testo di Genesi 1, 26 la “chiamata” all’esistenza è nello stesso tempo trasmissione dell’immagine e della somiglianza divina. L’uomo deve procedere a trasmettere quest’immagine, continuando così l’opera di Dio. Il racconto della generazione di Set sottolinea questo aspetto: “Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio” [Gen 5,3].
Dato che Adamo e Eva erano immagine di Dio, Set eredita dai genitori questa somiglianza per trasmetterla agli altri. Nella S. Scrittura, però, ogni vocazione è unita ad una missione; quindi la chiamata all’esistenza è già predestinazione all’opera di Dio: “Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” [Ger 1,5; cf. anche Is 44,1; 49,1.5].
Dio è colui che non soltanto chiama all’esistenza, ma sostiene e sviluppa la vita fin dal primo momento del concepimento: “Sei tu che mi hai tratto dal grembo, / mi hai fatto riposare sul petto di mia madre. / Al mio nascere tu mi hai accolto, / dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio” [Sal 22,10.11; cf. Sal 139,13-15].
L’attenzione dell’autore biblico si accentra sul fatto stesso del dono della vita. L’interessamento per il modo in cui ciò avviene è piuttosto secondario e appare soltanto nei libri posteriori [cf. Gb 10,8.11; 2 Mac 7,22-23; Sap 7,1-3].) Nel suo grembo, l’uomo concepito assume il suo aspetto umano proprio, prima di essere messo al mondo. L’omogeneità somatica dell’uomo e della donna, che ha trovato la sua prima espressione nelle parole: “È carne della mia carne e osso delle mie ossa” (Gen 2,23), è confermata a sua volta dalle parole della prima donna-madre: “Ho acquistato un uomo!”. La prima donna partoriente ha piena consapevolezza del mistero della creazione, che si rinnova nella generazione umana. Ha anche piena consapevolezza della partecipazione creativa che Dio ha nella generazione umana, opera sua e di suo marito, poiché dice: “Ho acquistato un uomo dal Signore”.
Non può esservi alcuna confusione tra le sfere d’azione delle cause. I primi genitori trasmettono a tutti i genitori umani – anche dopo il peccato, insieme al frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e quasi alla soglia di tutte le esperienze “storiche” – la verità fondamentale circa la nascita dell’uomo a immagine di Dio, secondo le leggi naturali. In questo nuovo uomo – nato dalla donna-genitrice per opera dell’uomo-genitore – si riproduce ogni volta la stessa “immagine di Dio”, di quel Dio che ha costituito l’umanità del primo uomo: “Dio creò l’uomo a sua immagine; …maschio e femmina li creò” (Gen 1,27).
7. Sebbene esistano profonde differenze tra lo stato d’innocenza originaria e lo stato di peccaminosità ereditaria dell’uomo, quella “immagine di Dio” costituisce una base di continuità e di unità. La “conoscenza”, di cui parla Genesi 4,1, è l’atto che origina l’essere, ossia in unione col Creatore stabilisce un nuovo uomo nella sua esistenza. Il primo uomo, nella sua solitudine trascendentale, ha preso possesso del mondo visibile, creato per lui, conoscendo e imponendo i nomi agli esseri viventi (animalia). Lo stesso “uomo”, come maschio e femmina, conoscendosi reciprocamente in questa specifica comunità-comunione di persone, nella quale l’uomo e la donna si uniscono così strettamente tra loro da diventare “una sola carne”, costituisce l’umanità, cioè conferma e rinnova l’esistenza dell’uomo quale immagine di Dio. Ogni volta entrambi, uomo e donna, riprendono, per così dire, questa immagine dal mistero della creazione e la trasmettono “con l’aiuto di Dio-Jahvè”.
Le parole del Libro della Genesi, che sono una testimonianza della prima nascita dell’uomo sulla terra, racchiudono contemporaneamente in sé tutto ciò che si può e si deve dire della dignità della generazione umana.